Intervista
a
Bill Sharp/Biota (1994)
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di Beppe Colli
March 8, 2005
E’ stato circa vent’anni fa che abbiamo avuto modo di ascoltare per
la prima volta un LP del collettivo musical/visuale denominato Mnemonists.
Horde si rivelò essere estremamente diverso da qualsiasi altra
cosa ascoltata in precedenza, un’esperienza misteriosa e a tratti fonte
di perplessità. Quasi contemporaneamente acquistammo Rackabones
(1985), un doppio album pubblicato sotto il nome di Biota, gruppo-satellite
dei Mnemonists. L’interessante saggio apparso sul Volume 1, Issue #
3 del ReR Quarterly si rivelò estremamente utile a propiziare
una migliore comprensione del complesso lavoro necessario a produrre
tali densi risultati. Bellowing Room (1987) fu il brillante seguito.
Fu a quel tempo che cominciammo a notare che tutte le recensioni che
ci capitava di leggere (non esattamente numerose, tra l’altro) erano
sempre estremamente vaghe – "come avere sei piatti accesi contemporaneamente"
o "immaginate di accostarvi una conchiglia all’orecchio" e
simili. Frattanto ci sembrava di notare una qual certa evoluzione negli
album successivi – Tinct (1988), il 10" Awry (1988), Tumble (1989,
il loro primo CD), Almost Never (1992). Cominciammo a pensare di fare
un’intervista al gruppo. Così, dopo che la nostra recensione
(e breve profilo) di Almost Never apparve sulla rivista italiana Musiche
(numero 13 datato Estate/Inverno 1992), della quale eravamo collaboratori,
procedemmo con il piano.
Chiedemmo un’intervista con una lettera datata 25 febbraio 1993. Ricevuta
luce verde inviammo le domande con una lettera datata 25 maggio 1993.
Le domande erano scritte su striscioline di carta da leggere in sequenza.
Dato che era nostra intenzione che l’intervista somigliasse a una conversazione
le domande erano discretamente prolisse. Bill Sharp inviò le
risposte con una lettera datata 11 marzo 1994. Chiedemmo un chiarimento
alla domanda #4, che ricevemmo in una lettera datata 14 luglio 1994.
(Le due parti appaiono qui sotto scritte in caratteri diversi.)
Purtroppo fu grosso modo a quel tempo che le strade di Musiche e di
chi scrive si separarono, e così l’intervista rimase inedita
finché Chris Blackford non decise di stamparla sul suo giornale,
Rubberneck (UK). L’intervista apparve sul #20, December 1995 con il
titolo "Openness, Density, Mystery and Wonder… The Strange Case
of Biota", grosso modo contemporaneamente al nuovo CD del gruppo,
Object Holder. A questo proposito dovrebbe essere notato che leggemmo
per la prima volta la lunga risposta a proposito del nuovo album – ancora
senza titolo quando avevamo inviato le risposte – su Rubberneck.
Dobbiamo ammettere che fummo molto scontenti di Object Holder, e per
molte ragioni. Innanzitutto ci parve che le parti vocali – com’è
ovvio in questi casi – distraessero e spostassero l’equilibrio a sfavore
del mistero strumentale. Il fatto che la cantante prescelta (Susanne
Lewis) fosse quella che forse ci piaceva di meno in assoluto (per ragioni
di intonazione, fraseggio, atteggiamento vocale ecc.) certo non aiutò.
Sebbene bello, il piano di Chuck Vrtacek a volta ci faceva pensare di
stare improvvisamente ascoltando un altro disco, e lo stesso accadeva
quando la batteria di Chris Cutler si affiancava alla voce della cantante
– cos’era, un CD dei Thinking Plague?
Scrivemmo ancora a Bill Sharp, e i suoi commenti a proposito del nuovo
CD (successivamente intitolato Invisible Map e pubblicato nel 2001)
appaiono a mo’ di P.S. al testo principale.
