Out
Of The Vinyl Deeps: Ellen Willis On Rock Music
By Ellen Willis
Edited by Nona Willis Aronowitz
University of Minnesota Press 2011, $22.95, ppxx-232
La notizia
dell’imminente pubblicazione di una raccolta pressoché completa degli scritti
di "critica rock" della leggendaria Ellen Willis ha suscitato
in noi non poca curiosità: l’unico elaborato della Willis di cui serbavamo
memoria era infatti il valido saggio dedicato ai Velvet Underground apparso
su Stranded, il celeberrimo volume curato da Greil Marcus apparso nel 1979
(e che lo scritto della Willis non sfigurasse in tanta illustre compagnia
dovrebbe dire qualcosa). E c’era anche, nascosta da qualche parte nel nostro
archivio mentale, una frase di Robert Christgau dalla quale ci era parso
lecito ricavare l’impressione che la Willis dovesse essere un bel caratterino.
(Eccola qua:
"Listen up, Jim DeRogatis. When I threw that
piece of pie (not my "dinner," the food line was long) at Ellen Willis, it wasn’t because, as Willis with her
Handy Dandy Theory Generator lets you suggest, I wanted to maintain the sexist
status quo of "gender relations in rock-critic land."". Robert
Christgau: The Noise Boys Ride Again – Impolite Discourse – The Village Voice
– Published June 28 – July 4, 2000.)
Ed ecco
qui Out Of The Vinyl Deeps. Il volume raccoglie la quasi totalità degli
scritti della Willis (cinquantasei in tutto) apparsi negli anni 1968-1975
sulla rivista The New Yorker nella rubrica intitolata Rock, Etc.. A questi
vanno ad aggiungersi vari scritti provenienti da un periodo più tardo,
quando la Willis collaborò a vario titolo a testate illustri quali Rolling
Stone e The Village Voice, nonché note di copertina di album e cofanetti,
scritti apparsi in volumi miscellanei, introduzioni e così via. Quasi tutto
precede l’abbandono della professione di critico e l’ingresso nel mondo
accademico, dove la Willis ha occupato un posto di un certo rilievo fino
alla morte, avvenuta nel 2006.
La raccolta
regge, e ci è parso curioso che non poche delle recensioni che abbiamo
avuto modo di leggere a ridosso della pubblicazione del libro abbiano sentito
il bisogno di sottolineare la qualità "femminile" della Willis,
"unico critico donna in un mondo di uomini" i cui nomi – Christau,
Marcus, Bangs, Marsh e così via – ben conosciamo. E Lillian Roxon? A cavallo
tra i sessanta e i settanta l’unico nome che diremmo universalmente conosciuto
era quello della Roxon, autrice di quella Rock Encyclopedia che non abbiamo
mai avuto modo di leggere. Ed è un nome che non ricorre né nella presentazione
di Sasha Frere-Jones – che preferisce sottolineare come la Willis si rivolgesse
a un pubblico infinitamente più vasto di quasi qualsiasi altro critico (475.000
per New Yorker, 75.000 per Rolling Stone; e qui forse vale la pena di notare
che Frere-Jones è "staff writer" per il New Yorker) – né nella
prefazione di Nona Willis Aronowitz, la figlia della Willis a sua volta critico
che ha curato la raccolta e la sua divisione in capitoli. Inspiegabilmente,
manca un indice dei nomi.
Il volume
è vario e indubbiamente interessante. Si parte da un lungo e approfondito
saggio dedicato a Bob Dylan apparso nel 1967 sulla rivista Cheetah (al
pari di Fusion, una di quelle riviste leggendarie che chi scrive non ha
mai avuto occasione di vedere): ed è proprio il saggio che fruttò alla
Willis la chiamata al New Yorker. Abbondano Dylan, i Rolling Stones, Lou
Reed e i Velvet Underground, con spazio agli Who, a Janis Joplin, ai Creedence
Clearwater Revival e ai Beatles (un gruppo, se è concesso dirlo, per il
quale ci pare proprio di poter dire che la Willis non provasse una forte
affinità). Se non mancano le sorprese (Sweet Thursday, Van Dyke Parks e
Randy Newman non erano certo nomi "ovvi"
per l’epoca) e fanno la loro inevitabile comparsa i "soliti sospetti"
(Van Morrison, David Bowie, Simon and Garfunkel, i Grand Funk Railroad, Bruce
Springsteen e Stevie Wonder), non mancano resoconti di luoghi o meditazioni
su fenomeni – o "generi" – più ampi.
