Intervista a
David Simons
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di
Beppe Colli
April
19, 2005
Come recentemente
affermato in sede di recensione, Studio Stories di David Simons (Backbeat
Books, 2004) è lettura indispensabile per coloro i quali vogliono
conoscere meglio una fetta di una storia importante: quella dei grossi,
e gloriosi, studi di registrazione che per la maggior parte stanno diventando
storia.
Abbiamo
deciso che fare una conversazione con Simons su alcuni dei temi che
appaiono nel libro era una buona idea, così abbiamo chiesto alla
Backbeat Books di creare un contatto. La conversazione che segue è
avvenuta la scorsa settimana via e-mail.
Innanzitutto
vorrei che mi parlassi del tuo background. Sulla copertina del tuo libro
c’è scritto che hai collaborato con riviste quali Musician, Home
Recording, Guitar One e Acoustic Guitar. Vuoi dirmi di più?
Intendi
dire, oltre al fatto di scribacchiare immondizia per il mondo dell’editoria?
Nel corso degli anni ho passato molto tempo a far parte di gruppi, ma
alla fine mi sono stancato e circa cinque anni fa ho cominciato a mettere
insieme a poco a poco uno studio di registrazione qui nel seminterrato.
La cosa bella è stata che nel frattempo avevo potuto prendere
tutte le informazioni che ricavavo dal fare interviste e metterle in
pratica nello studio (come quando Todd Rundgren ha detto che lui ruotava
sempre le cordiere del rullante così che esse fossero parallele
al microfono della batteria, ecc. ecc.). Così questa è
diventata una discreta ossessione, che in seguito ha prodotto una replica
in miniatura di un vero studio, con una piccola cabina di regia e un’adiacente
sala di registrazione. E poi, una volta finito Studio Stories, ero così
gasato dall’ascolto di tutti questi vecchi tipi strambi che ho costruito
una vera camera d’eco vicinissima alla stanza per la batteria – che
devo ammettere è una cosa un po’ estrema, ma in verità
suona meglio di tutta la mia roba digitale.
Parlami
dell’idea dietro il tuo libro.
Quando
collaboravo a Home Recording avevo fatto qualche pezzo su alcuni dei grandi vecchi studi come i 30th Street
a New York e i Western a Los Angeles, comprensivi di interviste ai tecnici
originali, note a proposito di canzoni e album famosi e così
via. Su suggerimento del mio direttore, Rusty Cutchin, diventò
una mini serie chiamata Studio Stories. Ho smesso dopo circa sei puntate,
ma ho pensato che avesse le qualità necessarie perché
ne venisse fuori un libro non male, così ho portato avanti l’idea.
Dapprima pensavo che dovesse coprire tutte le diverse regioni degli
Stati Uniti, ma dopo che Jim Cogan ha fatto uscire Temples Of Sound
(che è stato fatto molto bene) ho pensato che sarebbe stato meglio
fare qualcosa di completamente diverso, così ho deciso di concentrarmi
su un luogo particolare – New York. Cosa che, con il senno di poi, ha
funzionato molto meglio in ogni caso.
Il
fatto è che io non volevo che il libro fosse solo una lettura
strettamente tecnica (sebbene personalmente io ami quel tipo di informazioni),
dato che sapevo che ci sarebbero state delle ricche sottonarrazioni
di tipo storico e culturale che sarebbero state almeno altrettanto importanti
di tutta la roba a proposito di microfoni e banchi di regia e via dicendo.
Così il mio scopo è stato quello di presentare una serie
di storie sugli studi e la scena musicale di New York durante questo
periodo di trent’anni che sarebbero state elasticamente collegate da
un tema principale – la scintilla dell’ingegno che ha segnato i primi
anni e l’età di mezzo della moderna registrazione, e il successivo
calo di innovazione che è stato il risultato di troppa tecnologia
(e il conseguente snellimento di tutto il processo del fare i dischi).
"Un
disco che suona bene" è ovviamente un concetto molto soggettivo,
ma devo confessare che l’unico "disco che suona bene" che
ho ascoltato recentemente è stato Get Away From Me, l’album di
debutto di Nellie McKay prodotto e realizzato da Geoff Emerick – registrato
nei Clinton Recording Studios a New York e missato nei Capitol Recording
Studios a Los Angeles. Conosci questo CD (e questi studi)? Altri "
dischi che suonano bene " che hai ascoltato di recente?
