Pick of the Week #17
Julie Driscoll & Brian Auger
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di Beppe Colli
Apr. 6, 2021
Il lettore avrà senz’altro notato la condizione di estrema
fluidità che caratterizza lo stato odierno della musica, con pacchetti di
diritti d’autore a passare di mano con frequenza crescente e milioni di dollari
trattati come fossero bruscolini.
In parallelo, non finisce di stupirci l’enorme quantità di
materiale musicale "video" che oggi è possibile trovare gratuitamente
in Rete: uno stato di cose che va in direzione esattamente opposta a quanto da
noi immaginato fino a pochi anni orsono.
E dato che la Rete consente di avere uno sguardo
"transnazionale", dobbiamo confessare che uno dei nostri passatempi
preferiti è quello di aggiungere altri tasselli al nostro ricordo di artisti e
gruppi che all’epoca era molto difficile vedere "in movimento", le
copertine dei dischi e le immagini dei giornali essendo le uniche risorse al
tempo disponibili per "completare" l’idea trasmessa dalla musica
ascoltata per radio.
E così oggi è possibile vedere i Procol Harum – che in vari
filmati in play-back dell’epoca fingono di eseguire il loro hit mondiale, A
Whiter Shade Of Pale – anche nella loro veste di musicisti: un gruppo di
ragazzi che esegue con bella sicurezza il materiale del primo album su un palco
parigino, con Robin Trower a imbracciare una Gretsch Country Gentleman.
Pur nella loro ingenuità, molti filmati televisivi riescono ancora
a trasmettere quel senso di novità, di un mondo che mentre ricorda fin troppo bene
le privazioni della guerra e ha ancora sotto gli occhi le macerie dei
bombardamenti accoglie l’irrompere del colore (ricordiamo perfettamente quanto
sottili ci sembravano le gambe dei batteristi che vedevamo nelle foto che
apparivano sul settimanale musicale da noi acquistato, Giovani, e che con tutta
probabilità provenivano dal programma televisivo tedesco Beat Club; ricordiamo
in particolare quelle del batterista dei Fat Mattress, Eric Dillon; e crediamo
che nella Londra grigia e sottonutrita vedere il colorito sano e roseo di
musicisti californiani quali i Byrds sia stato uno shock culturale non
inferiore all’arpeggio della Rickenbaker 12 corde di Mr. Tambourine Man).
Pochi giorni fa ci è venuta la curiosità di vedere cosa c’era da
guardare di Julie Driscoll, Brian Auger & The Trinity (ricordiamo ancora
quanto strano sembrasse sentire alla radio un nome dal sapore tanto "da
studio legale", anni prima di Crosby & c.).
Bella sorpresa!, spunta un sacco di roba. Speciali televisivi di
20-30 minuti – Germania, Francia, Olanda, Norvegia, perfino la Rai con una
conduttrice che parla un ottimo inglese (quando si dice le sorprese…) – con
il play-back opzione diffusa ma con uno spazio non piccolo riservato al suonare
per davvero. E certe "sperimentazioni" con il colore e le forme
geometriche delle scenografie – e quante spirali… – e i cappelli e i vestiti
che sembrano venire da una performance (Beatles docet).
Il lettore è pregato di crederci quando diciamo che la sigla Julie
Driscoll, Brian Auger & The Trinity designava musicisti molto noti, e dalle
molte qualità. Del Brian Auger organista si diceva "Braianogher è
bravo", asserzione che oggi può sembrare sciocca e in cerca di
giustificazione ma che all’epoca era perfettamente autosufficiente. Julie
Driscoll è stata forse la prima cantante "moderna" (era anche brava:
lo diciamo subito per evitare fraintendimenti) a presentare un aspetto in grado
di "bucare" il mezzo, video o giornali che fossero. Parrucche, abiti
filmici da "anni Trenta", movimenti delle mani, occhi super-trucco,
"The Face of ’68", e servizi sugli stessi giornali che ospitavano le
immagini di Twiggy e Jean Shrimpton ("the first supermodel").
Save Me è un hit colossale per vendite e frequenza radiofonica, ma
lo è solo in Europa Continentale (Europe-United Kingdom: 1-0, e non sarà
l’unica volta).
Diamo le coordinate. La "musica nera" – o il
"Rhythm & Blues" – era già molto popolare, e se dovessimo fare
una lista dei nomi l’inchiostro finirebbe prima dei nomi: James Brown, Wilson
Pickett, Ray Charles, The Supremes, Martha & The Vandellas, Four Tops,
Temptations, e poi Otis Redding, Sam & Dave, Joe Tex, Etta James, e
ovviamente Aretha Fraklin. Ma il 1967 è l’anno dell’esplosione della Queen Of
Soul, con il primo album per la Atlantic (I Never Loved A Man The Way I Love
You) e quell’hit formato gigante che è stato Respect.