Speriamo davvero che questa intervista – e la reperibilità di
molti dei titoli discussi nel formato CD – renda il lettore curioso
di ascoltare questa musica (a volte difficile, sempre intelligente).
Possiamo solo dire di aver sempre trovato il fatto che i Mnemonists/Biota
siano estremamente poco conosciuti fonte di estrema perplessità.
Forse perché il gruppo si è mosso in direzione opposta
alla corrente principale (basata su glitch e laptop) di tanta musica
elettronica moderna? O forse perché la loro etichetta (dopo aver
inciso per una casa da loro stessi autogestita, i Biota hanno pubblicato
pressoché tutto per la ReR) non ha mai avuto la possibilità
di spendere quei soldi di pubblicità che creano i cosiddetti
fenomeni di tendenza? Chissà.
Mi parleresti dei Mnemonists? Il modo in cui si sono formati, le
influenze, il retroterra, gli obiettivi.
La Mnemonist Orchestra si è formata nel marzo del 1979 come gruppo
di amici di retroterra e formazione alquanto diversi: musicisti, artisti
dediti alle arti visive e persone di formazione scientifica. Inizialmente
eravamo interessati alle possibilità di interazione spontanea
all’interno di questo gruppo eterogeneo in una situazione dal
vivo in studio – un unico evento di sovraccarico sonoro diretto in modo
abbastanza elastico. Dal punto di vista concettuale stavamo mettendo
in discussione gli effetti (in gran parte negativi) del bombardamento
tecnologico sui bambini più piccoli. Ma retrospettivamente la
cosa più importante è che eravamo interessati agli stimoli
dell’ambiente sia come contenuto che come forma. E sebbene le nostre
composizioni attuali siano strutturate in modo molto diverso (cioè
a dire, in modo lento e metodico) questo atteggiamento nei confronti
delle fonti dell’ambiente rimane con noi. Esso ha avuto origine in parte
dal nostro rispetto per la tradizione della musica concreta e in parte
dai film. Siamo stati influenzati da registi che hanno tratto elementi
sonori dai luoghi delle riprese e li hanno trasformati in informazione
musicale da usare nella colonna sonora. Il lavoro di Lynch e Splet in
Elephant Man costituisce un buon esempio di ciò. Nel film amplificano
il normale background a un punto tale che esso diventa davvero iperrealista,
più organizzato che casuale. E quindi, più musica che
rumore.
Quello che mi colpisce ogni volta che ascolto un disco come Horde
è la natura acustica – in opposizione a elettronica – del lavoro,
una caratteristica che è rimasta una costante dei Biota. Una
decisione consapevole, ovviamente. Me ne vuoi parlare? (A mio parere
non ricorda pionieri quali Vladimir Ussachevsky o Otto Luening – forse
un po’ Tod Dockstader o gente come Scaeffer, la scuola di musica concreta
francese.)
Il nostro lavoro comprende elaborazioni elettroniche, ma le composizioni
sono costruite a partire da materiali acustici. Pervenire a una ambiguità
ricca di mistero tra i due elementi è una sfida che ci ha attirato
dai tempi di Horde fino al nostro lavoro attuale. Speriamo di mantenere
le caratteristiche derivanti dall’essere suonate da esseri umani proprie
delle parti acustiche mentre allo stesso tempo le trasformiamo in modi
decisivi. I colori tonali e le variabili temporali possono certamente
essere enormemente alterati nell’ambiente dello studio, e questa sperimentazione
risale ai tempi delle prime manipolazioni dei media della registrazione.
Oggi queste tecniche sono di uso comune, sia all’interno che all’esterno
del mainstream della musica.
