John
Zorn & Electric Masada
Anfiteatro
Le Ciminiere, Catania
June
30, 2004
E’
appena sbocciata la primavera che ci giunge notizia dell’imminente arrivo
di uno dei nomi più prestigiosi (un tempo sarebbe stato pressoché
obbligatorio aggiungere: e controversi) della moderna avanguardia: John
Zorn, coadiuvato in quest’occasione dall’Electric Masada in settetto.
Decidiamo senza esitazione di aggiungere un altro biglietto a quelli
già messi in conto acquisti per i concerti di David Byrne ed
Elvis Costello. Questi ultimi si svolgeranno poi in un luogo al chiuso
di discreta capienza (a occhio siamo sui 1800 posti), mentre l’esibizione
zorniana avverrà in un anfiteatro sensibilmente più piccolo
(diciamo 1200?) ma decisamente più adatto, considerata la stagione.
Caratteristiche comuni: orario d’inizio (le 21.30) compatibile con le
normali esigenze del mattino successivo; possibilità di prenotare
il biglietto; posti a sedere; buona amplificazione (che nel caso di
Zorn risulterà di resa addirittura cristallina); biglietto dal
costo accessibile. Risultato: un pienone.
In
effetti sembra un po’ strano vedere tutta questa gente ordinatamente
in fila per uno degli (ex?) enfant terrible della musica moderna. Una
fine della storia che non saremmo stati assolutamente in grado di prevedere
non solo ai tempi dei "game pieces" come Lacrosse ma neppure
quando – fresco d’uscita quel Ganryu Island (1985) che vedeva Zorn duettare con lo shamisen
di Michihiro Sato – era già dietro l’angolo il (piccolo) boom
di The Big Gundown. La porzione più "intellettuale"
della stampa statunitense pareva essersi irrimediabilmente innamorata
di quelle improvvisazioni "structured and manipulated by a set
of ‘rules’" – si veda quanto successivamente scritto (nel luglio
1986) da Peter Watrous per le note di copertina di Cobra (1987):
"Non c’è alcuna notazione musicale nel pezzo, nessuna indicazione
temporale, nessun ‘old-fashioned’ nulla. Il ruolo di Zorn come compositore
sarebbe analogo a quello dell’inventore del baseball, se esistesse".
Che, ammettiamolo, per un americano non è certo un complimento
da poco. (Successivamente Watrous procedette a "scoprire"
dalle pagine del Village Voice il collettivo denominato M-Base.) Il
lettore ci perdonerà un breve detour per dire di un gustoso aneddoto
riferito da Francis Davis nel suo articolo del gennaio 1991 intitolato
"’Zorn’ For ‘Anger’", incluso poi in Bebop And Nothingness
(Schirmer Books 1996) e da ultimo su Jazz
And Its Discontents: A Francis Davis Reader (DaCapo 2004): "Lo
scorso maggio Zorn tenne una retrospettiva di tre sere dei suoi ‘games’
pieces – ciascuno comprendente un differente gruppo di improvvisatori
– alla Knitting Factory (…). Ero tra il pubblico la prima sera, seduto
dietro due musicisti che aspettavano il loro turno di salire sul palco.
‘Qual è questo pezzo?’ l’uno chiese all’altro durante Rugby.
‘Non lo so. Non sembrano tutti uguali?’, rispose il secondo."
A
questo punto il contratto con la Elektra Nonesuch fece il resto (ricordiamo
di passata Zorn su Vogue Uomo con le calze di diverso colore). (Il lettore
ci concederà una breve
pausa di pregnante nostalgia per i tempi in cui per fare "bau"
a un giornalista occorreva quanto meno una mini-Major.) Zorn si avviò inoltre a vestire il ruolo
di "gran suggeritore di scoperte trendy" (fossero esse Carl
Stalling, il trash-metal o il cinema S/M Made In Japan), ruolo già
ricoperto da Brian Eno e che un giorno – a beneficio di un’utenza ormai
decisamente ridotta – sarebbe stato appannaggio di un Thurston Moore.
A
dispetto di un’unanimità di facciata, le analisi non sembravano
però troppo agevoli – né di valenza unanime. Si consideri
quanto a proposito di The Big Gundown (disco al quale attribuivano quattro
stellette e una corona, formula che è per loro sinonimo di eccellenza)
era stato scritto da Richard Cook e Brian Morton nella quarta edizione
della The Penguin Guide To Jazz On CD: "(…) e lo stesso Zorn
ha addotto l’esempio di George Martin e i Beatles, o i primi lavori
di un’altra enorme influenza successiva sia da un punto di vista alfabetico
che stilistico, Frank Zappa. Come Zappa, Zorn mostra di sbeffeggiare
le stesse musiche che sembra erigere a icone." Ne siamo proprio
certi?
Una
prospettiva interessante è stata offerta da un già novantenne
Otto Luening nell’intervista di Mark Dery (coadiuvato da David Soldier)
apparsa sul numero di gennaio del 1991 della rivista statunitense Keyboard
con il titolo di "Something Old, Something New: an interview with
Otto Luening". Nel corso della conversazione, Luening era stato
sottoposto al classico Blindfold Test (laddove è ignota l’identità
dei brani ascoltati). Tra le composizioni proposte, la zorniana Tre
Nel 5000, da The Big Gundown. Dopo avere tra l’altro asserito "Un
ascoltatore privo d’esperienza potrebbe ascoltare questo brano e ritenerlo
una cosa molto stimolante", Luening concludeva dicendo: "E’
come un giornale quotidiano ricostituito in forma di musica. Se è
quello che il compositore vuole proiettare, beh, allora c’è riuscito.
