E
nel 2005?
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di Beppe
Colli
Jan.
9, 2005
Il
2005 si apre con una notizia che non è azzardato definire clamorosa:
chiude l’ultima fabbrica al mondo rimasta a fabbricare nastro audio
analogico per uso professionale. La fabbrica è quella di Opelika,
in Alabama, posseduta dalla Quantegy. Si parla di ristrutturazione,
di amministrazione controllata, di problemi di natura finanziaria per
un impianto che da ultimo impiegava 250 lavoratori a fronte dei 1.800
dei tempi d’oro, quando ancora portava quel glorioso nome di Ampex che
per molti è sinonimo di nastro. Una situazione – quella della
crisi di un’azienda che operava in regime di monopolio mondiale (in
Europa l’ex BASF, e già AGFA, Emtec aveva chiuso da tempo) –
che la dice lunga sull’arretramento dell’analogico.
Passano
ben tre giorni – nel mondo di Internet un’enormità – prima che
la notizia approdi sul solitamente attento Slashdot. Ma già da
tre giorni il fatto era oggetto di animato – anche se per molti versi
rassegnato – dibattito in quei forum dove discutono tecnici e produttori,
su tutti quello che vede in veste di moderatore George Massenburg; ovviamente
immancabile l’agguerrita presenza di uno dei campioni storici dell’analogico:
Steve Albini.
Saremmo
pronti a scommettere che con la sola eccezione dei giornali cartacei
che si occupano professionalmente di questo genere di cose la notizia
morirà lì, su quei furum. "Poco interessante. Poco
stimolante. Di taglio troppo alto. Di difficile comprensione. Di scarsa
rilevanza." Motivi se ne possono trovare a iosa. Quanto le modalità
tecniche di produzione della musica influenzino il risultato finale
– a volte ben oltre le intenzioni coscienti di produttori, tecnici e
musicisti – è fatto che non sembra di molto interesse. Ammesso
che se ne abbia coscienza.
Il che
è assolutamente paradossale, posto che a fronte di digitalizzazioni
sempre più spinte – laddove un rullante "digitally remastered"
di un album dei Family degli anni sessanta non è più granché
distinguibile da uno di Dr. Dre – si continua a ragionare di musica
avendo come oggetto quella che ormai è solo un’astrazione cui
non corrisponde nulla di concreto. Ovviamente pronti al salto sull’iPod.
Anche quest’anno Jason Gross ha prodotto
la consueta rassegna dedicata ai migliori scritti (ma c’è anche
un discreto drappello di "peggiori") che trattano di musica.
Il tutto, sotto il titolo di Best Music Scribing Awards, 2004 (a occhio
si tratta di 150 pezzi, presentati con sommario, commento e link), consultabile
sul benemerito Rockcritics.com.
Un esame
delle fonti ci dice immediatamente che la stragrande maggioranza dei
pezzi – non pochi dei quali portano firme note – è apparsa su
quotidiani e periodici "non specializzati". Il che, ovviamente,
non è da tempo una novità. Una volta appannaggio di una
minoranza rumorosa, la musica nelle sue numerose manifestazioni – talvolta
anche le più estreme – fa parte dell’elevato rumore di fondo
che (almeno fino alla prossima crisi energetica) caratterizza il mondo
moderno. Logico, quindi, che essa trovi ampio spazio su quei giornali
di taglio alto che non di rado sono rifugio per penne stanche del trendismo
di stampo televisivo e del crescente analfabetismo dei lettori più
giovani.
Ovviamente non sono tutte rose e fiori – e quale argomento culturale
è oggi immune da richieste di "più brevità,
e foto più grandi"? Ma i tempi in cui era del tutto autoevidente
che era la stampa specializzata a offrire il meglio sono ormai lontani:
tirature ridotte e collaboratori dalle orecchie stremate che non di
rado vedono nella vendita dei CD ricevuti la più sostanziosa
forma di guadagno non sembrano certo giocare a favore dell’approfondimento
e dell’affidabilità. (Che i giornali si occupino tutti insieme
di un disco lungamente atteso è solo logico. Ma che giornali
non collegati possano scoprire tutti insieme la stessa pietra preziosa
sotto forma di nome esordiente nel numero pressoché infinito
di uscite mensili è fatto che sfida la logica e le leggi della
statistica.)