Fedeli alla tradizione dei Mnemonists, oggi i Biota lavorano in modo
molto meticoloso, costruendo gradualmente gli arrangiamenti a partire
da molteplici fonti acustiche, alcune delle quali trattate elettronicamente
già a uno stadio iniziale. Questi arrangiamenti sono poi intrecciati
in un lungo sviluppo lineare. Successivamente le parti primarie già
eseguite sono a loro volta suonate in una seconda generazione di esecuzione
legata a un attivo processo di missaggio. La procedura è di tipo
fluido, e incorpora sia elementi di accurata pianificazione che di spontaneità.
Ed è piena di sorprese e di opportunità impreviste per
i compositori.
Nel saggio apparso sul ReR Quarterly avete definito il vostro lavoro
come "rappresentativo, pittorico, emozionale". Anche se alcune
delle vostre idee sono cambiate, parlando del periodo Horde: a circa
3/4 della facciata uno c’è qualcosa che ha un suono come un veicolo
cingolato e una mitragliatrice che comincia a sparare. Ora, alla luce
della definizione appena citata, la vostra intenzione è che l’ascoltatore
dica "Ecco che comincia la battaglia", piuttosto che "Quell’inviluppo
è davvero strano"?
Sì, "comincia la battaglia"… o qualunque del numero
infinito di interpretazioni possibili, ciascuna delle quali unica al
singolo ascoltatore. Ma sì, eccettuato il caso speciale di chi
fa musica e che potrebbe vedere una tale manipolazione in termini tecnici
il nostro suono si propone di agire su un piano emozionale. Tutta la
musica, a ben vedere, opera principalmente su un piano emotivo, anche
se alcuni compositori sono restii ad ammetterlo. Durante tutta la produzione
di Horde, nella mia qualità di co-compositore, ho sentito che
il mantenimento di questo mistero riguardo la fonte e il processo avrebbe
avuto l’effetto di incoraggiare nell’ascoltatore una interpretazione
personale dell’attività nello spazio.
Più recentemente con Almost Never abbiamo rivelato per iscritto
l’identità delle fonti sonore che contribuiscono a specifici
passaggi, un’azione che sembrerebbe contraddire gli intendimenti che
ho appena illustrato. E tuttavia, data l’oscurità dei ruoli di
queste fonti in molte situazioni, questa conoscenza aggiuntiva può
in effetti spingere l’ascoltatore a scrutare più profondamente
negli ambienti allo scopo di individuare l’azione che lì si verifica.
Il coinvolgimento dell’ascoltatore, in questo modo un co-compositore,
è importante per noi.
Ecco il motivo della mia domanda precedente: di solito, meno determinato
e più aperto è il "senso" di un brano musicale
(per "senso" intendo la sua organizzazione interna) più
all’ascoltatore viene data la libertà – e la responsabilità
– di trovare il suo senso. Il pericolo che scorgo in questa situazione
(ho letto un paio di recensioni che erano colpevoli di ciò) è
che dato che un brano può avere molti "sensi emotivi"
ma nessun palese, convenzionale, senso musicale, c’è il pericolo
che esso divenga una nuova forma di easy listening, di musica come carta
da parati, sebbene per un pubblico minoritario.
Questo problema è sempre stato di grande importanza per noi.
La musica dev’essere bilanciata in modo precario; dev’essere sufficientemente
aperta da coinvolgere su un piano personale l’ascoltatore per mezzo
della sua memoria e della sua esperienza presente, e però deve
anche essere strutturata con molta cura e sviluppata al fine di fornire
uno scopo agli sforzi dell’ascoltatore. Se la struttura è
sufficientemente forte la musica può evitare di essere un puro
"sfondo" o una "carta da parati". Essa è
in grado di comunicare una certezza di scopo – che non è arbitraria
o accidentale, e che vale l’energia dell’ascoltatore.
Riguardo la domanda #4 credo di capire che quello che intendi è:
a prescindere dal fatto che ci sia o meno una logica interna (o una
struttura formale) presente in un brano di musica, l’ascoltatore può
in effetti giungere alla conclusione che una organizzazione cosciente
è presente. In tal modo, man mano che i compositori lasciano
la struttura sempre più aperta alla soluzione dell’ascoltatore,
essi (i compositori) corrispondentemente abbandonano la loro responsabilità
di compositori.
