Abbey
Road To Ziggy Stardust
By Ken Scott and Bobby Owsinski
Alfred Music Publishing 2012, $24.99, ppxvii-414
Vendere
libri in una cornice quale quella odierna non è mai un’impresa facile,
ma le difficoltà sono fatalmente destinate ad aumentare se il volume in
questione è l’autobiografia di qualcuno il cui merito principale è quello
di aver dato un contributo imprescindibile alla nascita di tanta musica
passata alla storia stando "dall’altra parte del vetro" in qualità
di tecnico e produttore. E le cose diventano ancora più difficili se parliamo
di qualcuno la cui notorietà è del tipo "all’antica", cioè a
dire
"selettiva" e riverberata dalla qualità delle opere che ha contribuito
a creare e non frutto di una presenza mediatica che combina alte vendite
e una
"colourful personality" (diciamo Kanye West e Jay-Z se parliamo
al presente, Phil Spector se ci rivolgiamo al passato).
Nel promettere
una necessaria completezza (si veda la soluzione cromatica semplice ma
efficace che mette in risalto "A to Z") la copertina dell’autobiografia
di Ken Scott sceglie di evidenziare Abbey Road – che qui ovviamente sta
per "gli studi della EMI", e quindi "i Beatles"
– e il celeberrimo e influente Ziggy Stardust, aggiungendo al contempo il
famoso fulmine della copertina di Aladdin Sane (ché sempre di Bowie
si tratta). Comprensibilmente, l’uscita del libro viene fatta coincidere
con quel quarantennale della pubblicazione di The Rise And Fall Of Ziggy
Stardust And The Spiders From Mars che ha visto le ristampe in vinile e in
CD di quell’album – per una volta curate dal tecnico e produttore originale:
Ken Scott – invadere i negozi (d’accordo, è un’esagerazione; diciamo che
in Rete si trovano dappertutto, e anche in qualche negozio).
E proprio
il rimando a Ziggy Stardust ci fa venire in mente un fatto curioso: che
sebbene sia stato Ken Scott a creare gli album su cui è sorta la carriera
di David Bowie (lo stesso essendo vero di album quali Crime Of The Century
dei Supertramp e Spring Session M dei Missing Persons; il lettore troverà
una lista esaustiva leggendo la discografia che chiude il volume), il primo
nome citato se si parla di Bowie & Produttori è quasi sempre quello
di Tony Visconti.
La carriera
di Ken Scott è stata lunga – cosa forse ovvia per un produttore dall’impronta "trasparente" la
cui più evidente cifra stilistica è a nostro avviso una "invisibile" meticolosità
– e contraddistinta da un invidiabile multistilismo delle musiche con cui
ha avuto a che fare (e qui ci viene in mente un nome con cui ci pare senz’altro
appropriato tracciare un parallelo: quello di Chris Thomas); ricordiamo
ancora lo stupore provato nel leggere il nome di Ken Scott – che all’epoca
associavamo ad artisti come David Bowie, Elton John e i Supertramp – su
album di gruppi "New Wave"
quali The Tubes, Devo e Missing Persons.
A chi
si rivolge questo volume? Con facile battuta potremmo dire "a un pubblico
adulto", la grandezza dei caratteri di stampa a testimoniare di un
occhio non propriamente giovanile. In realtà la narrazione impiega due
caratteri: a quello più grande del discorso principale si affianca (come
d’abitudine su riviste quali Sound On Sound) quello minuscolo di
"riquadrati" rivolti a dire di aspetti più strettamente tecnici
che non tutti i lettori troverebbero di loro interesse.
Lasciati
gli aspetti tecnici dentro i riquadri, la narrazione scorre sciolta e gradevole,
con un buon bilanciamento tra note di costume, affresco storico, aneddoti
curiosi, logiche sottese al creare musica in studio e qualche considerazione
fatta "con il senno di poi". Ma Ken Scott – che diremmo ben coadiuvato
dal collaboratore Bobby Owsinski – non ci pare essere un narratore interessato
a una visione da "grande affresco", quanto meno in modo palese,
ché le sue idee sul divenire del mondo della musica, case discografiche
incluse, vengono fuori con chiarezza. Avremmo gradito qualche considerazione
in più sugli aspetti più propriamente produttivi della condizione odierna
del fare musica – quella di Pro Tools, dei plug-in e del creare musica "in
the box" – ma anche qui le notazioni implicite non mancano.
Una caratteristica
positiva del libro è ben rappresentata dalla seguente circostanza. Ken
Scott collaborò in qualità di tecnico all’incisione del nostro album preferito
dei Procol Harum, A Salty Dog (che acquistammo ancora fresco di stampa).
