Intervista a
Jon Rosenberg
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di Beppe
Colli
Apr. 2, 2017
Mentre preparavamo la nostra recensione di Been Up So Long
It Looks Like Down To Me: The Micros Play The Blues, notammo che stavolta il
gruppo non aveva usato lo stesso studio dove aveva registrato i due album
precedenti. Decidemmo di contattare Jon Rosenberg, che aveva registrato,
missato e masterizzato gli album. Rispose in modo amichevole, e così ci venne
in mente di fargli un’intervista.
Nel frattempo, mentre ascoltavamo un vecchio album di Muhal
Richard Abrams che ci piace molto, ci eravamo accorti che Rosenberg aveva
registrato anche quello, nel lontano… 1986. Quindi c’era tanto di cui poter
parlare.
Abbiamo dato un’occhiata attenta alla sua discografia, che è
davvero ampia, e abbiamo deciso che fare un’intervista era davvero un’ottima
idea. Rosenberg ha accettato la nostra proposta, e l’intervista ha avuto luogo
via e-mail la scorsa settimana.
Se ben capisco, fai il tecnico del suono da
circa… trent’anni, giusto? Ovviamente vorrei sapere come tutto ha avuto
inizio. Hai sviluppato un interesse per la musica, e in seguito per (quello che
potremmo definire) il lato tecnico della musica registrata? Oppure hai seguito
il cammino inverso (per esempio, studiare la scienza e la tecnica del suono per
poi sviluppare un apprezzamento per la musica)?
Sono cresciuto ascoltando jazz grazie all’amore di mia madre per
la musica. I dischi di Billie Holiday, Dave Brubeck e Louis Armstrong venivano
suonati spesso a casa mia. Quand’ero alla media inferiore mi è stato chiesto di
scrivere qualcosa sul jazz. Allora ho cominciato a leggere Downbeat per avere
informazioni sul panorama corrente del jazz. A quel tempo, la metà degli anni
Sessanta, dischi come Ornette Coleman at the Golden Circle venivano votati dai
lettori Disco dell’Anno! Dato che mio padre faceva il pendolare con New York
gli ho chiesto di trovarmi questi dischi in modo che io potessi sentirli. Non
c’è bisogno di dire che erano molto diversi da Louis Armstrong ma mi sono
piaciuti anche questi suoni. Con il passare del tempo, sono diventato prima un
collezionista di dischi jazz e poi ho cominciato a suonare il sax tenore. Ho
studiato musica alla Wesleyan University e al Creative Music Studio diretto da
Karl Berger. Ho studiato privatamente per molti anni con Kalaparusha Maurice
McIntyre. Però il mio primo amore erano i dischi e le registrazioni, così ho
chiesto a un mio amico che stava facendo un album se potevo venire a vedere.
Era lo studio chiamato Hi Rise Sound, in piena Manhattan, e ho chiesto al
padrone, che si occupava anche della parte tecnica, se potevo venire la sera e
fargli da secondo, facendo qualsiasi cosa potesse essergli d’aiuto. Per farla
breve, nel giro di sei mesi mi occupavo della parte tecnica delle session,
facevo per lo più provini di rock e pop e mi piaceva moltissimo. A quel tempo,
era il 1983, sono diventato amico di Tim Berne e gli ho chiesto se voleva
venire a registrare. Ha portato un tipo di nome Bill Frisell e hanno fatto un
album in duo che utilizzava anche un sacco di sovraincisioni. Il titolo
dell’album è Theoretically e credo che sia ancora in catalogo. E’ stato anche
recensito su Downbeat, una cosa che mi ha fatto un immenso piacere. In seguito,
durante lo stesso anno, ho registrato un album di Mark Helias dove suonavano
Tim, Mark, Herb Robertson, Gerry Hemingway e Dewey Redman. E’ uscito per la
Enja nel 1984 e forse anche questo è ancora in catalogo!
A quel tempo il sistema di apprendistato era
ancora molto fiorente, quindi suppongo ti sia fatto le ossa (in qualità di
"gofer", "runner", "tea boy") in molti studi. Hai
avuto un maestro? Ricordi qualche lezione particolare dalla quale hai tratto
insegnamento (tecnico o di altra natura)?