Sono d’accordo. Il dilemma presenta una sfida importante: i compositori
devono, nel tempo, sviluppare e perfezionare un linguaggio di sostanza,
e però allo scopo di raggiungere efficacemente l’ascoltatore
i compositori devono cercare quella partecipazione dell’ascoltatore
al di là del livello del godimento puramente di superficie. Il
linguaggio, quindi, dev’essere sia innovativo che accessibile.
Deve, come Sun Ra e Beefheart, incorporare la tradizione e però
minacciare di lasciarsi indietro quella tradizione portandosi dietro
l’ascoltatore perplesso.
Dato che suppongo che i lettori non abbiano familiarità con
il saggio del Quarterly, ti dispiacerebbe parlare del modo in cui lavoravate
in studio ai tempi di Bellowing Room?
Come ho già accennato prima, gli arrangiamenti erano costruiti
partendo da performance puramente acustiche. Con questo mi riferisco
sia al suonare strumenti letteralmente acustici che strumenti elettroacustici,
come per esempio chitarre e organi, in uno spazio naturale. Nel caso
di Bellowing Room queste esecuzioni hanno avuto luogo variamente in
solo e in contesti di piccolo gruppo.
Sia le parti strumentali che le registrazioni di ambienti sul campo
sono state soggette a gradi successivi di trattamento elettronico e
combinatorio (sub-missaggi). Sospetto che la densità peculiare
a Bellowing Room e ad altri lavori dei Biota possa essere almeno in
parte dovuta alla formazione di questi periodici sub-missaggi che poi
vengono a loro volta combinati in un missaggio finale allo scopo
di creare un ensemble ancora più imponente. In numerosi punti
lungo il tragitto c’è la possibilità di mutazione elettronica
e di editaggio del nastro.
Nel mio profilo ho formulato una congettura su quello che retrospettivamente
percepisco come il muoversi da una dimensione pittorica a uno stato
in cui i suoni cominciano a essere assemblati in un modo che inizia
ad assomigliare a un "linguaggio". La tua opinione?
L’enfasi pittorica nel nostro lavoro non è mai stata abbandonata,
persino oggi, quando riceve una considerazione primaria. Ma il linguaggio
che tu identifichi è forse la stessa organizzazione, o il tessuto
strutturale, alla quale ho fatto riferimento in precedenza e che fornisce
uno scopo allo sviluppo pittorico o narrativo.
Nel corso degli anni abbiamo accumulato tecniche che senza alcun dubbio
sono intessute nella trama, non sempre in maniera cosciente, ma da ultimo
in un modo che fornisce un’identità stilistica alla nostra musica.
Man mano che lo perfezioniamo, il linguaggio della nostra composizione
sta – speriamo – diventando più forte senza per questo sopraffare
il mistero sotteso e quindi l’invito rivolto all’ascoltatore perché
formuli la sua interpretazione personale.
Al tempo di Early Rest Home lavoravate tutti insieme in studio, ma
a partire da Awry la batteria è stata registrata in un altro
studio. Posso fare delle ipotesi sulle ragioni, ma mi piacerebbe sapere
di più – e l’ordine in cui le tracce sono registrate adesso.
E’ stato nostro costume costruire le composizioni a partire da una varietà
di scenari esecutivi, sia in solo che in ensemble. E le parti primarie
sono state registrate usando un ampio spettro di tecniche. Il lavoro
di batteria fatto in studi esterni è stato per noi un cambiamento
nella registrazione tecnicamente interessante e anche conveniente da
un punto di vista logistico. Molte delle nostre registrazioni primarie
di batteria a partire da Bellowing Room hanno utilizzato un’utile separazione
acustica tra le molte componenti della batteria. Siamo stati in grado
di ottenere variazioni maggiormente interessanti su questo sperimentando
sia dentro che fuori il nostro studio.