Non
ho ascoltato tutto l’album di Nellie, però mi è piaciuto
molto il pezzo David – bella canzone e lavoro di produzione interessante.
Ma fino a pochissimo tempo fa cercare di stare ad ascoltare più
di cinque minuti di radio mainstream è stata una tortura. Abbiamo
avuto un buon periodo intorno al ’93-’96 con il ritorno del rock più
chitarristico oltre a del lavoro di produzione davvero di gusto da parte
di gente come Rick Rubin e Brendan O’Brien. Ma subito dopo è
arrivato questo stupido nu-metal, e il suono chitarristico e la dinamica
sono scomparsi. Di tanto in tanto c’è qualcosa di buono come
il Green Album dei Weezer, che suonava in modo fantastico, o roba dei
Foo Fighters, o dei Rage e poi degli Audioslave, ma queste sono state
eccezioni.
Mi
lascia perplesso il tipo di "progressione" dei mezzi d’ascolto
casalinghi – dai giradischi che venivano usati soprattutto per suonare
i singoli ai sistemi di "vero hi-fi" ai… computer e, oggi,
gli iPod. Mi pare che i fruitori oggi prediligano soprattutto l’accessibilità
economica (che a volte può significare "gratis"…)
e la portatilità piuttosto che la qualità sonora e l’attenzione
per il dettaglio. A giudicare dalla tua esperienza personale, hai notato
uno spostamento nei modelli di consumo?
Credo
che la popolarità dei servizi di musica digitale come iTunes
e Napster sia la prova che la musica non sarà mai più
una merce completamente tattile. Voglio dire, non si possono negare
i benefici della portatilità digitale – ammettiamolo, avere la
possibilità di portarti dietro tutta la tua collezione di dischi
in un riproduttore MP3 grande quanto la tasca della tua camicia è
decisamente allettante. Però è ovvio che la trasformazione
della musica da un medium fisico a un mucchio di bit e byte, per non
parlare della scelta infinita offerta dalle librerie di musica su Internet,
ha reso la musica sempre più usa-e-getta, dato che ci abituiamo
sempre più a scaricare e ascoltare per poi velocemente cancellare
e ripetere il tutto. Il che non è necessariamente una cosa così
cattiva.
A
volte non è facile notare tutto il lavoro che ci vuole per raggiungere
un risultato – il mio esempio preferito in tal senso è la produzione
di Chris Thomas dell’album dei Sex Pistols. Nel tuo libro intervisti
Ed Stasium a proposito del suo lavoro con i Ramones. Vuoi parlarne?
Quando
ascolti questi dischi sai che stai ascoltando qualcosa di veramente
buono ma non riesci davvero a individuarlo subito. Ed è perché
hanno questa grande atmosfera, e credo che Ed abbia avuto molto a che
fare con essa. Oltre a essere un grande produttore Ed è anche
un vero personaggio, ed è stato molto disponibile a proposito
di quello che è successo nel corso di quelle sedute. Innanzitutto
c’è quest’idea che i Ramones erano solo un pugno di dilettanti
qualunque, il che è totalmente sbagliato – avevano questo grande
amore per la pop music, conoscevano davvero tanto sul fare canzoni e
fare i dischi. E Rocket To Russia è stato uno sforzo deliberato
di creare un album pop che fosse commercialmente un successo. Quello
che Ed e Tommy (Erdelyi) hanno fatto negli studi Mediasound durante
Rocket To Russia
– e poi su Road To Ruin – è stato del tutto stupefacente. Paragonalo
al primo album, registrato al Plaza Sound sopra il Radio City Music
Hall – che ha un buon suono, anche se secco, in un certo senso soffocato.
Ma poi metti su Rockaway Beach o Teenage Lobotomy dal terzo album e
puoi sentire quello che Ed stava cercando di fare con il suono dell’ambiente
e le sovraincisioni – le chitarre di Johnny suonano ancora spesse e
live, ma c’è anche questo splendore extra che deriva dalla stratificazione
e dall’ambiente. E non si tratta di una cosa come "Oh, qui stanno
facendo delle sovraincisioni" perché non è una cosa
che noti davvero – senti solo che c’è qualcosa di diverso, che
c’è questa atmosfera. E questo è ciò
che rende unici tipi come Chris Thomas e Ed Stasium.
