Pick of the Week #11
Steve Hillage: Fish Rising
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di Beppe Colli
Feb. 21, 2021



Per nessun motivo particolare, eccezion fatta per la semplice curiosità, ci ritroviamo a prendere in mano un LP non ascoltato da un paio di decenni ma che riteniamo di conoscere a memoria.

Un album, e un chitarrista, a proposito dei quali ci pare logico anticipare due reazioni opposte: "Oh, Steve Hillage… Da quanto tempo!" e "Ma chi è questo?".

Ed è anche una buona occasione per rivedere un periodo e un ambiente, dato che Fish Rising (1975) – applauditissimo e popolarissimo esordio solista di Steve Hillage – cristallizzava in un modo personale non ancora divenuto formula una complessa miscela di elementi in grado di essere allo stesso tempo "accessibile" e "di qualità".

Diciamo lestamente di un retroterra culturale in cui pubblico e musicisti facevano a gara a chi era più strafatto: la storia di un gruppo come i Gong – dai cui album Hillage ricavò buona parte di quella popolarità che mise Fish Rising sulla rampa di lancio – è anche la storia di una vita "allegra" e "poco calcolante". Mentre l’atteggiamento del pubblico, pur nel mutare dei "carburanti", potrebbe essere considerato il "fil rouge" che connette i raduni all’aperto dell’era "hippy" ai rave e a quella dimensione "ambient-techno" nella quale Hillage trovò una nuova e brillante carriera con i System 7.

Provando per una volta a giocare il gioco di "che musica è?" diremmo senz’altro "psychedelia", nell’accezione inglese. Ci teniamo a dirlo perché i decenni trascorsi, e il mutare degli standard qualitativi e di "manualità" che caratterizzano "l’eccellenza", potrebbero indurre l’incolpevole ascoltatore a tirar fuori etichette quali "prog", "jazz-rock" et similia.

Mentre era del rock "di allora" l’aspirazione a suonare "al limite" proprio mentre il limite veniva spostato in avanti. E se è vero che le scale suonate da Steve Hillage sono molto diverse, è anche vero che nei momenti in cui gli echi e gli effetti di phasing avvolgono la chitarra è avvertibilissima l’impronta di Jimi Hendrix, influenza che pur nel mutare delle circostanze è fin troppo facile individuare quale momento formativo supremo. E anche la compresenza di chitarre dal suono diverso in un caleidoscopio di colori che è caratteristica di Hillage non può non rimandare a Hendrix.

Hillage è già un buon chitarrista al tempo della pubblicazione di Space Shanty dei Khan (1972), album del quale pochissimi si accorsero e che venne in seguito riproposto alla cortese attenzione con in copertina in evidenza i nomi dei due musicisti ai quali il tempo trascorso aveva dato una certa notorietà: lo stesso Hillage e il tastierista Dave Stewart, degli Hatfield And The North ("brillanti, fantasiosi e di classe" è la perfetta definizione per spiegarne i magri esiti commerciali).

Hillage decide di unirsi al gruppo di Kevin Ayers, e i filmati che è oggi possibile vedere in Rete ci dicono di un musicista sicuro, tecnicamente pressoché perfetto, in grado di riempire molto spazio senza mai risultare invadente, riconoscibile nelle scale, nell’uso del pedale del volume che cancella l’attacco della nota, nell’uso di un wha-wha quasi zappiano.

Hillage partecipa al bell’album di Kevin Ayers intitolato Bananamour (1973) suonando su un solo brano, Shouting In A Bucket Blues (e non Decadence, come assurdamente affermato nelle note di copertina della versione in CD di Fish Rising di cui avremo modo di dire più avanti).

Con mossa indovinata e astuta, Daevid Allen imbarca Steve Hillage nei Gong, da cui la partecipazione ai tre album "classici" della formazione: Flying Teapot (1973), Angels Egg (1973) e You (1974). Se dovessimo consigliare uno quale momento esplorativo diremmo senz’altro il secondo, che vede presente la coppia ritmica Mike Howlett-Pierre Moerlen assente sul primo. Mentre il lodatissimo You vede una certa esuberanza delle parti strumentali sulle quali i pareri saranno fatalmente difformi.

(Un album tutt’altro che sgradito quale You divenne per noi pressoché inascoltabile a causa della diffusa abitudine di molti amici di mettere sul piatto sempre la seconda facciata, il cui brano "funky" trovavamo rigido e ingessato proprio in quella sezione ritmica che, pur tecnicamente eccellente, suonava il genere con scarsa naturalezza.)

Dopo You, dopo l’abbandono del leader del gruppo, Daevid Allen, la sorte sembrò voler designare Steve Hillage quale nuova star. La Virgin sembrò puntarci.

Se è concessa una parentesi personale, la recensione di Fish Rising apparsa sul mensile italiano Gong fu l’unica della rivista di cui nel quartier generale della Virgin ci fu chiesto cosa dicesse. E dato che la recensione era stata scritta da Giacomo Pellicciotti fummo in grado di tradurla.

(Era l’estate del 1975, la Virgin era a Notting Hill Gate e noi eravamo alloggiati a Bayswater. In quell’occasione apprendemmo con dolore che gli Hatfield & THe North si erano sciolti. In un panoramico bar all’aperto ci fu offerta una pastarella fritta con bell’aroma di cannella che al suo interno aveva del gelato alla menta dal gusto semplicemente spettacolare.)

Non dovremmo essere lontani dal vero se diciamo che i diciassette minuti della Solar Musick Suite che occupano quasi per intero la prima facciata di Fish Rising costituiscono il momento di maggiore fascino di tutto l’album. (La "suite" è in realtà articolata come la somma di momenti singoli, Hillage non è compositore di strutture di lunga durata.)