Spesso registriamo la batteria e altre variabili ritmiche essenziali
nelle fasi iniziali dello sviluppo di una composizione… ma non sempre.
Per esempio, i nostri brani più recenti incorporano densi passaggi
che sono stati costruiti partendo da ambedue gli estremi – da delicate
performance di solo piano o di fisarmonica a un ruggente lavoro di batteria.
Quindi non c’è nessuna regola nell’ordine di assemblaggio.
A mio modo di vedere Tumble è stato in un senso un punto di
svolta, sebbene con il senno di poi la seconda facciata di Bellowing
Room, certe cose su Tinct e la ridotta lunghezza dei pezzi su Awray
sembrano puntare in una certa direzione. Qual è stata la ragione
estetica dell’introduzione di evidenti elementi jazz su Tinct e di elementi
di musica popolare americana su Tumble?
Non c’è mai stata una decisione chiaramente calcolata di introdurre
alcuno specifico elemento jazz, folk o rock – come elementi di genere
– nella musica. Siamo un insieme di ascoltatori diversi, e nell’intimo
siamo legati in modi importanti a quello che abbiamo imparato – e che
ci è piaciuto – dagli altri nel corso degli anni. Non credo che
alcun musicista possa separarsi da una tale storia. Ciò che ha
variamente rivelato o oscurato le nostre influenze è stata l’evoluzione
del nostro peculiare linguaggio di assemblaggio, quello che tu hai identificato
prima. Ma sono certo che ciascuna delle nostre composizioni finite racchiude
la maggior parte di questi fantasmi del nostro passato, se non tutti.
Retrospettivamente abbiamo spesso tratto piacere da spostamenti intracompositivi,
sia graduali che repentini, tra queste forme molto varie per stile o
periodo. Se c’è un generale filo narrativo sotteso che lega insieme
tutti i nostri lavori è il concetto di viaggio – di un volo osservativo
sul tempo storico e sulla distanza geografica.
Dapprincipio le formazioni e le strumentazioni venivano elencate
collettivamente. A partire da Tinct sappiamo chi ha suonato cosa. Con
Almost Never conosciamo gli strumenti per ciascun pezzo. Perché
avete deciso di rendere palese il contributo di ciascun componente?
Questo metodo più convenzionale di accreditare le esecuzioni
dovrebbe fornire agli ascoltatori delle informazioni più dirette
sulle interazioni all’interno del gruppo (per esempio, specializzazione
oppure sovrapposizione tra i musicisti). E credo che, data l’attuale
tecnologia di campionamento, sia importante chiarire che i componenti
del gruppo suonano davvero tutte le parti strumentali che vanno
nel missaggio.
Con Almost Never riveliamo qualcosa di più a proposito dello
sviluppo delle composizioni tramite l’elencazione delle fonti a partire
dalle quali viene costruita ciascuna sottosezione. Se lo desidera, l’ascoltatore
può cercare di indagare le differenze fra quanto è atteso
e quanto è percepito. Si potrebbe sostenere che un po’ del mistero
del processo vada perso, ma, se è così, credo che nuovi
misteri vengano creati quando tali indizi sono rivelati.
Al tempo dell’articolo pubblicato sul ReR Quarterly era detto che
tutti i membri dei Biota operavano come suonatori sia degli strumenti
fonte che dei processori elettronici, ma mi sembra che adesso ci sia
una distinzione più netta tra i due ruoli. Ritieni che ciò
sia vero?
Gli accreditamenti sui progetti pubblicati dai tempi del Quarterly possono
indicare un’accresciuta specializzazione tra gli strumentisti ma i compiti
sono rimasti pressoché gli stessi. Per esempio, io tendo a passare
più tempo con gli electronics e con le preoccupazioni tecniche
connesse, ma a vari stadi dell’incisione e del missaggio anche altri
strumentisti sono impegnati in manipolazioni elettroniche, spesso in
tempo reale, in quanto strumentisti.