Save Me è "solo" uno dei brani dell’album della Franklin
– sezione ritmica: Tommy Cogbill al basso e Roger Hawkins alla batteria – ma
diventa il biglietto da visita di Julie Driscoll, Brian Auger & The
Trinity. (Vedere il marchio della Dischi Ricordi sulla copertina dei 45 giri
riprodotti su molti LP "Best Of" della formazione dovrebbe essere
sufficiente a testimoniare la loro popolarità.)
La storia comincia ovviamente molto tempo prima. Brian Auger
(1939) è il classico "bambino prodigio" che suona il pianoforte a tre
anni e poi si innamora del jazz, vince non ricordiamo quali premi, sbanda verso
l’organo Hammond e il jazz "bluesato" di Jimmy Smith, senza dimenticare
Wes Montgomery e Booker T. & The MGs (Bumpin’ On Sunset e Red Beans And
Rice saranno parte del repertorio di Auger). Ma il retroterra è decisamente più
complesso: anticipando un po’, Looking In The Eye Of The World, il brano che
conclude la terza facciata di Streetnoise, sembra una canzone di Mose Allison.
Qui dobbiamo ricordare che a quel tempo la "musica
strumentale" – una categoria letteralmente sterminata che andava dalle
"grandi orchestre" a Wes Montgomery e al Jimmy Smith di The Cat
passando per pianisti quali Peter Nero e ai suoni "esotici" di Jobim
– era una categoria di ascolto di molta diffusione e di un certo peso, anche
commerciale.
Julie Driscoll (1947) è figlia di un trombettista di "dance
band", canta prima nell’orchestra del padre e poi nei club, accompagnandosi
alla chitarra. Ascoltare brani da lei incisi a quell’epoca mostra come modello
Dusty Springfield, un esito plausibile per la Driscoll.
Un nome che necessiterebbe di un libro tutto suo, Giorgio
Gomelsky, mette insieme Auger e Driscoll in un gruppo chiamato Steampacket,
dove esordisce la futura stella Rod Stewart. Semplificando le cose, di lì a
poco Gomelsky farà decollare la formazione denominata Julie Driscoll, Brian
Auger & The Trinity (con Clive Thacker, batteria; Dave Ambrose, basso; e Gary
Boyle, chitarra, che qualche anno dopo ritroveremo prima con Stomu Yamash’ta e
poi con gli Isotope).
Come già detto, Save Me è popolarissima solo sul Continente. Le
cose cambiano con This Wheel’s On Fire: un Top 5 in U.K., un hit ovunque, è un
brano inedito di Bob Dylan (ma il 1968 è anche l’anno di The Mighty Quinn dei
Manfred Mann, che era possibile ascoltare anche presso il carrettino dei
gelati, proprio come Paranoid dei Black Sabbath tre anni dopo) che con il
phasing, le voci "misteriose" e l’organo in evidenza entra di diritto
nella lista dei "classici della psichedelia".
Il singolo successivo, The Road To Cairo, è forse la cosa più
bella pubblicata dal gruppo. Rifacimento di un brano di David Ackles (come il
lettore capisce, siamo impossibilitati a scrivere "dell’allora sconosciuto
David Ackles") arricchito da un bel Mellotron (suonato da Brian Godding,
il chitarrista dei Blossom Toes che – non si finisce mai di imparare – era
anche cognato di Julie Driscoll), da una performance del gruppo misurata e di
buon gusto e da una interpretazione memorabile di Julie Driscoll.
Dovrebbe essere la conferma e il lancio definitivo nell’olimpo dei
grandi, ma il singolo è un flop, e la storia commerciale del gruppo finisce lì,
al terzo 45 giri. Per quel che può valere, ricordiamo che l’ascolto di The Road
To Cairo ci riempì di punti interrogativi, tanto sottili erano la musica e
l’interpretazione. E ricordiamo perfettamente tutte le volte che prendemmo in
mano il doppio album del gruppo, Streeetnoise – ce n’era una copia nel punto
vendita della Dischi Ricordi, e sempre lì rimase – senza mai comprarlo; e fu
una decisione giusta, perché a quell’età l’eclettismo di quella musica ci
avrebbe trovato del tutto impreparati.
(Ed è un bel tema da approfondire, questo: come un retroterra
musicale senza confini, anche radiofonico, propiziasse un eclettismo che oggi
lascerebbe sconcertati i più, e che è motivo di meraviglia al momento di
ascoltare per la prima volta materiali dell’epoca.)
Sebbene semplice dal punto di vista quantitativo – mezzo album,
tre singoli, e un doppio LP – la discografia della formazione si articola in
modi commercialmente complessi, sì da propiziare l’acquisto di uno snello
"Best Of", che se da un lato toglie dall’altro semplifica (il nostro
esempio migliore è senz’altro il CD intitolato A Kind Of Love-In 1967-1971).
A questo punto, proprio per dare una mano, abbiamo fatto un giro
in Rete per vedere cos’era disponibile. In una parola, niente. (Escludiamo CD
che costano "a partire da 67 euro".) Decidiamo di dare un’occhiata
alla produzione solista semi-recente di Julie Driscoll (ci arriviamo tra un
momento): niente. In preda al panico, facciamo una ricerca per Brian Auger, con
e senza gli Oblivion Express: niente.
