Regina
Spektor
Remember Us To Life
(Sire)
A quattro
anni di distanza dal già pregevole What We Saw From The Cheap Seats, Remember
Us To Life vede Regina Spektor centrare pienamente il bersaglio con un album
che testimonia in modo definitivo il raggiungimento della piena maturità da
parte dell’artista, qui colta in uno stato di grazia forse difficilmente
ripetibile, completamente padrona di quelli che potremmo definire quali gli
"elementi" della sua musica: il versatile pianismo, il gusto per il
racconto, il disinvolto polistilismo, la vocalità prodigiosa che mai come
stavolta appare perfettamente sotto controllo e sempre al servizio del disegno
melodico.
Remember
Us To Life si presenta all’insegna dell’innovazione, e qui il risultato era
tutt’altro che scontato. Pur arricchito da numerosi interventi strumentali,
What We Saw From The Cheap Seats giocava una carta che con qualche libertà
potremmo definire "minimale", presentando una versione
"idealizzata" di quella dimensione "piano & voce" che
se non esaurisce la tavolozza della musicista ne costituisce comunque il nucleo
centrale. In questa dimensione, guidato dalla mano sicura di Mike Elizondo
(Regina Spektor alla co-produzione), l’album valorizzava al massimo ogni pezzo
in sé, poco curandosi di offrire una veste stilisticamente unitaria, ché questa
risultava in ogni caso garantita dalla vocalità dell’artista, qui posta in
decisa evidenza da produzione e missaggio.
Remember
Us To Life accoglie invece un ampliamento delle fonti sonore, in primis gli
strumenti ad arco – in una gamma che va dal classico quartetto a un’intera
orchestra – ma anche chitarre, tastiere, effetti. Missaggi dinamici, un
"montaggio" dei momenti che va in direzione delle luci di scena dei
lavori teatrali e una vocalità che grazie a un sapiente lavoro di bilanciamento
e piazzamento delle fonti sonore rimane protagonista anche quando collocata
"dentro" il quadro.
Gli anni
che ci separano da What We Saw From The Cheap Seats hanno visto momenti
importanti nella vita della musicista: il matrimonio, la maternità, e il
piazzamento di un brano – You’ve Got Time – quale sigla del seguitissimo
programma targato Netflix intitolato Orange Is The New Black. E qui non
sapremmo dire se l’unico difetto da noi riscontrato sul nuovo album, cioè un
uso che diremmo senz’altro eccessivo della compressione (un aspetto che verrà
trattato più compiutamente in chiusura di recensione) sia da attribuire
all’esigenza di mantenersi "correnti" riguardo a quelli che sono gli
standard con cui il suono registrato si presenta oggi alla stragrande
maggioranza degli ascoltatori.
La
produzione di Remember Us To Life è a cura di Leo
Abrahams (la co-produzione è ancora di Regina Spektor), mentre il missaggio è
opera di Dan Grech-Marguerat. Con l’eccezione del brano conclusivo l’album è
stato realizzato nei famosissimi studi losangelini denominati The Village
Studios. Masterizzazione a cura di Bob Ludwig negli abituali Gateway Mastering
Studios, nel Maine.
Un’occhiata ai musicisti. Regina Spektor è ovviamente a voce,
piano, tastiere e synth. Oltre a occuparsi della produzione, Leo Abrahams suona
svariati strumenti, e diremmo che è qui che il suo ruolo si rivela per più
versi caratterizzante. Gli arrangiamenti d’archi sono stati scritti da Regina
Spektor e da Leo Abrahams. Alcune canzoni vedono violini e viole orchestrati e
suonati da Davide Rossi. Mentre su Sellers Of Flowers – brano che in più di un
senso suona del tutto diverso dagli altri – è presente l’Orchestra Filarmonica
della Città di Praga diretta da Andrew Skeet, qui anche in veste di
arrangiatore.
L’album gode dell’apporto di numerosi musicisti, tra i quali ci
piace citare Joey Waronker e Jay Bellerose a batteria e percussioni e Mike
Elizondo al basso elettrico e al contrabbasso. Ma come in un’orchestra, su
quest’album ai musicisti è chiesto di suonare note, non di apporre una firma
riconoscibile.
Un’ora di
durata – l’album propriamente detto presenta undici brani, contro i quattordici
della versione de luxe, che diremmo ovviamente quella da ascoltare – per una
grande varietà e un preciso senso di direzione.