Mi piacerebbe sapere se, dal punto di vista delle possibilità
visive che offriva, piangi la scomparsa dell’LP.
Assolutamente sì. E’ probabile che alcuni pezzi visivi che riguardano
direttamente le nostre attività sonore non verranno riprodotti
in maniera soddisfacente a grandezza di CD. Questo dilemma si è
già presentato nel momento in cui abbiamo cercato di adattare
le parti grafiche di LP già pubblicati per la ristampa in CD.
Ma per il futuro è certo che non vediamo l’ora di creare il design
di parti visive basandoci sulle numerose possibilità del formato.
Complessità di linee e colori, presentate densamente nel piccolo
formato, possono essere altamente coinvolgenti per l’osservatore e però
difficili da scandagliare. In tal senso ritengo il formato molto appropriato
in congiunzione con la componente sonora dei nostri progetti.
Una domanda molto banale: quali sono gli artisti con i quali vi sentite
più in sintonia? E perché?
Se hai in mente le arti visive è una domanda particolarmente
difficile cui dare risposta. Direi che le influenze sul gruppo provenienti
dalla storia delle arti visive sono perfino più varie di quelle
che provengono dalla musica.
Parlando in prima persona mi vengono subito in mente due cineasti: i
Quay Brothers. Le loro ambientazioni meticolosamente strutturate, e
la rimarchevole densità di dettagli che popolano questi spazi,
sono certamente qualcosa con cui mi trovo in sintonia. Il lavoro dei
Quay è un modello di quel delicato equilibrio di cui ho parlato
prima – tra apertura, mistero e meraviglia (per l’osservatore) e il
perfezionamento strutturale (per il compositore). C’è una intenzionalità
forte presente nelle loro storie, e tuttavia i personaggi e la narrativa
possono effettivamente appartenere al mondo personale dell’osservatore.
E’ importante chiarire qui che io non sto propugnando l’evasione dalla
realtà. Piuttosto, un approccio elaborato che attira lo spettatore
(o l’ascoltatore) in una collaborazione con il compositore. La comunicazione,
non l’alienazione, è il risultato.
In altri ambiti ritengo che Max Ernst sia stato un maestro nel raggiungere
questo stato in una varietà di media, non solo durante un periodo
ispirato ma lungo tutta la sua vita lavorativa. La cosa più eccezionale
è forse il fatto che non ha mai sacrificato l’innovazione
nel processo.
Questa potrebbe suonarti come una domanda da parte del fisco: dato
che i vostri dischi non vendono granché ci si può interrogare
sui vostri lavori – soprattutto dato che, considerato il tipo di musica
che suonate, nel vostro caso i dischi non sono una presentazione allo
scopo di effettuare concerti dal vivo.
I nostri lavori sono la tipica miscela che ci si potrebbe aspettare.
Possono essere un impedimento per il lavoro di gruppo, ma ci aiutano
davvero ad affrontare tutti i tipi di spese così che, in ultimo,
il lavoro musicale può continuare. Nell’assumerci il costo di
costruire il nostro studio abbiamo anche visto i benefici di poter essere
in grado di comporre dentro quell’ambiente, secondo i nostri
ritmi e con un occhio all’orologio.
Nel mondo esterno siamo stati artisti grafici, venditori, giornalisti,
camerieri & cuochi & fornai, studenti & insegnanti, curatori,
tecnici, scienziati, e maschere. Il fisco sta ancora cercando di capirci
qualcosa!
Qualcosa a proposito del vostro prossimo CD?
Abbiamo iniziato a lavorare a Object Holder all’inizio del 1991, e lo
abbiamo completato nell’autunno dello scorso anno. Si è rivelato
essere il nostro lavoro più complesso e che ha richiesto più
fatica; quattro anni dopo rimaniamo entusiasti, e questo è un
buon segno. Susanne Lewis (già Kissyfur, Hail, Thinking Plague)
si è unita a noi per il lavoro, così abbiamo goduto per
la sfida di una vera voce umana – un cambiamento per noi benvenuto;
ciò in contrasto con il nostro processare strumenti non-vocali
perché assolvessero la funzione di voce umana nella miscela sonora.