Dato che è un album di cui solitamente si parla (e si scrive) poco, dobbiamo
confessare che è la prima cosa che abbiamo cercato nell’indice. Ebbene,
la (smilza) narrazione non offre quasi nulla, e lo stesso è vero di altri
album – pensiamo a gruppi quali Happy The Man e Dixie Dregs – a proposito
dei quali ci sarebbe piaciuto leggere più a lungo. Ma Scott ha inteso scrivere
cose che ricorda per certe e il cui ricordo fosse possibile corroborare
per mezzo di fonti indipendenti: c’è qui sottesa una (formalmente garbata)
polemica nei riguardi di un volume di Geoff Emerick di qualche anno fa,
Here, There And Everywhere, i cui ricordi tutt’altro che a prova di errore
sollevarono un discreto pandemonio nella comunità beatlesiana.
Se dovessimo
esprimere lestamente un giudizio complessivo diremmo che il volume ci pare
fatalmente destinato a scontentare soprattutto chi, avendo già alle spalle
una lunga frequentazione delle interviste effettuate da Ken Scott in passato
(non numerose, ma che non ci stupirebbe essere almeno in parte facilmente
accessibili in Rete), si aspettasse di trovare qui una lunga lista di aneddoti
e considerazioni inediti. Lettura entusiasmante, ovviamente, per tutti
gli altri. Senz’altro bello il corredo di fotografie d’epoca, tutte interessanti
per più versi.
Un’occhiata
ai contenuti. Bella – e utile da un punto di vista storico – la narrazione
dedicata all’apprendistato in studio. Ottima la parte dedicata ai Beatles,
sia come gruppo – si veda in particolare l’album The Beatles, aka The White
Album – che come singoli, con belle finestre su John Lennon e George Harrison.
Introdotto il fondamentale capitolo sugli studi Trident, è con David Bowie
che la narrazione decolla (e qui non è certo ininfluente il passaggio di
Ken Scott al ruolo di produttore). Non male la parte che vede quale protagonista
Elton John, c’è tutto un capitolo dedicato al jazz-rock di nomi senz’altro
familiari al lettore quali Mahavishnu Orchestra, Billy Cobham e Stanley
Clarke. Un altro capitolo esteso è quello dedicato ai Supertramp di Crime
Of The Century e Crisis? What Crisis? (gli amanti di quegli album troveranno
qui pagine di grande interesse), mentre a parere di chi scrive la parte
che riguarda The Tubes è senz’altro la più divertente del volume. Un altro
capitolo esteso e non privo di elementi che diremmo nuovi – incluse lunghe
narrazioni ex post di alcuni membri del gruppo – è quello dedicato ai Missing
Persons, periodo che vide Ken Scott indossare anche i panni del manager.
Da questo
momento in poi – è il 1982 – la narrazione diventa un po’ troppo discontinua,
e anche i protagonisti hanno levature non certo paragonabili ai nomi con
i quali Ken Scott aveva lavorato in passato. Qui si chiude un ciclo, ma
per nostra fortuna la testimonianza di quei tempi è ancora disponibile,
e a opera di uno dei suoi indiscussi protagonisti.
Esaurito
il compito informativo, ci siano concesse in chiusura un paio di notazioni
personali. Diremmo questo di Ken Scott un libro importante per almeno un
paio di ordini di motivi. Innanzitutto, perché le testimonianze di prima
mano che rendono così viva l’atmosfera di queste pagine ci riportano a
un clima di creazione collettiva a quei tempi assolutamente normale ma
che per una lunga serie di ragioni – su tutte, considerazioni di carattere
economico – è plausibile ritenere essere ignoto alla maggior parte degli ascoltatori odierni, fatalmente inconsapevoli del fatto che l’interruzione di un processo – gli studi che chiudono, i microfoni e i banchi di registrazione e missaggio che arrugginiscono, la
linea della trasmissione del sapere che passa attraverso il metodo dell’apprendistato
che si spezza – non è cosa alla quale si possa porre rimedio a piacere.
C’è poi
un altro motivo, comune a tutte le narrazioni che condividono questa cornice.
Qui si parla della creazione come processo e della musica come "cosa" il
cui divenire è sottoposto a procedure che, per quanto "artisticamente
guidate", sono senz’altro classificabili come "razionali" –
e qui basta pensare all’entità definibile come "l’intenzione dietro
il risultato". Sono discorsi semplici, diventati difficili in una
cornice in cui lo scadimento della professione di critico e un quadro che
premia l’irrazionalità riduce un lavoro come quello di Scott con Bowie
ad articoli intitolati "Il camaleonte Bowie". Non sarà facile
riportare il discorso sulla musica su un piano maggiormente empirico, ma
– complice l’estrema notorietà di non pochi album qui discussi – il volume
di Ken Scott offre all’ascoltatore una serie di chiavi utili a osservare
le cose, sol che lo voglia, da una prospettiva diversa.
Beppe
Colli
© Beppe Colli 2012
CloudsandClocks.net
| July 4, 2012