Steely Dan
Piazza
Napoleone, Lucca
July
28, 2007
E’ la mattina del 6 aprile, e come ogni mattina, con un gesto che
è ormai diventato una vera e propria "seconda natura", scarichiamo
la posta di Clouds and Clocks. Tra i soliti cumuli di spam c’è un messaggio
che si impone immediatamente per la stranezza dell’oggetto: "Steely
Dan a Lucca". Un gentile lettore ci annuncia data e luogo del concerto:
il 28.7. a Lucca, e "io ho già ovviamente preso il biglietto (fila
7)". Reagiamo all’imprevista notizia con la velocità del fulmine,
e un paio d’ore dopo siamo già in possesso (virtuale) dei nostri biglietti:
fila 11.
In effetti
avevamo saputo di un tour mondiale degli Steely Dan denominato Heavy Rollers
Tour 2007, ma era solo in quel momento che ci accorgevamo di aver tacitamente
dato per scontato che il gruppo non sarebbe venuto in Italia. E d’altra
parte, quando mai ci era venuto? Non negli anni novanta – quelli dell’inatteso
ritorno su quei palchi abbandonati senza alcun rimpianto quasi vent’anni
prima. Non nel nuovo millennio, che pure aveva visto nuovi lavori discografici
e il convinto ristabilirsi di un rapporto continuativo con il
"mondo esterno". Un’occhiata al calendario del tour ci diceva anche
del protrarsi di una singolare sottovalutazione: una sola data italiana!
Certo, ne era prevista solo una anche in quel di Londra – ma quante volte
il gruppo ci aveva suonato nel corso dell’ultimo decennio? Certo non poche!
E d’altra parte, quindici date nel solo Giappone… (Per i curiosi: sei a
Tokyo e sei a Osaka.)
Se ci si volta indietro, spuntano strani e inattesi paradossi. Da quel che pare di capire,
non sono pochi quelli che considerano la musica degli Steely Dan assimilabile
all’easy listening. E anche tra quelli che li lodano c’è chi tira fuori paragoni e parentele che è impossibile leggere senza provare imbarazzo
e fastidio. E dire che ai tempi belli il gruppo era sembrato offrire una
strada (una delle tante possibili, certo; ma non certo la più agevole)
in grado di condurre il rock USA fuori dalle secche in cui si trovava infossato
in quel periodo. Ma qui "secche" va ovviamente inteso in senso
critico, ché di lì a poco quelle "secche" si rivelavano essere
la vera ricchezza (monetaria) del decennio. Pensiamo ad album quali Rumours
e Hotel California. O anche – se proprio dobbiamo – ai Kiss: chi avrebbe
mai immaginato che un tale fenomeno da baraccone avrebbe potuto esercitare
tanta influenza fino ai giorni nostri?
C’è poi
la questione dei rapporti tra il "rock" e il "pop" (e
i diversi significati attribuiti in tempi e luoghi diversi ai termini
"pop" e "rock" potrebbero essere l’oggetto di una bella
tesi di laurea). Durante la seconda metà degli anni sessanta i nomi di Bacharach
e Wilson (Brian) non erano certo universalmente sinonimi di
"innovazione" o "qualità" – e lo stesso era vero di uno
Scott Walker. Succede oggi una cosa davvero curiosa: che mentre Bacharach
e Wilson (Brian) – e, in circoli ovviamente minuscoli, anche Scott Walker
– sono stati ammessi nel Pantheon degli innovatori, quella che ne è rimasta
fuori è stata, con tutta evidenza, la loro musica – ché altrimenti sarebbe
una cosa ben strana escludere gli Steely Dan. (Lasciamo all’acume del lettore
la questione Abba.)
Per dirla
(molto) in breve, oggi per molti "moderno" equivale a dire
"ispido". Ma mentre gli innovatori hanno tradotto "ispidità"
in una deliberata frizione tra elementi diversi, e non di rado già di per
sé complessi (e questo è vero sia di Zappa che dei King Crimson, sia dei
Can che degli Steely Dan), nell’epoca del "pensare è faticoso, e certamente
stanca"
l’ispidità è identificata con una semplicità che è ispida solo da un punto
di vista timbrico. Da cui l’attribuzione di "moderno" a cose di
una semplicità sconcertante, purché suonate in distorsione; e qui, è ovvio,
chitarra, sintetizzatore o laptop non fa nessuna differenza.