Si unisce nuovamente a noi Chuck Vrtacek, noto per il suo lavoro da
solo e con i Forever Einstein. E’ da molto tempo che riteniamo il suo
piano l’elemento perfetto per bilanciare la nostra tipica densità
e per fornire l’incentivo ad arretrare un po’ una volta tanto. L’elaborazione
spaziale – creare gli ambienti per l’ascoltatore – è sempre stata
una nostra grande preoccupazione. Quindi è bene avere la disciplina
di lavorare a partire da performance delicate e perfezionate come quelle
di Chuck.
E parlando di sfide benvenute per noi, tipi orientati alla spazialità,
Chris Cutler è nella formazione di Object Holder con i suoi "electrics".
Questi pick-up, applicati a percussioni tradizionali e non, hanno insita
nel loro suono la più fantastica, dentro-il-tuo-cranio, qualità
claustrofobica. Quando le porti fuori nello spazio da lì i risultati
possono diventare davvero interessanti.
Altre fonti acustiche nuove nella miscela per Object Holder comprendono
il rubab, uno strumento a tasti con una testa risonante, e il nae, uno
shawm tailandese a doppia ancia che in realtà utilizza sei ance
in una disposizione a sfoglia con tre strati di canna su ciascuna metà
dell’imboccatura. Su questo progetto abbiamo anche sviluppato il ruolo
di varie chitarre elettriche, fisarmonica e hurdy-gurdy. Tutto considerato,
siamo ottimisti sul fatto che ci saranno alcune sorprese e, speriamo,
un senso di evoluzione in serbo per gli ascoltatori/osservatori.
Quasi dimenticavo! Cos’è un Marxophone?
Ah, sì, una delle sorprese del nostro ultimo progetto. Sono contento
che tu ci dia il tempo di spiegare dato che la bestia farà apparizioni
ancora più numerose nel nuovo lavoro. Il Marxophone esiste davvero
– è uno strumento "amatoriale" dimenticato dal tempo.
Fabbricato dalla Oscar Schmidt Company, (crediamo) negli anni trenta,
è una cosa curiosa somigliante a una autoharp con quindici martelletti
a molla che percuotono le corde. Ci sono anche delle corde aperte addizionali
che si possono percuotere o pizzicare.
Nelle nostre nuove composizioni sentirai anche la Hawaiian Tremoloa,
una cugina del Marxophone fabbricata dalla stessa compagnia pressoché
(riteniamo) nello stesso periodo. E’ un’invenzione davvero strana. Anch’essa
basata sul corpo di una autoharp, ha delle corde aperte per lo strumming
più una strana caratteristica: un’unica corda accordabile stirata
tra due ponti che viene suonata con una combinazione di slide in metallo
e plettro da pollice fissata a un braccio metallico mobile. Il suonatore
pizzica, forma e "stira" le note contemporaneamente con questo
aggeggio.
Il nuovo lavoro vede anche la presenza della Clavioline. Una delle prime
tastiere elettroniche a valvole, fu costruita in Francia dal fabbricante
di chitarre americano Gibson nei primi anni cinquanta. Ha diciotto pulsanti
a due posizioni, detti "stops", che si combinano per modificare
il suono. La piccola tastiera è montata su una sorta di treppiedi
telescopico da macchina fotografica che aveva lo scopo di essere posizionato
di fronte alla tastiera standard di un piano acustico in modo da permettere
che entrambi venissero suonati simultaneamente. Una vera "orchestra
a portata di polpastrelli", come proclama il manuale d’uso della
Clavioline.