Pure, si
notando delle stranezze: niente Doors (c’è solo una citazione
"nascosta"), poco Bowie, niente Crosby, Stills, Nash and Young
(Young neppure come nome: solo una volta compare la sigla Crosby, Stills,
Nash and Taylor); e anche la trattazione delle artiste più note (ne diciamo
più avanti) è davvero ridotta. Vero, come affermato da Nona Willis Aronowitz
a pag. xix, che
"This Anthology is less a survey of the sixties and seventies rock music
than it is Willis’s picks for the most culturally valuable, influential,
or fascinating artists and moments. She never stressed much about coverage
while writing her Rock, Etc. column and especially in the writing that followed;
she tracked every move of the Who, Bob Dylan, the Stones, Janis, and the
Velvet Underground as she blatantly ignored others. Since, as rock critic
Georgia Christgau said at the 2008 EMP Pop Conference, ‘(Willis) cared less
about rock than she did about movements,’ covering the new It band was just
not that important to her." Ma anche dopo aver meditato a lungo su questo
passo rimaniamo del tutto non convinti: com’è possibile – proprio alla luce
di criteri così chiaramente esplicitati – giustificare certe esclusioni?
La prosa
della Willis è sempre molto chiara, e si vede lontano un miglio che quel
che appare sulla pagina è frutto di molto lavoro e grande ponderazione.
Proprio questa chiarezza linguistica ci ha reso facile renderci conto che
il modo di considerare la musica della Willis ha poco o niente in comune
con quello di chi scrive. Fare una critica puntuale dei contenuti del volume
ci richiederebbe almeno un paio di mesi, e siamo ragionevolmente certi
che nessuno sarebbe interessato a leggere i frutti del nostro lavoro; e
a dire il vero neppure noi avremmo il minimo interesse a scriverne; abbiamo
scelto di trattare molto lestamente tre punti, giusto come approssimazione.
I Creedence
Clearwater Revival sono stati uno dei gruppi preferiti in assoluto di chi
scrive dai quattordici ai sedici anni, in contemporanea all’apparizione
dei singoli e degli album del celebre quartetto statunitense, da Suzie
Q. in avanti. E se per quanto riguarda Suzie Q. fu l’insieme a impressionarci,
da Proud Mary (e sul retro? Born On The Bayou!) in poi – dando qui per
scontate voce e melodie, mentre i testi ci erano (ovviamente) ignoti –
notammo che i brani del gruppo erano contraddistinti da introduzioni memorabili
(e facili da memorizzare) in un’epoca in cui le introduzioni memorabili
non facevano certo difetto (proviamo a citarne ancora qualcuna: Green River,
Commotion, Bad Moon Rising, Tombstone Shadow, Fortunate Son), e che lo
stesso valeva per gli assolo di chitarra, "cantabili", e vere
e proprie
"composizioni dentro le composizioni"; facile notare che le canzoni,
in apparenza capolavoro di semplicità, erano in realtà frutto di sapiente
orchestrazione chitarristica, e che in questo senso John Fogerty era un grande
"compositore"; e che pur nella loro apparente "linearità",
i timbri delle chitarre e la loro stratificazione – e il variare timbrico
dei brani all’interno dell’album – dicevano di una acuta comprensione del
disco come prodotto finito che incorporava il "suono della canzone".
Proprio
mettere la puntina sul primo brano di Cosmo’s Factory – l’album universalmente
considerato il capolavoro del gruppo – ci causò non poco sconcerto. (Fu
qui, e non a proposito del successivo, e bizzarro, Pendulum, che ci capitò
per la prima volta di pensare che qualcosa non andava più per il verso
giusto.) I Creedence avevano avuto un suono "magro" e cristallino,
assolutamente inconfondibile: chitarre Rickenbacker (e amplificatori Kustom).
Se all’epoca fossimo stati in grado di saperlo, e di capirne le implicazioni,
avremmo potuto individuare i nuovi attrezzi che appaiono nel retrocopertina
di Cosmo’s Factory: basso Fender Precision e cassa Sunn; chitarra ritmica
Guild con pick-up tipo humbucker; chitarra solista Gibson Les Paul (quindi:
pick-up humbucker) con amplificatore Fender. Quindi l’assolo con feedback
controllato che appare su Ramble Tamble (eccellente, emozionante) è lontano
mille miglia dai toni taglienti che esprimono così efficacemente l’orrore
rappresentato nel brano conclusivo di Willie And The Poorboys, la (per
noi) misteriosa Effigy (sarebbe stata più chiara – ma ovviamente
molto meno poetica – con il titolo di Flag).