I quasi
quattro mesi trascorsi tra l’acquisto del biglietto e il volo che ci porta
a Lucca ci danno tutto il tempo necessario a riflettere sulla faccenda.
Il nostro unico timore? Quello concernente un eccesso di "secchezza
ritmica": quella "secchezza metronomica" presente sugli
album di studio pubblicati dopo il ritorno sulle scene che era stata la
principale responsabile di quel poco piacevole sentore di sterilità che
affiorava tra i solchi. Ma era una secchezza quasi del tutto assente in
quella che per noi era stata l’unica occasione di vedere gli Steely Dan "dal
vivo": il concerto "dal vivo in studio" contenuto nel DVD-V
intitolato Two Against Nature, documento ovviamente indispensabile per
chi non ha mai avuto l’opportunità di vedere il gruppo intento a eseguire
la sua musica.
Giunti
a Lucca, decidiamo di dare subito un’occhiata alla piazza in cui il concerto
avrà luogo: palco di dimensioni ragguardevoli, amplificazione imponente,
illuminazione che si indovina efficace. La mattina del giorno fatidico
giungiamo sul posto mentre si stanno montando e numerando le sedie: il
tutto ci pare decisamente complesso e fonte potenziale di non pochi guai,
da cui la nostra decisione di non lasciare nulla al caso e di guadagnare
la nostra legittima postazione con un certo anticipo. Diamo un’occhiata
al palco, sul quale due figuri nerovestiti – ma, vedremo subito, gentilissimi
– si danno professionalmente da fare sotto un sole cocente.
A sinistra
riusciamo a intravedere un megacontenitore di chitarre, quelle che ci aspettiamo:
Gibson 335 e Fender Telecaster per Jon Herington e
un po’ di Sadowsky in stile Stratocaster per Walter Becker. Amplificatori
per chitarra? Guytron – sono due classici combo con 2×12 – per Herington
e un insieme di testate in rack più casse per Becker: tutto Mesa/Boogie
e TopHat. Che fine ha fatto il Bogner? Uno dei nerovestiti ci dice che
l’amplificatore è "sotto chiave": "a Walter piace suonare,
e gli montiamo quello che più lo stimola al momento". Batteria normale,
un basso a quattro corde… un Hammond! – ovviamente con Leslie microfonato,
e un polifonico Nord della serie Stage (farà buone timbriche di piano acustico
e di Clavinet). In primo piano un Fender Rhodes™ Electric Piano (diremmo
un 88 tasti) per Donald Fagen. Quattro microfoni per i fiati, indietro
a sinistra, e due per le coriste, un po’ arretrati, sulla destra.
Il pomeriggio
c’è qualche curioso. La nostra speranza è di assistere a un sound-check.
Ma faranno un sound-check? "Nooo, quéli suonano dal millenovecentosessantaseeeette,
non fano mica saundcék: arìvano e via!", ci dice sicuro uno di quelli
che conoscono bene la vita. Ma dei tipi come Becker & Fagen, ragioniamo,
proprio perché suonano… va be’, dal ’67, non suonano in una piazza che
non conoscono senza minimamente sentirne l’acustica. Consci di essere guardati
con compatimento, stiamo zitti.
Ovviamente
fanno il sound-check (tiè!). Ovviamente prima tutta la piazza viene sgombrata,
e con dei filari di alberi piazzati ad hoc accanto al palco non si vede
niente. Ma si sente! Apre Green Earrings: funky, con assolo vari, Hammond,
e un bel tiro complessivo. Poi un pezzo che non riconosciamo fino al ritornello:
Dirty Work, cantato dalle due coriste; strana scelta (sia il pezzo che
l’esecuzione). Poi Haitian Divorce: chitarra wha-wha da brividi (Jon
Herington), al canto… Walter Becker? Entusiasmante – ed era solo il soundcheck!
Come bonus, vediamo andar via una ragazza che decidiamo subito essere una
delle coriste (lo è).