Il fatto
di giungere in ritardo ci offre il privilegio di poter commentare il modo in
cui Remember Us To Life è stato recensito. Non è un bel vedere. La cosa più
preoccupante è che – con un rovesciamento paradossale del già più volte
discusso campo di battaglia posto sotto la scritta "i vecchi non capiscono
niente della musica di oggi" – molti recensori sembrano non avere molta
familiarità con cose quali "la melodia", "lo sviluppo" di un
brano, e neppure la "strumentazione" se questa include archi e un
pianoforte. I recensori appaiono spesso anche del tutto incapaci di attribuire
un "senso" a una composizione fatta d’altro che di sole "cellule
ritmiche", soprattutto se in assenza di un "vissuto" da
"public figure" cui attribuire senso e narrazione letti in chiave
autobiografica.
Come
d’abitudine, giunti a questo punto diamo una veloce scorsa ai singoli brani.
Bleeding Heart ha un andamento cantilenante, da canzone per
bambini. Qui la strumentazione mette in evidenza sintetizzatore, cassa, e
archi. Tre accordi di piano introducono la seconda parte, cui fa seguito un
"inciso" ritmato, fragoroso. Coda spettacolare per voce e piano. Scelta quale primo singolo, sotto un aspetto
"user-friendly" la canzone è in realtà una meditazione sulla
sofferenza e il dolore dovuti a processi di esclusione in anni giovanili, e a
dispetto di un’avvenuta guarigione mostra ancora vive le cicatrici. In questo
senso la coda del brano – con quei prodigiosi salti di ottava e una parola
("learn") che sembra cantata da Joni Mitchell – è di un’intensità
così bruciante da non lasciare immune la stessa autrice. (Si veda l’occhio
umido dell’artista, e la sua aria smarrita, alla fine dell’esecuzione del brano
nello show di Stephen Colbert, lo scorso settembre.)
Older And Taller è una scelta appropriata: piacevole, ritmato,
lieve, dal sapore beatlesiano. Archi ad arricchire e fare da contrappunto. Un
bel "bridge" sinfonico.
Grand Hotel è un tempo di valzer dal sapore di fiaba e di
racconto. Piano e archi al proscenio. Bell’inciso "sognante" con
celesta.
Small Bill$ è un brano dal sapore hip-hop, con ritmo incalzante,
semi-parlato, e coretto "cosacco". Archi, e una bella coda.
Black And White è una ballad per piano e voce, archi, batteria
cadenzata, che si apre nel ritornello. Un po’ ripetitiva, è a nostro avviso
l’unico brano debole, ma funziona come ponte verso la seconda parte dell’album.
The Light: un attacco limpido per piano e voce per quella che è
una delle vette del lavoro. Eseguita in duo con Leo Abrahams, acquista un
vestito quasi sinfonico, vestita dal synth. Un bridge che non t’aspetti, e
un’interpretazione vocale eccellente, misurata.
The Trapper And The Furrier offre un quadro "politico".
Aria melodica imparentata a Après Moi. Incedere incalzante e drammatico. Echi
di teatro, forse Kurt Weill. Bella orchestrazione: violoncello, contrabbasso,
violino.
Tornadoland offre a questo punto uno stacco netto su un’atmosfera
lieve. Poi il brano si fa drammatico, con un incedere da film, con contrabbasso,
violino, violoncello, synth. Coda – diremmo – quasi c&w.
Obsolete è un’altra delle vette dell’album, quasi un pezzo
d’opera. Apertura per piano e voce, melodia dolente, e un’atmosfera che poi si
allarga a sintetizzatori, percussioni, violoncello, e al live processing di Leo
Abrahams. Potente.
Sellers Of Flowers si presenta come un apologo, con voce, piano,
celesta. Qui l’orchestra marca stretta la voce e il racconto, decisamente teso,
cupo e misterioso.
The Visit si apre aerea, piano e voce, poi gli archi; fa seguito
uno straordinario sviluppo melodico, per quella che è (forse) una meditazione
serena sul tempo e la morte. Coda poetica, e perfetta conclusione – e
risoluzione – dell’album.
Non inferiori i tre brani inclusi nella versione de-luxe.
New Year ha un’ambientazione che ci ha ricordato la Picture Window
di Nick Hornby e Ben Folds, dall’album Lonely Avenue. Strano a dirsi, ci siamo
ritrovati a risuonarla in mente cantata dallo Scott Walker "classico"
di album quali Scott 3 e 4. Protagonista – diremmo – una vedova avanti negli
anni, il brano è una meditazione sulla sopravvivenza. Ma una cosa è leggerlo
sulla carta, un’altra sentirlo cantare da una voce "da spinta" a
ricordarci che cantare è un atto fisico – come la sopravvivenza. Rullante con le
spazzole, archi, la chitarra ad arpeggiare "dentro" il pianoforte,
Elizondo al contrabbasso.
