Una pausa di riflessione
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di Beppe Colli
Apr. 23, 2012
E adesso è davvero
giunto il momento di prendersi una bella vacanza: a partire da oggi Clouds
and Clocks sospende infatti le pubblicazioni.
Fino a quando? Beh, a dire il vero potrebbe anche darsi che
il sito non venga aggiornato mai più (con le solite avvertenze: l’affitto
dello spazio web continuerà a essere pagato regolarmente, i contenuti saranno
accessibili come al solito e così via – che poi è il minimo che possiamo
fare per cercare di ricambiare la gentilezza e la disponibilità di quanti
hanno volentieri accettato, in più modi, di dialogare con noi).
Diciamo che se l’esame di coscienza che ci apprestiamo a fare
avrà esito positivo, allora una ripresa alle prime ombre dell’autunno non
è da escludere. Altrimenti, nisba.
La questione, infatti, è discretamente complessa. Non c’è
qui alcuna stanchezza nei confronti della musica, o un’improvvisa "illuminazione" che
vorrebbe la musica del passato unico luogo di vette inarrivabili. Però se
è vero che gli album di buona fattura non sono mai mancati – e quattro o
cinque titoli con uscita prevista tra metà maggio e metà luglio e da noi
già prenotati dovrebbero riuscire a tener desto il nostro interesse – è anche
vero che negli ultimi anni la quantità di quello che troviamo interessante
è colata a picco in modo a dir poco preoccupante; bastevole, sì, a tenere
in vita un rapporto privato, ma del tutto insufficiente a tenere aperto quel
triangolo comunicativo musicisti-critica-pubblico che riteniamo insostituibile
e che vediamo lontanissimo dal modello "messaggio nella bottiglia" tipico
dei blog.
E’ ovvio che qui bisogna intendersi su certe coordinate. Per
come si è culturalmente configurato, il ruolo di un mensile è oggi quello
di presentare (se esclusivamente o soprattutto è distinzione che non è necessario
operare in questa sede) "le novità del mese", scremandone "il
meglio" all’interno di un confronto temporale "stretto". Da
parte nostra, pur adoperando strumenti propri della critica, abbiamo sempre
(tacitamente) operato un confronto "da consumatore", chiedendoci
non solo se "è meglio il nuovo Cosa Brava o il nuovo Thinking Plague" e
se "il nuovo Cosa Brava è meglio di Legend degli Henry Cow", ma
anche se "è meglio ascoltare il nuovo Cosa Brava o leggere il nuovo
libro di Paul Krugman" (tra parentesi: End This Depression Now! esce
a giorni) – una domanda che da un punto di vista merceologico è ovviamente
assurda, ma che dal punto di vista (pragmatico) dell’impiego del proprio
tempo è perfettamente razionale.
Il punto cruciale è infatti questo: che negli ultimi anni,
a paragone con quanto accadeva nel "mondo reale" – da cui il nostro
desiderio di approfondire tematiche proprie del sociologico e dell’economico
– la musica ci è parsa essere diventata una ben povera cosa, e il pubblico
tanto esiguo ed esausto da non poter costituire un pungolo a che i musicisti
– se ancora ne sono capaci! – facessero di meglio.
Sappiamo già che a questo punto qualcuno si chiederà come
potrebbero tendenze così consolidate e di lungo periodo essere ribaltate
da qui a qualche mese. In realtà questa pausa serve – a noi – al solo scopo
di determinare percentualmente quanto di soggettivo sia presente nel nostro
attuale giudizio allo scopo (analitico) di escluderlo.
Quello che rimproveriamo
oggi alla musica è innanzitutto una mancanza di ambizione. C’è fortissimo
un senso del già sentito, ma anche un orizzonte ristretto e una
"rilassatezza" della pronuncia che cozza grandemente con quella
"bruciante necessità dell’espressione" che dovrebbe essere la conditio
sine qua non di una musica che "pretende" (non
"chiede"!) attenzione.
Su un piano soggettivo, a colpirci di più sono nell’ordine:
a) quelli che dopo tanto pensare tirano fuori una miscela di cose che Robert
Wyatt e Henry Cow/Art Bears facevano trentacinque anni fa; b) quelli che
vivono all’interno di una cornice universitaria da cui di tanto in tanto
emettono lampi a loro dire "rock"; c) quelli che sono in ballo
e devono ballare, un dollaro al giorno. Ognuno avrà i suoi esempi, che non
necessariamente coincideranno con i nostri. Ma il problema rimane.
Il pubblico, diciamo
la verità, oggi non è un granché. Refrattario ai discorsi complessi, non
interessato a leggere il semplice, coinvolto a capriccio dalle cose più disparate, "gregge
di teste indipendenti" pronto a seguire ogni pista che la Rete fa abilmente
trovare sul suo cammino, dimentico della logica, funzionalmente analfabeta.
Non cambierà.
Due parole sull’Italia.
E’ da molto tempo nostra convinzione che per la stragrande
maggioranza degli oppositori del berlusconismo esso sia stato soprattutto
l’equivalente di un reality-show su base di massa al quale partecipare in
quanto spettatori e che in virtù dell’enorme sproporzione esistente tra le
forze in campo ha finito per giustificare la sostanziale immobilità di tutti,
fornendo altresì molteplici occasioni di partecipazione simbolica – pensiamo
alla visione di trasmissioni
"contro" – sostitutive di una crescita nel settore della conoscenza,
nonché un gigantesco alibi per chi ha menato il can per l’aia per decenni
lasciando nel frattempo deperire la qualità del proprio prodotto editoriale,
oggi sempre più simile ai gloriosi temi dei licei di una volta e perciò del
tutto inadeguato a raccontare la sostanza di quello che la crisi mondiale
ci ha ("inaspettatamente") messo in tavola. (E queste non sono
"opinioni", come la possibilità di poter leggere con un click il
Guardian e il New York Times è agevolmente in grado di dimostrare.)
Bel paradosso. Individui che viaggiano spesso e volentieri,
capacissimi di cogliere le differenze tra una moderna città europea e una
italiana (il che ci riporta alla mente la vecchia battuta su quale fosse
l’unica capitale mediorientale priva di un quartiere europeo, la risposta
essendo Roma), non sembrano però in grado di capire di essere concausa di
quella tragica arretratezza. Individui che godono quotidianamente dei prodotti
frutto dei brevetti e del lavoro altrui ma che non sembrano in grado di capire
che una nazione senza brevetti e con un enorme debito pubblico può solo affondare.
Un paese che non è più in grado di fare "grande cinema" sulle reti
del malaffare su scala europea come è invece lo splendido Il matrimonio di
Lorna dei fratelli Dardenne e che neppure si scomoda ad andarlo a vedere
in sala.
Detto succintamente: un paese provinciale, che – la Rete a
disposizione – pensa ancora in italiano e che con il suo disinteresse dimostra
di credere ancora di essere il centro del mondo.
Si discuteva di recente se il nuovo nano da poco assunto da una antica testata fosse più alto dei
nani che già lì lavoravano. Il lettore capirà da solo che quando l’interrogativo
cruciale concerne chi sia il nano più alto c’è ben poco spazio per la speranza.
© Beppe Colli 2012
CloudsandClocks.net | Apr. 23, 2012