Aggiunte (11 dicembre 1998 + 15 giugno 1999) destinate alla pubblicazione
Dopo la pubblicazione di Object Holder i Biota hanno spostato tutto
lo studio in un nuovo posto. Il nostro lavoro sul seguito di Object
Holder procede in questo nuovo quartier generale. E’ sulle colline che
circondano la città. Un ambiente differente rispetto allo studio
di Mulberry Street – per certi versi preferibile.
Crediamo che questo nuovo ambiente sonoro (la tecnologia, l’acustica
e lo scenario – i dintorni fisici) abbia influenzato il risultato musicale.
Il che non sorprende troppo, direi, dato che il nostro processo compositivo
ed esecutivo è così intimamente legato allo studio. Singole
parti strumentali erano spesso sviluppate al di fuori di questo scenario
ma i loro ruoli diventavano chiari solo quando la produzione in studio
– gli arrangiamenti, il processing, il missaggio – era andata avanti.
Forse gli ascoltatori individueranno un diverso e però intangibile
"suono" rispetto a Object Holder e al lavoro precedente.
Questo mi richiama alla mente la tua domanda a proposito delle luce
in cui vediamo il nostro lavoro precedente.
Per me (e probabilmente per altri nel gruppo) è la stessa luce
sotto la quale vedo il presente. Non faccio davvero distinzioni tra
il vecchio e il nuovo, se non notare delle caratteristiche palesi che
sono il risultato della nostra naturale evoluzione. (Per esempio, cambiamenti
da progetto a progetto nel nostro trattamento – ed enfasi – della voce
umana.) Dalla mia prospettiva di produttore, il nucleo della nostra
filosofia nei confronti dello studio non è mutato dai primi anni.
Componiamo, registriamo, mutiamo e assembliamo ancora i suoni in modo
simile. Non ritengo che abbiamo mai abbandonato il nostro passato –
inclusi gli anni della Mnemonist Orchestra. Ma io sono vicino al processo,
quindi la mia prospettiva ne è influenzata.
Per quanto riguarda commenti sul nuovo CD dei Biota, prossimo a essere
completato, sarà senz’altro un’estensione e uno sviluppo dell’approccio
adottato su Object Holder – una naturale evoluzione. Molto melodico,
con la solita diversità di riferimenti storici e la strana strumentazione.
Alle chitarre e alla fisarmonica si aggiungono il nae (shawm tailandese),
l’hurdy-gurdy, l’organo manuale, la vecchia Clavioline (vedi Sun Ra
e ZNR), il fidato Marxophone, varie corde suonate con l’archetto e il
piano di Vrtacek. La nostra cantante/violinista è Genevieve Heistek,
di Montreal. Il contenuto sarà lungo, e verosimilmente riempirà
tutto un CD.
Il nuovo lavoro, iniziato nel 1995, è il secondo progetto dei
Biota a mettere in risalto la voce umana. Come Object Holder, c’è
una miscela di voce naturale e di parti strumentali processate in modo
sottile allo scopo di assolvere una funzione vocale. Ma il focus è
sull’immediatezza e sulla diretta connessione emotiva fornita da una
parte cantata naturalmente. Questo è il legame del lavoro con
le musiche folk, insieme all’utilizzo di strutture tradizionali di canzoni
e alla strumentazione associata. Idealmente questa familiarità
opera a un livello in un certo qual senso sovversivo per attirare l’ascoltatore
dentro quella che è una serie di ambienti non ortodossi.
Così la nostra presentazione elasticamente rappresentativa, quasi
cinematografica, viene mantenuta, con le ambientazioni che evidenziano
il ruolo coesivo e unificante della musica nella tradizione. Puntiamo
a una prospettiva storica, persino sentimentale, che inviterà
l’ascoltatore nel processo compositivo. Quale risultato, sospetto che
questi nuovi brani sembreranno esternamente convenzionali ad alcuni
ascoltatori – ma in un modo ingannevole.
© Beppe Colli 1994 – 2005
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