The One Who Stayed And The One Who Left è essenzialmente una
ballad per piano e voce con funzione di apologo. Bello svolgimento, archi.
Un’aria melodica superba a fungere da ritornello. Bridge. A sorpresa, spunta la
voce di Joni Mitchell dei tempi di Blue: "I never wanted the bright lights
in my eyes // I’m much too quiet". Per certi aspetti, è questa la
"vera" chiusa dell’album.
End Of Thought chiude in maniera appropriata, con echi,
un’atmosfera criptica e drammatica, per quello che è forse un inedito dalle
session dell’album precedente. Esecuzione in duo con Elizondo. Echi e tastiere,
piano rimbombante, voci multiple.
E’ ora
giunto il momento di discutere il suono dell’album, che come già accennato
poc’anzi chi scrive ha trovato compresso in misura ben superiore all’ottimale.
E’ ovviamente un aspetto dell’ascolto che qui separiamo dal resto solo in senso
analitico, dato che "il suono della musica" si ascolta insieme alla
musica, e non separatamente.
Un’occhiata
al calendario e alcune accese discussioni che abbiamo avuto modo di leggere di
recente ci impongono di procedere con cautela. Per molti, oggi, questo è un
aspetto della musica che "non esiste". Ricordiamo bene quando, un
paio di anni fa, ci capitò di dire a un negoziante della nostra città che i
tweeter delle sue casse erano belli e andati, e la sua risposta fu "guarda
che è la musica che suona così" (per la cronaca, si trattava del nuovo album
di St. Vincent).
E’ un
aspetto completamente scomparso dalle recensioni, ma anche dalle discussioni
informali. Si è parlato di "un nuovo suono". Resta il fatto che la
compressione in eccesso, fastidiosa sempre, in certi stili "rema
contro" e rende difficoltoso l’apprezzamento della musica.
Ascoltando
Remember Us To Life abbiamo notato che capivamo tutte le parole delle canzoni –
segno indubitabile di un uso troppo generoso della compressione – e che
riuscivamo ad ascoltarlo solo a volume contenuto. I missaggi non mancano di
varietà, ma il suono "non respira", è soffocato. A tratti la voce di
Regina Spektor sembra schiacciata da un "soffitto di vetro".
Se è vero
che gli elenchi che è possibile trovare in Rete che dichiarano la dinamica di
un album nei vari formati non possono prescindere dall’ascolto, resta il fatto
che il coefficiente numerico di Remember Us To Life risulta simile a quello dei
nuovi album di Beyoncè e Rihanna (ma superiore a quello del nuovo album dei
Rolling Stones).
La
differenza è che mentre in certe canzoni la cosa può funzionare – un buon
esempio è Small Bill$, non a caso un brano in stile "hip-hop" – la
stessa cosa non vale per il resto. Grand Hotel dovrebbe uscire maestosa dalle
casse a mostrare la sua grandeur, non rimanere confinata dentro. E lo stesso
vale per il gigantesco affresco di Obsolete, e per tutto il resto dell’album.
Ed è magra consolazione il fatto che Grand Hotel – inteso come album dei Procol
Harum – diventi sempre meno "Grand" a ogni successiva opera di
"renovation", dal vinile originale alle prime versioni in CD ai
master compressi delle ultime edizioni.
Ci siamo
quindi trovati a sognare una nuova edizione di Remember Us To Life
rimasterizzata, giusto per fare un nome, dall’ottimo Steve Hoffman. Ma poi ci
siamo chiesti: e se non fosse un problema di masterizzazione? Qui il tecnico è
il leggendario Robert Ludwig, che ha già regalato colore a What We Saw From The
Cheap Seats.
Posto che
non abbiamo alcun modo di sapere come sono andate veramente le cose, dopo un
ascolto mirato è cresciuta in noi la convinzione che la compressione sia stata
aggiunta a conclusione della fase di missaggio, e non in sede di
masterizzazione; e come l’esperienza universalmente dimostra, quando un artista
– o il suo entourage – si abitua a un suono "loud" finisce per
giudicare "molliccio" il suono alternativo, soprattutto in un ascolto
comparato di quanto pubblica la concorrenza.
Ribadiamo:
Remember Us To Life non è brutto da ascoltare, e in ogni caso non brutto come
gran parte della musica che sentiamo oggi. Ma una voce e delle canzoni così
meritavano di meglio, com’è facilmente dimostrato dai concerti in video
facilissimi da trovare in Rete che vedono l’artista interpretare buona parte
del nuovo album accanto a classici del suo repertorio.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2016
CloudsandClocks.net | Dec. 27, 2016