Intervista a
Brian Woodbury
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di Beppe Colli
June 11, 2004
Come
già detto in sede di recensione, era dal 1992 – l’anno in cui ci trovammo
ad ascoltare, e poi a riascoltare con frequenza crescente, il brioso e intelligente
album di canzoni intitolato Brian
Woodbury And His Popular Music Group – che avevamo perso la speranza di ritrovare
le tracce di Brian Woodbury, artista la cui musica in apparenza semplice rivelava
a un ascolto attento un retroterra decisamente complesso.
Doppia sorpresa,
quindi, ritrovarsi tra le mani il recente Variety Orchestra: innanzitutto
per il fatto di avere ritrovato Woodbury; e poi perché l’album – comprendente
composizioni per la maggior parte solo strumentali – presentava un artista
alquanto diverso (ma non per questo meno valido) dal Woodbury che ricordavamo.
Una veloce ricerca in Rete ci confermava l’impressione di un artista dal retroterra
decisamente composito.
A questo punto
era naturale pensare a un’intervista. Woodbury ha gentilmente accettato, lo
scambio di lettere in forma di posta elettronica è stato effettuato
a cavallo dei mesi di maggio e giugno.
Ho
letto che hai cominciato a esibirti all’età di undici anni. Parlami
di come hai iniziato a sviluppare un interesse per la musica.
Più
o meno nel solito modo, a tre o quattro anni ho iniziato a darmi da fare con
il pianoforte dei miei genitori. Mi ero convinto che se avessi inserito delle
monete tra le fessure il pianoforte si sarebbe messo a suonare come un juke
box o come una pianola meccanica (uno strumento che avevo visto in un parco
di divertimenti). I miei primi esperimenti furono dei tentativi di evocare
soldati e angeli (la parte bassa contro quella alta).
Ero
sempre ammaliato da registrazioni di lavori di Mozart quali Don Giovanni e
Beggar’s Opera, tanto per le boriose schermaglie che per tutto il resto. Quando
avevo cinque anni, a scuola, ho organizzato delle rappresentazioni dove c’erano
eroi smargiassi che soccorrevano damigelle in pericolo. Io facevo sempre la
parte dell’eroe.
Le
solite cose – i Beatles durante le scuole elementari; ho cominciato a scrivere
canzoni con la chitarra più o meno all’età di dieci anni e ho
incominciato a esibirmi un po’ più tardi; ho ascoltato i cantautori
durante i miei primi anni da teenager; progressive rock al liceo; Zappa, Beefheart;
classica moderna; "musical theater" all’università.
So
che hai studiato con Tom Lehrer, un artista di cui ho sentito parlare ma la
cui musica non ho mai ascoltato. (Ho letto un’intervista fattagli da Paul
Zollo nel 1990, intervista che in seguito Zollo ha incluso nel volume intitolato
Songwriters On Songwriting.) Ti spiacerebbe parlare di Lehrer – e di come
quella esperienza è stata importante per te?
Quando
ero al liceo Tom Lehrer è stato per me una rivelazione. Le sue canzoni
possedevano tutta la bravura dei grandi di Broadway combinata a una qualità
aspra e quasi sovversiva, ma con nessuna traccia di sentimentalismo (un atteggiamento
con il quale mi trovavo davvero in sintonia quand’ero un teenager). Era anche
un artista del pastiche, brillante ma assolutamente privo di eccessi.
Fu
con entusiasmo che scoprii che insegnava nello stesso college che frequentavo
(University Of California, Santa Cruz). Il suo corso si chiamava Introduction
To Musical Theater. Per essere ammesso dovevi sostenere un provino. Così
riuscii a trovare il coraggio di cantare una delle mie canzoni per l’audizione.
Era una canzone satirica su Johnny Cash che avevo scritto al liceo (Them Prison
Gates Are A-Tumblin’ Down).
Il
corso consisteva di una settimana di studi alternata a una settimana durante
la quale dovevamo mettere insieme una lettura abbreviata di un classico musical
di Broadway per ciascuno dei periodi maggiori (dagli anni venti fino agli
anni sessanta). Era un corso davvero eccellente.
Durante
il corso avemmo modo di conoscerlo bene, e così incominciai a portargli
alcune delle canzoni che scrivevo per avere dei consigli sullo scrivere canzoni,
in particolare i testi. E’ stato una grossa influenza su di me, sia prima
di incontrarlo che in seguito.
Hai
collaborato con Van Dyke Parks – il quale ha espresso apprezzamento per il tuo lavoro. Ti dispiacerebbe parlare
di questa collaborazione?
Nel
1983 mia moglie, Elma Mayer, e io eravamo in un gruppo chiamato Some Philarmonic,
una cosa che era nata alla scuola di musica e che era ispirata dal punk rock,
dai Parliament/Funkadelic, da Beefheart e dagli Henry Cow. Trovammo Song Cycle
di Van Dyke Parks in un negozio di dischi usati. Era un album che conoscevo
già e che amavo, ma che il gruppo non conosceva. Attraversammo una
lunghissima fase – durò molti mesi – durante la quale assimilammo quell’album.