Una
volta non era impossibile indovinare in quale studio una canzone fosse
stata registrata dal solo ascolto alla radio (ricordo che il suono del
pianoforte registrato nei Trident Studios di Londra è spuntato
su molti album degli anni settanta). Ti è mai successo?
In
verità, dopo aver fatto questo libro e gli articoli correlati,
sono diventato davvero bravo a capire cosa era stato registrato dove,
al punto che potevo essere una vera scocciatura quando me ne andavo
in giro in macchina con mia moglie con la radio accesa. Nel libro moltissimi
tecnici del suono parlano di questo fenomeno – principalmente dovuto
all’aspetto "fatto in casa" dei vecchi studi e delle tecniche
di registrazione del tempo. A quel tempo la maggior parte degli studi
migliori avevano camere d’eco e banchi di regia realizzati in proprio,
o le stanze venivano costruite in modi speciali e così via. Ogni
studio aveva un tecnico che si occupava solo di quello; alcuni avevano
perfino un settore di R&S (ricerca e sviluppo) che impiantava attrezzature
inventate e costruite in proprio. Altri avevano un gruppo di musicisti
che fornivano le basi per la maggior parte dei successi registrati in
quello studio. Così tutti quegli elementi si combinavano per
dare a uno studio il suono che lo contraddistingueva e che puoi ascoltare
alla radio ancora oggi. E’ completamente l’opposto di quello che hai
adesso – in larga parte tutti usano le stesse attrezzature base, gli
stessi processori, plug-in, ecc. E’ come mangiare un hamburger da un
ristorantino del posto invece di un hamburger della McDonald’s.
Frank
Laico è stato per molti versi un innovatore nel lavoro di produttore
e di tecnico ma il suo nome non è conosciuto come quello di altri
produttori e tecnici. A beneficio di chi non ha letto il libro, vuoi
parlarmi di lui?
Sono
stato un grande ammiratore di Frank dai tempi in cui ero un ragazzino
– ho sempre amato il suono di quei dischi di canzoni della Columbia.
Accendi la radio verso Natale e puoi scommettere che ogni due canzoni
che ascolti una è stata registrata da Frank. Mi ci sono voluti
anni per capire cos’era di questi dischi che aveva un suono così
bello – ma in sostanza era il modo in cui sistemava i microfoni in quella
enorme stanza nel 30th Street Studio, e naturalmente quell’incredibile
suono della camera d’eco su quei pezzi cantati. Lui è stato davvero
uno dei primi a usare l’ambiente naturale della stanza e l’eco naturale
in un modo del tutto creativo. Non era una cosa che avrebbe potuto fare
chiunque – Roy Halee, che non era certo una schiappa, è rimasto
sbalordito dalla vastità di 30th Street, motivo per cui ammirava
Frank per essere stato in grado di ottenere un tal suono lì.
Ed era stupefacente perché non solo Frank era in grado di catturare
questo grosso elemento live sul nastro ma allo stesso tempo tutti gli
strumenti avevano questa incredibile chiarezza. Ascolta uno dei dischi
di Tony Bennett della fine dei cinquanta e dei primi sessanta e vedrai
cosa voglio dire. E tutto quello che ha fatto è stato usare degli
ottimi microfoni a condensatore piazzati nei punti giusti con pochissimo
trattamento – erano registrazioni completamente naturali.
Soprattutto,
Frank è un individuo fantastico. Mi ha davvero aiutato a metter
su la camera d’eco nel mio seminterrato – mi ha dato perfino un vecchio
microfono Western Electric proveniente dallo Studio A dei Columbia da
mettere lì. Riesci a crederci?!
Per
il libro hai anche intervistato Roy Halee. Ovviamente lui è noto
soprattutto per le sedute di registrazione fatte con Simon & Garfunkel
ma io ho un debole per il suono umido e misterioso di New York Tendaberry
di Laura Nyro. Conosci questo album?
Ne
ho ascoltato solo dei pezzetti, e molto tempo fa. L’altra mia produzione
preferita di Halee è Hums Of The Lovin’ Spoonful – il suo primo
lavoro tecnico di caratura veramente artistica. Un buon riscaldamento
per la roba di S&G.