(E qui
è venuto il momento di parlare di un episodio decisamente sgradevole che
confiniamo tra parentesi al fine di non permettergli di guastare il resoconto
di un concerto davvero bello, e forse superiore alle aspettative. Sospettosi
di una sistemazione dei posti decisamente complessa, decidiamo di arrivare
all’orario di apertura dei cancelli: non c’è nessuno, cerchiamo il nostro
posto, ci sediamo. E’ un po’ angolato per i nostri gusti, ma niente di
irreparabile: vediamo bene tutto il palco, e in caso di necessità di fronte
a noi c’è uno dei maxischermi. Contando le file la nostra ci risulta essere
la 13, non la 11; ma sulla sedia c’è scritto fila 11, quindi è tutto a
posto. Siamo la prima fila del secondo settore (in senso "spaziale",
non del prezzo!), e un paio di metri ci separano dalla fila davanti a noi.
Forse è meglio. Ci guardiamo intorno: come mai tutti questi posti vuoti?
Il concerto sta per iniziare. Ma ci sono le hostess di sala, tipe sveglie.
Accade
l’impossibile: 250 persone si presentano compatte ai punti di accesso proprio
mentre il concerto sta per iniziare – e inizia, giustamente, puntuale.
La conseguenza è che tanti vagano (quasi) nel buio per tutta la durata
dei primi tre pezzi, accompagnati dalle hostess che cercano, per quanto
possibile (= 0), di contenere il danno. Dire che la situazione accende
in noi e nei nostri vicini di posto istinti sanguinari è il classico "understatement".
E certo tutti i ritardatari che ci passano davanti hanno un "look"
elaborato e da "serata in" molto diverso da quello di chi è arrivato
(giustamente) in anticipo: abiti bianchi dove il seno piazzato con precisione
geometrica (1/3 dentro, 2/3 fuori) si mostra orgoglioso; comitive di gente
che si aggira smarrita senza minimamente sospettare di non essere trasparente;
"lieti giuochi di famiglia" (mamma + bimba di cinque anni che passano
curvi correndo "per non dare fastidio") che quasi ci inducono a
rivalutare la figura di Erode; gente che passa e ripassa tante di quelle
volte che alla fine vien quasi da offrire il proprio posto, per pietà. A
parere di chi scrive si sarebbe dovuto impedire l’accesso agli spettatori
a concerto iniziato. Vogliamo sostenere che quelle mandrie erano formate
da fan accaniti degli Steely Dan? Detto con garbo: non è che qui c’è da ripensare
la faccenda dei biglietti omaggio?)
Si accendono
le luci, il gruppo entra e attacca una piacevole sigla dall’aria swing
(Duke Ellington? Stan Kenton? Fatta in casa?). Poi entrano i due titolari,
e si parte: Time Out Of Mind.
E qui
sono tante le cose che vengono in mente, e tutte assieme. Innanzitutto
il suono: perfetto, sembra l’hi-fi di casa quando è buono (ma allora si
può!). Si sente tutto in modo intelligente e cristallino, senza quella
botta dei bassi nello stomaco e quel volume annichilente. Risultato: dodici
elementi da gustare, le loro complesse interazioni – gli arrangiamenti
sono articolati – sempre nitide. Affiatamento da brivido: è lo stesso gruppo
che ha girato l’anno scorso, e molti dei musicisti fanno parte della ditta
da tempo.
Bella
la sezione fiati: da sinistra, Roger Rosenberg
al baritono, Walt Weiskopf al tenore (e all’alto), Michael Leonhart alla
tromba e Jim Pugh al trombone. Rosenberg e Pugh hanno a volte delle movenze
quasi mingusiane, mentre Leonhart è il classico jolly e Weiskopf, dal fraseggio
teso e scattante, è quello più "moderno". Leggono tutti, suonano
sempre molto concentrati: qui (come per gli altri componenti) i maxi schermi
consentono di cogliere particolari che altrimenti andrebbero persi.
Herington e Becker suonano ben distinti: più "grosso e saturo"
il primo, che riproduce con incredibile naturalezza quelle parti che ormai,
dopo trent’anni di ascolti discografici, sono a tutti gli effetti parte
integrante della composizione; versatilità di suono, scioltezza esecutiva,
fantasia nell’apparente fedeltà, in un’epoca meno superficiale Herington
sarebbe da tutti considerato un gigante. Becker è Becker, con quel suo
inconfondibile suono nitido e tagliente e quel rapporto "rischioso" tra
il fraseggio e la tonalità.
