Elio
Martusciello
Concrete Songs
(Ticonzero)
Apprendere
dell’imminente pubblicazione di un nuovo album solista di Elio Martusciello
è stato per chi scrive fonte di piacevole sorpresa: se già stimavamo Martusciello
per il suo lavoro all’interno della pregevole formazione denominata Ossatura,
è stato solo con Unoccupied Areas (del 2005 –
controllare adesso la data di uscita di quell’album fa sorgere in noi il
dubbio di aver perso qualche puntata della storia) che la caratura del
musicista ci è apparsa in tutta evidenza.
Sapere
che il titolo del nuovo lavoro è Concrete Songs è stato per noi del tutto
naturale – e assolutamente inatteso: se la parola Concrete non poteva non
rimandare alla pratica di quella Musica Concreta che diremmo una delle
influenze formative più importanti per il modo in cui Martusciello concepisce
il suo fare musica, il termine Songs ci sembrava suonare poco consonante
con i trascorsi (o perlomeno, quelli a noi noti) del musicista. Frattanto
la copertina indicava Mike Cooper e Sabina Meyer (nomi che non ci sembrano
necessitare di particolari presentazioni) quali voci dell’album. Data un’occhiata
distratta all’elenco dei musicisti coinvolti (un numero enorme), constatata
l’assenza di testi (fatto ben strano in un album di canzoni), decidiamo
di passare immediatamente all’ascolto.
Primo brano
dell’album, Zeit si apre con una chitarra acustica e una melodia vocale
– è la Meyer – a seguire gli accordi. Un irrompere orchestrale per archi
e rumori, la voce si moltiplica, e il tutto non ci suona lontanissimo da
certa scrittura filmica dalle tinte grigie (diciamo un documentario sulla
vita aspra di pastori greci su colline rocciose). Parimenti filmico (ma
qui siamo sui titoli di coda) ci risulta Inexplicable: lento arpeggio di
chitarra classica ad aprire, entrata di archi (dal sapore un po’ mediorientale),
una melodia vocale – è Mike Cooper – dove sarebbe perfetta la piega amara
di Charles Aznavour. Suggestivo sviluppo melodico, bell’assolo di flauto
(diremmo di legno – è Anwar Naik) che va in direzione di uno shakuachi.
Apertura
con percussioni "rovesciate", clarinetti, un rullante che sembra
quello di Chris Cutler (controlliamo: è lui), chitarra e basso sorprendentemente
funky, voce piana (è Mike Cooper), Hidden Well sembra collocarsi in un’ideale
terra di mezzo tra Marvin Gaye e i Material di Memory Serves. Sorprende
ancora di più Black Dog: arpeggio di chitarra elettrica, una condotta vocale
(ancora Mike Cooper) che ci rimanda a Peter Blegvad, cori non poco
"inglesi" e – sorpresa delle sorprese – un assolo di chitarra elettrica
dove il timbro "onda quadra" e la melodia ci dicono di un Phil
Manzanera targato 1974! (è Martusciello – che ignoravamo perfino suonasse
la chitarra).
Una melodia
per archi e l’attacco vocale di All’infinito ci rimandano per un attimo
alla Haco di Ash In The Rainbow, ma il brano vive di luce propria, pur
comprendendo – come da copertina – "Variations on a theme by Fryderyk
Chopin". Dobbiamo però confessare di preferire la dimensione più asciutta
della musicista giapponese a questo svolgimento, un po’ gonfio. Buona la
condotta vocale della Meyer, bello l’inserimento del trombone, anche trattato
(è Giancarlo Schiaffini), che in opposizione agli archi ci ha ricordato
il ruolo svolto dalla cornetta di Marc Charig su Islands dei King Crimson
(dall’album omonimo). L’unico vero appunto che ci sentiamo di rivolgere
è che avremmo preferito che il brano prendesse un po’ meno alla lettera
il suo titolo, dimezzando una durata (6′ 28") francamente eccessiva.
Ed è qui
che decidiamo di prenderci una pausa e di dare un’occhiata al libretto.
Ci sono
delle note di copertina, ma quando al terzo rigo incontriamo le parole "Jacques
Derrida" andiamo subito a prendere delle trecce d’aglio che teniamo
da parte per casi come questo (le portiamo al collo durante la lettura).