Per chi
scrive una trattazione dei Creedence che prescinda da tutto ciò non potrebbe
neppure iniziare. Non sarebbe, è chiaro, "tutta la storia", ma
non ne potrebbe assolutamente prescindere. (E oggi che sappiamo delle dinamiche
interne al gruppo, e dell’autopercezione dei singoli, non sarebbe neppure
tanto difficile fare ipotesi su qulle scelte strumentali.) Va da sé che
da ragazzini avremmo fatto salti di gioia se qualcuno ci avesse fatto notare
la parentela tra l’assolo di chitarra di Proud Mary e lo stile chitarristico
di Steve Cropper, che pur conoscevamo senza saperlo dalla frequentazione
di Soul Man di Sam & Dave e – soprattutto – di quella (Sittin’ On)
The Dock Of The Bay di Otis Redding che contraddistinse quell’anno. O se
qualcuno ci avesse illuminato sulle relazioni intercorrenti tra John Fogerty
e James Burton – per non parlare di Buck Owens e così via.
Questo
invece il passo che diremmo chiave nel quale la Willis – alla fine di una
lunga trattazione – "spiega" la sua nuova preferenza per i Creedence
al posto degli Stones: "It was no accident that my interest in Creedence
progressed from warm to obsessive at a time when I was in a state of emotional
upheaval brought on by politics, drugs, writing blocks, and problematic
personal relationships. It was also a time when I was feeling alienated
from my erstwhile favourite rock band, the Rolling Stones, partly because
of Altamont, partly because of feminism, but mostly because I was tired
of chasing Mick Jagger’s mysterious soul through the mazes of fun house
mirrors he had built to protect it." (pagg. 123-124).
Leggendo
questa raccolta ci siamo accorti quasi subito che a dispetto dello stile
tanto diverso – per non parlare dei rispettivi valori – la Willis è un’irrazionalista
degna di fare il paio con Lester Bangs. Si veda l’improvviso apprezzamento
di un album o di un brano vissuto come "conversione", quindi
inspiegabile per definizione. Un solo esempio: "When I first heard
Exile On Main St., I hated it." (…) "I now think that Exile
is arguably the Stones’ best work. My conversion to Goats Head Soup was
less dramatic" (…) "but the process was similar". (…) "But
only a month ago I was listening to Angie, a song I’d dismissed as an irritating
whine, and suddenly heard it as exactly the opposite – a victory over self-pity.".
Quello
sugli Stones è un capitolo a parte. Nonostante al gruppo vengano dedicati
molti scritti, con la sola eccezione di Mick Jagger nessun componente del
gruppo viene mai chiamato per nome, eccetto Mick Taylor (due volte), Richard
(una sola volta, come autore) e Ronnie Wood (una volta). Detto in sintesi,
gli Stones sono Mick Jagger. Il che è sempre un giudizio possibile, anche
se forse un po’ azzardato, non fosse che qui non si tratta del Mick Jagger "musicista" come
lo intendiamo noi. Le decisione di tenere in pochissimo conto quello che
è il "lavoro" del musicista, e i suoi prodotti concreti, porta
la Willis a considerare importanti cose quali il matrimonio, con esiti
che diremmo poco produttivi: "Listening to this album, I can’t help
wondering about Jagger’s marriage, which is opaque to me in a way that
his turbulent affair with Marianne Faithful was not." (pag. 44).
Un esempio
parallelo è l’analisi della nuova condotta di Mick Jagger dal vivo nel
1975. "Usually, the trouble with rock stars is that they take themselves
too seriously; Jagger seems at times to be denying his seriousness altogether.
I find the denial disingenous, and it makes me uncomfortable."
(pagg. 119-120). Ricordiamo tutti il fallo gonfiabile di quel tour, i secchi
d’acqua, la coreografia e la continua sottolineatura del fattore
"divertimento" ("It’s Only Rock ‘n’ Roll"!). Tutte cose
che qui rimangono "non spiegate" o – il che è lo stesso – attribuite
ai capricci di una "personalità".