Elma
scoprì che Van Dyke viveva a Los Angeles. Cercò il suo indirizzo
sull’elenco telefonico e decise semplicemente di mandargli il nostro LP. Lui
lo ricevette, lo ascoltò e ci chiamò al telefono. La prima volta
che chiamò la mia reazione fu "cazzate". Pensai che qualcuno
ci stesse facendo uno scherzo. Era la stessa cosa di sentir dire "C’è
Abramo Lincoln al telefono".
In
seguito ci trasferimmo a Los Angeles, e Van Dyke cercò di farci avere
un contratto discografico, cosa che non si verificò mai. Ma siamo ancora
in contatto e io sono un grande ammiratore del suo lavoro. Non ha avuto il
riconoscimento che merita.
Il
lavoro di Brian Wilson: è stato un’ispirazione per te? A questo proposito:
di recente Wilson ha portato per la prima volta su un palco Pet Sounds e Smile.
Hai avuto modo di vederli?
Ma
ovviamente, questa è una grossa influenza su di me. Credo di aver passato
all’incirca la metà del 1985 e del 1986 ad ascoltare Pet Sounds (e
l’altra metà ad ascoltare Cupid And Pyche 1985 degli Scritti Politti).
Non ho visto nessuno dei concerti. Ma penso proprio che ci andrò, se
ne avrò l’opportunità.
Quando
ho ascoltato Brian Woodbury And His Popular Music Group, il tuo album di canzoni
del 1992, mi è sembrato di notare che venissero fatti un sacco di riferimenti
musicali (e inoltre: è solo la mia immaginazione, o fai davvero una
battuta verbale in riferimento a una canzone di Elton John in Dreamstate Of
California?). Mi sembra che questa strategia compositiva (cioè a dire,
fare riferimenti, citare, in musica) sia oggi molto meno comune che in passato.
La tua opinione?
Questa
è davvero una buona domanda, e credo che tu abbia ragione. Sì,
c’è un riferimento a Your Song.
Ho
preso consapevolmente la decisione di evitare di usare riferimenti più
o meno a partire dal 1995. Non dico "mai", ma ritengo che possa
essere una stampella. E’ anche possibile che tenga emotivamente a distanza.
Non è una cosa che vale per qualunque ascoltatore, ma per un sacco
di gente è vero che l’umorismo elimina l’empatia. Per quanto mi riguarda
ritengo che lo humour di fronte alla tragedia sia qualcosa che arricchisce,
ma forse sono solo perverso. A ogni modo, da qualche tempo ho limitato il
numero dei riferimenti, specialmente se la canzone cerca davvero di comunicare
qualcosa di triste o di serio. Se scrivi per un personaggio che non sei tu,
per esempio nel teatro o in un programma televisivo per bambini, allora il
personaggio non dovrebbe fare un riferimento letterario che il personaggio
stesso non sarebbe in grado di capire.
Ciò
detto, recentemente ho letto della pubblicazione di un nuovo libro su Shakespeare
che cataloga tutti i riferimenti da lui fatti alle canzoni pop di quel tempo.
Molte battute dei suoi lavori si riferiscono a cose che oggi risultano essere
assolutamente oscure ma che a quel tempo erano allusioni argute. Così
mi dico, se Shakespeare poteva farlo, che cavolo, non prenderla tanto seriamente.
So
che di recente hai pubblicato un CD intitolato The Brian Woodbury Songbook,
che non ho mai sentito. Da un punto di vista estetico quanto è diverso
dall’album di canzoni intitolato Brian Woodbury And His Popular Music Group?
Un
po’ più serio, meno irriverente. Parte della ragione per la quale ho
fatto cantare queste canzoni da altre persone è che non volevo che
la gente pensasse che erano divertenti. Molto spesso quando sono io a cantare
una canzone la gente pensa che essa sia divertente, perfino se parla di qualcuno
che muore. Credo di essere in qualche modo percepito come un personaggio di
tipo comico.
Te
ne manderò una copia. Mi dirai il tuo parere.
Sul
libretto del tuo recente album intitolato Variety Orchestra citi i nomi di
Carla Bley, Oregon, Henry Threadgill e Fred Frith come musicisti il cui lavoro
è stato per te di ispirazione. Vuoi parlarne?
Finché
non ho scritto questa musica ero stato un autore di canzoni, non avevo mai
scritto brani strumentali. Come strumentista non sono davvero un granché,
anche se suono la chitarra e il basso, ma ammiro i grandi strumentisti, e
c’era davvero un sacco di talento quando vivevo nella "scena downtown"
newyorkese alla fine degli anni ottanta, jazz sperimentale e così via.
Dato che non sono un grande strumentista, non improvviso molto, e tendo a
pensare più da un punto di vista compositivo.
Così,
per quanto riguarda l’ispirazione, considero Fred Frith più come un
compositore, sebbene sia un improvvisatore fenomenale. I suoi album intitolati
Gravity e Speechless mi hanno davvero dischiuso dei mondi.