In realtà, eccezion fatta per la parola "fotologia", le cose
non vanno poi così male: Martusciello ci parla dei criteri e dei modi concreti
incorporati nel lavoro. Un lavoro, lo diciamo subito, che dev’essergli
costato non poco tempo e molti sforzi; ma sono sforzi abbondantemente ripagati
dal risultato. Che l’assemblaggio dei brani sia avvenuto secondo criteri
strettamente apparentati a quelli che ispirano la Musique Concrète è una
nozione che il musicista sembra temere non risulti sufficientemente chiara
all’ascoltatore, e una buona parte delle due pagine del libretto si muove
secondo coordinate simili. Ma se la prova del budino sta nel mangiarlo,
il risultato non è tanto lontano da quella Strawberry Fields Forever che
non ci pare necessitasse (nel 1967!) di note di copertina. Diverso (cioè
a dire, uguale) il discorso sui testi, che sono frutto del medesimo procedere
(e che per questo non ci sono).
Martusciello
giudica importante avvertirci del fatto che "In queste canzoni non
c’è alcuna struttura gerarchica, e quindi tutti i ‘materiali’ usati (compresi
voce e testi) sono assemblati e trattati in modo paritario". Confessiamo
di non riuscire a cogliere l’importanza che questa affermazione può avere
per l’ascoltatore simplex (non sappiamo invece quale possa averne in un
contesto accademico, e lo stesso vale per altre due o tre cosette presenti
nel testo). E’ ovvio che la faccenda riguarda il momento compositivo, ma
il risultato finale per come lo sentiamo offre una (evidentissima) gerarchia
(se la parola fa paura si usi "gerarchia funzionale che non implica
alcun giudizio di valore"), come provato dal volume e dalla disposizione
dei suoni nello spazio (in una cornice occidentale deve "canzone" vuol
dire una cosa, e non altre).
L’album
è ben inciso e ben missato. La nostra impressione è che l’aspetto di
"complessità nascosta" del lavoro venga maggiormente alla luce
all’aumentare del volume, il lettore è avvisato.
Parte
vocale affidata a Mike Cooper, dal punto di vista strumentale The Elephant
offre alcuni dei momenti migliori dell’album. Tappeto orchestrale dal sapore
fortemente drammatico, echi, riverberi, e trattamenti che non sembrano
troppo distanti dal lavoro di Eno di metà anni settanta. Chitarra classica,
melodia che diremmo targata U.K. anni settanta, di nuovo Mike Cooper alla
voce, di nuovo la chitarra elettrica onda quadra Phil Manzanera con una
spruzzatina floydiana, un accenno di fisarmonica (è Luca Venitucci), una
coda di violoncello (è Kees de Vrij), Swimming In Space è un episodio riuscitissimo.
Think In An Other Light apre con arpeggio di chitarra elettrica, una parte
vocale (Mike Cooper) che diremmo ricordare fortemente John Greaves, archi
finti, slide, pianoforte, vibrafono (Stefano Tedesco) e qualche ricordo
minimalista sullo sfondo.
L’affresco
gigantesco di We Have To Learn To Live In This Hybrid Space accoppia un
"cha-cha-cha orchestrale" a un’orchestra dissonante (un po’ alla
Sun Ra?) e costituisce il momento forse timbricamente più complesso. Affidata
alle voci multiple di Sabina Meyer, Vanishing Point suona come un’ideale
prosecuzione dei News From Babel, con la fisarmonica (Aurora Dessi) un po’
Zeena Parkins e il suo trattamento (lo stesso Martusciello) a rimandare ai
Biota. Bello l’impasto che vede il clarinetto basso (Gene Coleman) affiancarsi
agli archi. Ritorna la melodia "mediorientale".
Voce
ispida (Mike Cooper) e chitarre acustiche essenziali, That Are Raising
Dingy Shades, posta in chiusura, suona quasi come un "inno proletario"
(viene in mente Phil Minton).
Concrete
Songs è un buon album, che in un mondo ideale potrebbe anche avere un buon
successo di pubblico e spianare la strada a tante cose di qualità "per
un pubblico più vasto". Che Martusciello non se ne vergogni.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2011
CloudsandClocks.net
| Jan. 13, 2011