Diremmo che la grande novità dello
scorso anno è data dall’aumento delle vendite dei CD: negli Stati
Uniti la crescita appare quantificabile in un 2.3%, nel Regno Unito
nel 3% – il che ha portato le vendite UK al numero record di 237 milioni.
La cosa ci è apparsa ancor più degna di nota dopo che
un articolo a firma Dorian Lynskey intitolato Can One Live On Free CDs
Alone? apparso lo scorso primo settembre sul quotidiano anglosassone
The Guardian ci ha rivelato che una buona parte dei giornali inglesi
offre in omaggio un CD dal contenuto tutt’altro che scadente. Quali
siano le implicazioni per il contenuto di quei giornali musicali che
fanno del CD un aspetto privilegiato della loro strategia per la conquista
di quote di mercato crediamo sia cosa non troppo difficile da indovinare.
Nel corso degli ultimi anni ci è
capitato abbastanza spesso di rimanere delusi dall’ascolto di un nuovo
album di un gruppo a noi caro e di giudicare il lavoro in questione
ben al di sotto di pur neutre aspettative. Più di una volta abbiamo
dovuto concludere che il problema principale era costituito dal lavoro
di registrazione e di missaggio. Il punto è che per molti gruppi
la "sapienza analogica" era a tal punto nell’ordine naturale
delle cose da non essere più percepita quale fattore (potenzialmente)
problematico. Caduto l’analogico, andare su un sistema quale Pro Tools
è stato per molti la scelta più logica e pratica (leggi:
economica). Ma i problemi (e le soluzioni) del digitale necessitano
di una lunga pratica specifica e di tutta una serie di accorgimenti
non necessariamente più economici della vecchia pratica analogica.
Tanto più se gli strumentisti (e la musica) godono di una spiccata
riconoscibilità che intende essere mantenuta come tale.
Tre mesi
fa il mensile statunitense Guitar Player presentava quale servizio di
copertina una bella carrellata dal titolo The 50 Greatest Guitar Tones
Of All Time. Che dire adesso di una musica – e di timbri – resi anonimi
da un uso dei sistemi di registrazione non adeguato al compito? Conosciamo
già la possibile obiezione: sono queste le possibilità
economiche dei musicisti in questione; e se il "gruppo" vede
i suoi componenti sparpagliati ai quattro angoli della terra, che altre
soluzioni possibili si danno? Vero. Non è un dilemma di facile
soluzione. Ma la soluzione può essere nelle cose: con i musicisti
a fare del loro meglio, e i vecchi ammiratori a dare un triste addio,
stufi di ascoltare cose tirate via.
Frattanto dal fronte concertistico giungono
notizie poco rassicuranti. Stante le possibili eccezioni, diciamo qui
di presenze scarse, di attenzione ondivaga, di recarsi a un concerto
come fatto ludico, di scarsa educazione, di un assoluto disinteresse
di fondo per la musica suonata. Crediamo però che la prima domanda
da porsi sia se un modo di relazionarsi di tipo televisivo non si trovi
alla base di un atteggiamento di indifferenza per la produzione di musica
in tempo reale di cui il play-back dello spettacolo danzereccio e la
musica in scatola dell’esibizione laptop non sono che due facce della
stessa medaglia.
Alla fine dello scorso mese di novembre Clouds
and Clocks ha girato la boa del secondo compleanno. Avevamo pensato
di scrivere qualcosa in proposito quando la decisione da parte del nostro
provider di effettuare una migrazione di server ha oscurato il sito
per qualche giorno. Niente editoriale commemorativo, dunque.
Il lettore
può a questo punto, sol che lo voglia, rileggere l’editoriale
nel quale due anni fa mettevamo nero su bianco i nostri intendimenti
e controllare se gli impegni presi siano stati mantenuti.
©
Beppe Colli 2005
CloudsandClocks.net
| Jan. 9, 2005