L’ultima
canzone di cui tratti in New York Grooves, l’ultima sezione del tuo
libro, è una canzone di Stevie Wonder registrata a The Hit Factory
nel 1976. La Hit Factory ha chiuso i battenti proprio pochi mesi fa.
Ci sono degli accesi dibattiti in corso proprio adesso su Internet,
e molte teorie sulle ragioni (musicali) per cui tanti fantastici studi
stanno chiudendo. Vuoi dirmi la tua opinione in proposito?
Tutta
questa faccenda – la scomparsa dello studio "tradizionale"
– è il tema principale di Studio Stories. Per quale motivo questo
sta avvenendo? E’ complicato e ci sono molte ragioni – a New York, per
esempio, il valore degli immobili nel corso degli ultimi decenni è
arrivato alle stelle e quindi un certo numero di grandi studi sono diventati
dei bersagli succulenti per il mercato immobiliare. Ma a dire il vero
il primo chiodo nella bara è stato il rimpicciolimento iniziato
nell’era rock, quando divenne evidente per i capi dell’industria che
una stanza di dimensioni mostruose non era necessaria per registrare
un complesso pop. Poi è venuto il digitale, e tutto d’un tratto
non avevi più bisogno di cose come grandi camere d’eco o piastre,
potevi digitalizzare tutti gli effetti, e le cose sono diventate ancora
più piccole. E poi con l’hip-hop e la techno tutti hanno cominciato
ad andare in connessione diretta, e a quel punto non ti serviva più
nemmeno una stanza – se volevi potevi registrare un disco in uno sgabuzzino.
Così è diventato un circolo vizioso, laddove la tecnologia
ha cominciato a dettare il tipo di musica prodotta e vice versa. Ovviamente
allo stesso tempo avevi gente come Jon Brion e Jim Scott che preferiva
le tecniche di registrazione "classiche" e che nel suo piccolo
suppongo abbia contribuito a preservare alcuni di questi vecchi studi.
Ma è stato abbastanza per mantenerli in vita nel lungo periodo?
Evidentemente no. Guarda quello che è successo solo nelle ultime
settimane – oltre alla Hit Factory abbiamo perso i Cello Studios a L.A.,
e anche i Muscle Shoals Sound in Alabama. La citazione del produttore
Lou Gonzalez che chiude il libro – "hai scelto un buon momento
per fare uscire questo libro, un altro anno ancora e potrebbe non essere
rimasto assolutamente niente qui" – sembrava allora un po’ esagerata,
ma in realtà potrebbe non essere così lontana dalla verità.
Progetti
futuri?
A
causa della mia ossessione semi-masochista nei riguardi di decrepite
cose analogiche il mio editore ha pensato che sarebbe una buona idea
fare un libro per quelli che sono curiosi a proposito di queste cose
(registratori a nastro, vecchi preamplificatori, compressori, riverberi,
qualunque cosa a valvole), con l’idea di integrare il tutto in uno studio
altrimenti completamente digitale. La Parte I tratterà delle
apparecchiature – dove/cosa/come trovarle, ecc. – e anche dei principi
del "fai da te" analogico come per esempio costruirsi da sé
una vera camera d’eco, heh heh. La Parte II sarà un resoconto
puntuale di una vera session di registrazione in progress, nella quale
tutti gli attrezzi & le regole di cui sopra sono messi (si spera)
a profitto. Al momento attuale non c’è ancora un titolo.
Dopo
ciò è molto probabile che io mi immerga in uno Studio
Stories 2, questa volta a proposito della West Coast. Dovrebbe essere
divertente.
(P.
S. La scorsa settimana ho ricevuto una telefonata da Elliot Mazer, il
quale intende organizzare una presentazione della storia della registrazione
a New York basata su Studio Stories per la Convention 2005 dell’AES
(Audio Engineering Society) a New York. Elliot vuole invitare il maggior
numero di persone che compaiono nel libro; avranno a disposizione un’attrezzatura
stereo e un sistema multimediale in modo da poter suonare musica incisa
nei vari studi simultaneamente a uno show di diapositive che mostrano
immagini degli artisti, degli studi, ecc. Un certo numero di persone
ha già comunicato che parteciperà. Incredibile, vero?)
©
Beppe Colli 2005
CloudsandClocks.net
| April 19, 2005