Anche
gli Oregon (mi ero dimenticato di averli citati) erano degli stupefacenti
improvvisatori di gruppo, ed è questo l’aspetto che mi piaceva davvero
di loro. I miei compagni di gruppo e io eravamo soliti fare delle improvvisazioni
estese (mai dal vivo) ispirate dal loro approccio. Ma per quanto riguarda
il disco credo che siano stati un’ispirazione al fine di creare un ensemble
unico con una nuova tavolozza.
Henry
Threadgill credo proprio sia un grande, e un iconoclasta.
Ritengo
che il CD sia davvero più vicino per spirito e suono a Carla Bley,
che ho visto per la prima volta nel 1980 in un piccolo bar a San Francisco.
Le ho mandato un mio demo e in risposta mi ha scritto delle belle cose.
Hai
anche scritto per il teatro, la danza e la televisione, e so che sei l’autore
di canzoni principale per il programma targato Jim Henson intitolato Bear
In The Big Blue House. Parlami dei diversi requisiti richiesti da questa dimensione,
paragonata all’altro – ti va bene l’espressione "autosufficiente"?
– tipo di scrittura di canzoni.
Beh,
per gli show televisivi per cui ho scritto, molte canzoni sono "canzoni
per un personaggio", nel senso che esse compaiono in una scena e sono
cantate da un personaggio preciso. Quindi sono essenzialmente "canzoni
teatrali". Nelle "theater songs" cerchi di mettere la voce
di un personaggio e l’atmosfera di una scena dentro la canzone. La persona
sta diventando agitata, si sta calmando, si sta spronando a intraprendere
un corso d’azione decisivo? Se guardi le cose da un certo punto di vista è
tutto piuttosto banale e prevedibile, ma è universale e profondo. Ne
vado assolutamente pazzo.
La
maggior parte delle altre canzoni per la televisione erano di carattere più
generale, piene di ammonizioni gentili o rivelazioni, cantate nel modo benevolo
tipico di un parente. Dato che scrivo spesso quel tipo di canzoni, la cosa
mi si attagliava alla perfezione.
Ho
visto che un tuo vecchio LP del 1987, All White People Look Alike, è
stato recentemente ristampato su CD. Ho visto che il brano che dà il
titolo all’album è stato descritto come "un manifesto musicale
sulla razza, l’uniformità e la cultura di massa (pre-Internet)".
Ti dispiacerebbe dirmi di più?
Te
lo mando. Devi assolutamente sentirlo. E’ lungo venti minuti, con molte sezioni
ma senza interruzioni, ogni sezione va nella successiva senza cuciture. Finisce
con un lungo crescendo sotto un declamare che parla di razza, cultura e molte
altre cose.
In
alcuni Forum su Internet ho letto alcune discussioni sul fatto che i musicisti
della fine degli anni sessanta/primi anni settanta hanno reagito (musicalmente)
alla guerra del Vietnam e al tumulto sociopolitico di quel periodo, mentre
oggi non sembra esserci molto. So che è un argomento molto complesso,
ma qual è la tua opinione in proposito?
Ritengo
che con tutta probabilità ci sia altrettanta musica a carattere politico
di quella che c’era in quel periodo. Credo che la maggior parte di essa sia
in un certo senso marginalizzata dal suo essere poco ispirata e dall’essere
associata a musica poco ispirata. C’è un sacco di roba di buone intenzioni
ma di scarsa qualità, decisamente non molto accattivante. La gente
trova altri modi per esprimere queste cose. E inoltre, indispone un mucchio
di ascoltatori. Particolarmente negli Stati Uniti.
Ciò
detto, c’è un’incredibile quantità di commento sociale nell’hip-hop
e nella musica country. Voglio dire, la musica country è diventata
molto brava a fare vera e propria propaganda politica. E il 90% di essa è
di destra. Ma vedo che nel country c’è spazio anche per la propaganda
di sinistra. E’ qualcosa alla quale sto lavorando. Ho appena scritto una canzone
country intitolata My Country. Parla delle cose che ammiro della mia eredità
politica. In risposta al ristretto fanatismo che sta iniziando a propagarsi
dalla radio country.
L’hip-hop
è pieno di commenti, roba culturale molto specifica, di solito specifica
in modo afroamericano. E per quanto mi riguarda un sacco di quella roba sono
solo cazzate – una visione molto gretta della natura umana, e quindi una visione
ristretta. Ma è molto vibrante.
Perché
nessuno è venuto fuori con una canzone intitolata Fuori gli Stati Uniti
dall’Iraq? Non lo so.
Ritengo
che ci sia qualcosa di imbarazzante nell’essere così diretti, senza
sfumature. Chi scrive canzoni pop si sforza di creare qualcosa che sia "di
quel momento" ma che in qualche modo sia anche universale. Dev’esserci
anche un qualcos’altro di un qualche tipo.
Buona
domanda.
© Beppe
Colli 2004
CloudsandClocks.net
| June 11, 2004