Non è proprio quello che farei io, dato che quelle informazioni
le ottengo dalla televisione; non mi servono in musica."
Che
il parere di Luening suoni decisamente inusuale è la prova migliore
del fatto che la musica di Zorn ha ricevuto una quantità di lodi
che ha pochissimi termini di paragone tra gli artisti "d’avanguardia"
– la principale eccezione essendo ovviamente quei custodi delle ormai
defunte ortodossie che gli rimproveravano di non suonare nemmeno "musica".
A scanso di equivoci, è meglio precisare subito che per chi scrive
Zorn è indubbiamente persona di non comune talento compositivo
e organizzativo, pur se il suo timbro al sassofono ci pare maggiormente
appropriato per le sue esplorazioni più ardite che per quegli
omaggi alla tradizione be-bop che pure dev’essergli tanto cara (si veda
l’album attribuito al Sonny Clark Memorial Quartet e intitolato Voodoo, del 1986)
– quasi lo stesso, pur se con qualche distinguo, potrebbe essere detto
di Anthony Braxton. E anche se è vero che – pur senza bisogno
alcuno di imputargli esibizionistiche volontà di provocazione
a freddo – l’omaggio a Ornette Coleman di Spy Vs. Spy (1989) sembrava
proporsi come scopo quello di sconvolgere il pubblico "proprio
come Coleman aveva fatto" – ma in un modo assolutamente involontario!
(Non è una differenza da poco, giusto?)
Le
metodologie di Zorn, così come da lui enunciate, sembrano essere
risultate immediatamente in sintonia con il comune sentire di non pochi
critici dell’establishment musicale alternativo statunitense, allevati
a latte e telecomando. Decisamente più buffa la situazione italiana,
dove un postmodernismo vissuto come fremito estetico e del quale non
erano evidentemente chiare le inevitabili conseguenze pratiche è
stato abbracciato da personalità marginali autodefinitesi "di
sinistra" (chiariamo: chi accetta il postmoderno come "fatto"
non può affermare di "essere" di sinistra). Certo è
che a Zorn sono state perdonate cose per cui altri sarebbero stati se
non impiccati certo sottoposti alla pubblica gogna, da apparati iconografici
a dir poco ambigui nei confronti di sesso, morte e violenza a pubbliche
professioni a proposito di una "Jewish heritage". Il succedersi di formazioni
e l’enorme discografia accumulata – dai celebri Naked City alle colonne
sonore ai Masada prima acustici e poi elettrici – hanno condotto alla
più prevedibile, sterile e artisticamente pericolosa delle situazioni:
un culto.
Tutte
questioni delle quali la maggior parte dei presenti al concerto sembrava
essere giustamente ignara. E fra impeti percussivi di grande effetto,
esuberanti assolo di piano elettrico, (contenuti) fischi sassofonistici,
l’immancabile laptop talvolta portatore di atmosfere spaziali, un sapido
gioco gestuale in stile "ragazzi qui si fa sul serio" epperò
ludico, sapienti contrasti, melodie klezmer, echi di anni sessanta,
arie da "qui Radio Tunisi", intensità sonora in stile
"va & vieni"… beh, non può certo dirsi che –
con le dovute eccezioni – il concerto abbia lasciato qualcuno insoddisfatto
("bello, bello", "bello", "davvero bello",
"sono bravi", eccetera). E anche un bis.
Se
ci situiamo sul piano del meramente tattile è evidente che chi
scrive si guarderà bene dal mettere in discussione le sensazioni
altrui. Fortunatamente non è quello l’unico terreno di confronto
possibile. Diciamo allora che l’aspetto più sgradevole di un
concerto per vari aspetti gradevolissimo è stato il suo presentare
con sussiego e simboli propri a qualcosa "per intenditori"
materiale fin troppo prevedibile – e molto spesso agevolmente accostabile
a musiche che è ormai comune ascoltare quale sottofondo anche
in luoghi non esattamente "trendy". Mentre l’abitudine all’ascolto
"salterino" ha ovviamente tolto qualsiasi valore di novità
ai "tagli veloci" di antica memoria (tagli che in questa occasione
erano anche decisamente lenti). Buffo notare come la nota gestualità
zorniana ci ricordasse talvolta un Gianni Basso visto qualche anno fa
dare il tempo e le misure ai musicisti del gruppo – cosa evidente soprattutto
quando Zorn si rivolgeva ai batteristi/percussionisti. Pur se con qualche
ridondanza e pesantezza, la parte percussiva è stata l’aspetto
più convincente: complice il volume, Kenny Wollesen, Joey Baron
e Cyro Baptista hanno largamente coinvolto. Al basso, Trevor Dunn è
stato affidabile e versatile, ma il tocco lasciava un po’ a desiderare
in quanto a pulizia. Laptoppiana Ikue Mori. Stranissimo l’impaccio strumentale
di Marc Ribot, che se non avessimo già visto dal vivo in situazioni
le più diverse avremmo definito strumentista di buona mediocrità:
prevedibile nei momenti rock, scontato nelle atmosfere cool, a disagio
sempre. Conosciamo Zorn e i suoi fischi d’ancia. Impegnato al piano
Fender e a un expander che rendeva il suono del Fender simile a quello
ottenuto con il classico trattamento del modulatore ad anello, Jamie
Saft era scarsamente udibile nei "tutti" ma ha fatto un buon
assolo; sfortunatamente nel corso della serata l’ha fatto altre due
volte, pressoché identico.
Qualche
giorno dopo un nostro amico saggiamente ci diceva: "Io mi sono
divertito abbastanza. Nei concerti spesso il segreto per divertirsi
è non chiedere al concerto quello che non ti può dare".
Giusto.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2004
CloudsandClocks.net
| July 6, 2004