La vera sorpresa, per chi scrive, è Keith Carlock: tempi impeccabili,
pulsazione perfetta, ma anche un’esuberanza rock che vivacizza il tutto
e aumenta a dismisura la suspance esecutiva. Secco, e diremmo logicamente,
il basso di Freddie Washington, che ha piacevolmente stupito durante un
breve assolo in cui ha reso fresco e nuovo lo "slappin’ ‘n’ poppin’".
Non appariscente ma essenziale il lavoro di Jeff Young, che all’Hammond
ha riempito con gusto (anche in assolo) e al pianoforte (finto) ha lavorato
d’appoggio a Fagen. Un linguaggio armonico decisamente ampio, e un buon
apporto vocale.
Belle e brave, Carolyn Leonhart-Escoffery ("lovely and talented",
secondo la definizione che ne darà Walter Becker in veste di MC) e Cindy
Mizelle ("luscious") alle voci.
Seduto al piano elettrico, Donald Fagen sembra sempre di più Ray
Charles. Una presenza forte ma allo stesso tempo discreta. La voce è ancora
molto buona, così ricca di feeling, e le note le prende ancora tutte con
disinvoltura.
Colpisce
l’atteggiamento di grande dignità dei titolari, che non cercano mai il
facile applauso, che non sottolineano mai oltre il dovuto la storicità
dell’occasione. C’è anzi un "effetto distanza" in azione, laddove
è la musica al primo posto, e il resto conta davvero poco. Ed è buffo Becker
nel presentare i musicisti, con una pronuncia e un atteggiamento vocale
quasi da professore di letteratura. Ed è forse questa che offriamo al lettore
quale impressione in grado di descrivere bene il tutto: è come vedere una
formazione giunta per incanto… dal passato? Certo da un’epoca in cui
la televisione doveva ancora operare i suoi guasti.
Il concerto
ha presentato in gran parte materiale tratto dal repertorio
"storico", con solo qualcosa dagli album più recenti. Detto della
bella apertura di Time Out Of Mind, segue Godwhacker in una versione di gran
lunga più grintosa ed efficace di quella apparsa su Everything
Must Go: bellissimi fiati in assolo, il primo dei quali è affidato
al baritono. Quasi toccante la versione di Bad Sneakers, cui fa seguito una
Two Against Nature dal serrato apporto percussivo e dal bell’assolo di sax
tenore.
Hey Nineteen ha un buffo intermezzo parlato di Becker, che cita
"bread, olive and cheese" (ed è una parte che diremmo venga adattata
al luogo e alla nazionalità). Segue Peg, con un gran bell’assolo di chitarra
di Herington.
Haitian Divorce è una ben strana sorpresa: cantata da Walter Becker
con imprescindibile sostegno delle coriste, nonostante il tipico incedere
reggae assume una sorprendente aria quasi country & western! Spettacolare
l’assolo di Herington, con il wha-wha a riprodurre il talk-box della versione
di studio.
Green Earrings viene fuori benissimo, con assolo distribuiti con
generosità (ottimo l’Hammond), mentre ci lascia un po’ perplessi la scelta
di Dirty Work. Tipica secchezza ritmica, e tipico assolo di Becker, per
Josie.
Andamento swingante e bluesy per la bella Chain Lightning, con ottimo
lavoro delle chitarre, mentre fa scintille la versione di Aja, dove il
duetto batteria/tenore non fa rimpiangere la notissima versione di studio.
Appropriatamente tesa la versione di Kid Charlemagne. E finisce qui.
Come, finisce qui? E’ dura da accettare, dopo un’attesa di secoli.
Luci accese, circa 3.500 persone, e un discreto mix di età. Parte il piano
elettrico, ed è lo shuffle di Pretzel Logic in una versione davvero splendida.
Si chiude in leggerezza con My Old School. Poi i due titolari ringraziano
e vanno via. Un’altra sigletta, e fine. Novanta minuti, in attesa del DVD-V.
Beppe
Colli
© Beppe
Colli 2007
CloudsandClocks.net | Aug.
7, 2007