Apre un arpeggio di chitarra, parte la canzone, e siamo già ben dentro l’atmosfera. Chitarre a parte, risultano decisivi il basso di Mike Howlett e la batteria di Pierre Moerlen – i due Gong che Hillage ha saggiamente portato con sé – e le tastiere di Dave Stewart, qui impegnato in un assolo di organo riconoscibile dalle prime note e che mantiene inalterato il suo fascino.

Come su tutto l’album, e decisamente favorito dal missaggio, il basso funge da ancora e da contrappunto. Ascoltata con orecchie "moderne" la batteria risulta un po’ sacrificata, ma ci è bastato alzare solo un po’ il volume dell’amplificatore per metterne a fuoco il brillante lavoro (un esempio, il charleston/hi-hat che fa da contrappunto all’assolo di chitarra pulita sul canale destro nel secondo capitolo della suite).

Oltre alla ritmica, dei Gong troviamo anche il sassofonista e flautista Didier Melherbe, il sintetista Tim Blake e la "voce dallo spazio" Miquette Giraudy. Una presenza importante è il tecnico Simon Heyworth, che aveva co-prodotto You e che qui torna anche in veste di co-produttore. Buona parte del fascino dell’album è da attribuire alla natura "ambigua" di molti suoni – chitarra o synth? chitarra o voce? – con quel sapiente uso dei piani riverberati a farci tendere l’orecchio.

Completano la prima facciata la breve Fish e la Meditation Of The Snake, un "panorama di chitarre" che sulle prime è facile scambiare per un insieme di sintetizzatori. (Ma qui, pur nelle differenze stilistiche, ci sentiamo di dover rivolgere un pensiero al lavoro parallelo svolto da Phil Manzanera sui suoi album solisti.)

Apertura "guizzante" per The Salmon Song, lunga "canzone rock" dai molti momenti in cui si affacciano il sassofono di Malherbe e il fagotto dell’ospite Lindsay Cooper degli Henry Cow. Chitarre a go-go, belle voci, tanta grinta chitarristica.

La lunga Aftaglid – quasi un quarto d’ora, anch’essa articolata in episodi distinti – è l’unico brano che in un paio di quadretti (tabla, flauto, chitarra acustica) rimanda ai Gong. Sono i (brevi) momenti da noi sempre considerati quali gli unici deboli dell’album, e forse strizzata d’occhio ai fan del gruppo. Curioso constatare come all’acustica Hillage sia molto al di sotto della sua dimensione elettrica, ma il fatto non deve stupire troppo: era grande, all’epoca, il divario qualitativo sui due strumenti, anche nel caso di nomi illustri. Le eccezioni si contavano sulle dita di una mano: principalmente Robert Fripp, e pochi altri.

Data la qualità di Fish Rising, era grande la curiosità con cui aspettavamo di vedere cosa avrebbe combinato Hillage. Purtroppo l’album seguente – L – prodotto da Todd Rundgren con impiego del suo gruppo ci deluse non poco, e le buone vendite non ci fecero cambiare idea. E fu lì, senza clamore, che il nostro interesse per Hillage cominciò a scemare.

E’ quindi con grande curiosità che abbiamo colto l’occasione di poter vedere in Rete degli estratti concertistici di poco successivi a Fish Rising e che ne riprendono in parte il repertorio. Si tratta essenzialmente di apparizioni nel programma televisivo Old Grey Whistle Test e di un concerto al Rockpalast del 1977.

Quello che avevamo del tutto dimenticato è che il batterista "live" di questo periodo è il Clive Bunker ex Jethro Tull. Curioso e stimolante notare come il "Mitch Mitchell" interpretato da Pierre Moerlen venga rimpiazzato da un "Ginger Baker" impersonato da Clive Bunker. (Chissà se si capisce…)

Dobbiamo dire di aver gradito molto questa "scoperta", e una formazione ampia – tre synth, due chitarre, basso e batteria – che funziona alla perfezione.

Per l’ascolto di Fish Rising abbiamo usato la nostra copia, una ristampa Virgin U.K. che diremmo figlia della crisi petrolifera: copertina di cartone leggero, vinile non di prima scelta. Siamo comunque negli anni settanta, ben dentro una dimensione "all analogue".

Nel preparare questo articolo abbiamo dato un’occhiata in Rete per vedere se trovavamo qualcosa di pertinente. Salta fuori un’intervista di una decina di anni fa nel corso della quale Anil Prasad chiede a Steve Hillage delle ristampe del catalogo (del 2007) e del suo coinvolgimento.

Hillage asserisce di essere stato coinvolto, e – con nostro stupore – di avere lavorato alle note di copertina (e quello svarione, allora?). E di aver approvato la nuova masterizzazione.

Interrogato a proposito delle masterizzazioni tipiche della musica di oggi, Hillage asserisce di preferirle a quelle tipiche di un tempo, ma di trovare assurdo adottare una masterizzazione moderna per materiale inciso in altra epoca. "We went for a more subtle approach", dice a proposito delle ristampe.

Abbiamo quindi deciso di togliere la plastica dalla nostra copia acquistata una decina d’anni fa e mai aperta. Nuova masterizzazione di Paschal Byrne. Detto dei due semi-inediti che fa sempre piacere ascoltare, diremo che la compressione, pur non scandalosa, è stancante già da subito, il volume "eccessivo", e la scelta dell’equalizzazione – una bella "smiley curve" – infelice per un album in cui il basso era già a volume alto sul vecchio vinile. Qui la "nuvola di hashish" non c’è più.


© Beppe Colli 2021

CloudsandClocks.net | Feb. 21, 2021