Il che è assurdo soprattutto per Brian Auger. Se Julie Driscoll si
avviò alla maturità con un album, 1969 (pubblicato nel 1971, e di cui
apprendemmo l’esistenza solo al tempo dei CD), e un sodalizio, anche
sentimentale, con il pianista Keith Tippett, per sentieri ardui (anche se il
doppio a nome Centipede chiamato Septober Energy fu leggendario in Italia,
diremmo per la presenza di Robert Fripp come produttore e per il fatto che
Tippett aveva suonato il pianoforte su tre famosissimi album dei King Crimson)
quello di Brian Auger era un nome "da classifica" nonché "da
radio" in tutto il mondo.
Chiusa la parentesi Trinity con un album, BeFour (1970), dove si
recuperava la chitarra di Boyle, la svolta avviene con il primo album, omonimo,
degli Oblivion Express (1971), con Jim Mullen alla chitarra e Robbie McIntosh
alla batteria. (Ospiti del programma a quiz per ragazzi Chissà chi lo sa,
l’indomani a scuola si commentava il fatto che "il chitarrista suonava con
il pollice".) La popolarità italiana di Brian Auger decresce anche in
seguito alla sua decisione – rivelatasi commercialmente azzeccata – di
trasferirsi negli Stati Uniti. Segue una serie di album pieni di un funky che
va poi ad abbracciare il jazz elettrico di Herbie Hancock (è il miglior sunto
che ci riesce di fare al momento).
A vederla dal punto di vista dei protagonisti, le cose sono andate
bene. Brian Auger ha approfondito la musica che gli piaceva fare, lontano da
quella dimensione condivisa con una cantante dall’immagine forte che certamente
lo condizionava. Julie Driscoll ha visto il suo personale processo di
maturazione allontanarla da climi nei quali cominciava a sentirsi un po’
stretta. A chi scrive – e crediamo di non essere i soli – il rimpianto per una
formazione che avrebbe potuto dare ancora molto. Ma se anche i Beatles si sciolsero…
I singoli che contano sono tre: Save Me, This Wheel’s On Fire e
The Road To Cairo, uno più bello dell’altro. Da recuperare, la facciata B
intitolata A Kind Of Love-In, brano fresco e spigliato a metà strada tra beat e
psichedelia.
Il primo album, Open, presenta brani del gruppo senza la Driscoll
(Black Cat era un hit radiofonico) e una serie di belle canzoni, soprattutto
rifacimenti quali Tramp (volenterosa, ma di gran lunga inferiore alla famosa
interpretazione di Otis Redding e Carla Thomas) e una strepitosa versione della
Season Of The Witch di Donovan che porta in superficie la tensione
"interna" propria al brano originale.
Streetnoise è per certi versi paragonabile al "Doppio
Bianco" dei Beatles: "un bel doppio album che sarebbe stato un ottimo
singolo" – "ma cosa togliere?", e qui ognuno ha le sue idee.
L’album è diviso in quattro facciate articolate
tematicamente/musicalmente. Ascoltato oggi, è bello risentire l’organo Hammond
di Brian Auger, influente caposcuola, con tanto di Leslie e registro
"percussion". Bella la ritmica, a dire il vero registrata in modo un
po’ cangiante (ma era il 1969). Julie Driscoll segue un suo personale processo
di maturazione: se Nina Simone è una presenza palese, salta all’orecchio nei
brani più "rock americano" l’eco di Grace Slick.
Data un’occhiata all’anno, colpisce l’arguzia delle scelte per
artisti non celeberrimi e da album allora recenti. Indian Rope Man (eccellente)
viene dal Richie Havens non ancora celebre di 1983. Fresh
Failures e I’ve Got Life vengono dal musical Hair. All Blues viene da Miles
Davis. Save The Country da New York Tendaberry di Laura Nyro. Inoltre, una Light
My Fire che accoglie il mutamento apportato da José Feliciano ma lo arricchisce
con un bell’assolo di organo.
Ci sono poi Czechoslovakia, sull’invasione sovietica dell’anno
prima. La quasi-celebre Tropic Of Capricorn di Brian Auger. A Word About
Colour, dal testo significativo. When I Was Young, con bella interpretazione
vocale. Ellis Island, omaggio di Auger al jazzista Don Ellis. La
già citata Looking In The Eye Of The World. La folk-song Vauxhall To Lambeth
Bridge.
Il gruppo passa letteralmente tutto il tempo "on the
road", anche negli Stati Uniti. Apparizioni televisive varie a parte,
Auger & Driscoll sono tra i co-protagonisti dello speciale televisivo dei
Monkees intitolato 33 1/3 Revolutions Per Monkee, nella parte di uno scienziato
pazzo e della sua aiutante. Cercare in Rete.
© Beppe Colli 2021
CloudsandClocks.net | Apr. 6, 2021