Da parte
nostra restiamo convinti dell’utilità (anche pratica) dell’impiego del
Rasoio di Occam, che in questo caso applicheremo così: dando per
scontato che Mick Jagger è un essere razionale che ha ben chiaro il rapporto
tra pubblico e gruppo rock nel mutare delle circostanze "esterne" e
che cerca di prendere delle decisioni in grado di rendere il suo gruppo
più famoso e quindi prospero e non oggetto di ridicolo e di insuccesso
finanziario, le mosse razionali sono: nel 1969, assumere un ottimo chitarrista
in grado di non far sfigurare il gruppo dal vivo (quella è l’epoca dell’assolo,
le amplificazioni sono più nitide di quelle del 1966, il pubblico più adulto,
attento e smaliziato, l’esibizione ad Hyde Park penosa); nel 1972, aggiungere
pianoforte, sassofono e tromba, a
"riempire"; nel 1975, perso il bravo chitarrista, con un gruppo
forse più debole e in ogni caso meno affiatato, aumentare l’apporto esterno
e dare maggiore risalto all’aspetto visivo, anche per venire incontro a un
pubblico più vasto e non necessariamente "addentro alle cose rock".
Non è detto che il nostro abbozzo di spiegazione sia "vero", ma
esso ha nondimeno il pregio di rendere il comportamento di Jagger "comprensibile",
in quanto risposta concreta a un problema pratico.
Quello
del
"femminismo" è a nostro avviso uno degli argomenti più spinosi
del libro, a causa di una chiarezza dei concetti e della terminologia che
lascia molto a desiderare. Ci limitiamo qui a pochi cenni su alcune figure
(ma ovviamente una prospettiva "femminista" attraversa molte analisi
della Willis).
Qui non
si tratta di chi non c’è, ma della (per noi strana) prospettiva nella quale
viene inquadrato chi è presente. Laura Nyro – figura paradigmatica dell’epoca
come musicista, cantante e autrice – non viene mai trattata; ma la definizione
che viene data di alcune "pop singers" ci dice che la Nyro non
è propriamente tra le preferite della Willis: "(…) their music was
basically nightclub staff – romantic, "feminine", non-threatening,
a cross between Laura Nyro and Melissa Manchester, with maybe a little
Joni Mitchell for spice." (pag. 145). La stessa Mitchell, lodata per
l’album Blue in un pezzo del 1973 desta perplessità per il successivo For
The Roses,
"less accessible" (…) "complicated and un-pop-song-like"
(pag. 140). Carole King riceve solo una menzione di passata (a pag. 138).
Eppure
la King ha scritto un brano, You’ve Got A Friend, che è stato anche interpretato
così: quando i rapporti affettivi duraturi tendono a diventare una cosa
del passato causa l’allentarsi dei legami sociali e l’atteggiamento del
singolo è quello di preferire la continua esperienza di nuovi stimoli (una
testimonianza a tale riguardo era stato il mutare di senso del brano della
stessa King intitolato Will You Love Me Tomorrow: da meditazione sulla
verginità nell’interpretazione del 1960 delle Shirelles a considerazione
sulla fugacità dei legami amorosi su Tapestry, dieci anni dopo) la comunità
degli amici è l’unico elemento certo che resta al singolo. E non è stata
l’opera della Mitchell (anche!) un meditare sulle proprie vicende personali
in un’epoca in cui la soddisfazione di un’insaziabile fame di nuove esperienze
è vista come aspirazione "normale"?
Lo diremo
senza vergogna: questo lavoro ci è parso un’opera così modesta – o per
meglio dire: tanto figlia del suo tempo – che avevamo deciso di non parlarne
affatto. Ma grazie al lavoro di Scott Woods – il cui sito, Rock Critics,
continua a essere una fonte inesauribile di informazioni sugli avvenimenti
di tutto il mondo – abbiamo avuto modo di leggere un buon numero di affermazioni
altamente favorevoli su questo libro, il che ci ha indotto a far suonare
una diversa campana.
La modestia
della maggior parte degli interventi ci ha però convinto che tutto è ormai
ridotto a un chiacchiericcio di nessuna importanza. Per ragioni di notorietà
citeremo l’opinione di Ann Powers in "A Celebration Of ‘Vinyl’ And
Pop Critic Ellen Willis": "Most important, Willis wrote like
someone who lived in a body." (…) "As the gushy reviews start
to pile up, I’m starting to think Willis might have invented the way my
generation thinks about pop."
Che dire?
Le parole non bastano.
Beppe
Colli
© Beppe Colli 2011
CloudsandClocks.net
| May 26, 2011