No, come puoi vedere ha iniziato a fare il tecnico tardi (avevo
quasi trent’anni), non ho frequentato alcuna scuola specializzata, non ho fatto
molto come apprendista e ho iniziato registrando subito del jazz di quello
tosto. Il che non vuol certo dire che sapevo quello che facevo! A metà degli
anni ottanta David Baker, grande tecnico del suono jazz, era diventato meno
affidabile, così Giovanni Bonandrini della Black Saint sperava di trovare un
altro tecnico che gli registrasse i dischi a New York. Tim Berne ha fatto il
mio nome e il mio primo incarico è stato registrare l’album a nome The Sonny
Clark Memorial Quartet con Wayne Horvitz, Bobby Previte, Ray Drummond e John
Zorn nel 1985. Ho proceduto un po’ a tentoni ma l’album è uscito ed è stato
accolto favorevolmente. Poi nel 1986 sono stato incaricato di registrare Muhal
Richard Abrams, un artista di punta della Black Saint, e un uomo molto gentile
e comprensivo. Credo che abbia capito che registrare musicisti come Dave
Holland e Andrew Cyrille era ben al di là delle mie capacità, ma credo gli sia
piaciuto il mio entusiasmo, e la sua approvazione cementò la mia relazione con
la casa discografica. Resta un amico e un sostenitore con cui da allora ho
fatto innumerevoli registrazioni. Tutto questo mi ha portato a realizzare per
molti anni un flusso costante di registrazioni per la Black Saint e la Soul
Note, così documentando il lavoro di artisti quali Geri Allen, Charlie Haden,
il trio di Paul Motian, David Murray, Phil Haynes, Roscoe Mitchell, Dave
Douglas, Steve Lacy, Henry Threadgill, Joe Lovano, Julius Hemphill, Drew Gress e
molti altri che mi avevano dato tanta gioia quando ero un ascoltatore. Ho
incontrato anche Phillip Johnston e Anthony Braxton, e ho fatto dischi anche
con loro.
C’è stato qualche stile di registrazione,
qualche "impronta sonora", che hai apprezzato in modo particolare?
(Un esempio è quello che è chiamato il "Rudy Van Gelder sound".) O ti
piaceva un approccio più "trasparente"? (Credo che nel genere
"pop/rock" due buoni esempi siano Phil Ramone e Al Schmitt, e in
seguito, George Massenburg.) "Nessuno dei due"?
La mia influenza principale è stata ed è Rudy Van Gelder e il
suono che otteneva con l’aiuto di Alfred Lion. Prima fila in un club con la
musica proprio di fronte a te. D’impatto e viscerale, non graziosa e distante.
Questa è la mia preferenza ma ho missato tanti dischi che suonano in modo molto
diverso in risposta ai desideri dei miei clienti.
Direi che l’album più vecchio che posseggo di
cui hai curato la parte tecnica è un album di Muhal Richard Abrams, Colors In
Thirty-Third, registrato nel dicembre del 1986 al Sound Ideas Studio di New
York. (Nelle note di copertina sei accreditato come "engineered by",
il che suppongo voglia dire che hai registrato e missato la musica?) Ma sono
sicuro che c’è una bella fetta che non conosco, della quali mi farebbe piacere
mi parlassi.
La bella fetta, a parte il mio rapporto con la Black Saint, è
costituita dal mio coinvolgimento nell’era della Knitting Factory ai primi anni
novanta. Non lavoravo per il club ma ho fatto molti dischi per loro compresi un
paio con il leggendario Thomas Chapin. E’ stato un grande periodo per la musica
e anche un gran periodo per me. Poi ci sono stati molti dischi che ho fatto per
la Fresh Sounds alla fine degli anni novanta con artisti quali Kurt
Rosenwinkle, Ethan Iverson, Bill McHenry, Jill Seifers (che è ancora il mio
album cantato preferito!) e Gerald Cleaver. Durante il decennio 2000 ho fatto
molti album per la Steeplechase Records con artisti quali Lee Konitz, Dave
Stryker, Harold Danko, e Rich Perry. Per finire, c’è una relazione al presente
con la High Note Records che consiste nel trovare e rinfrescare vecchie
registrazioni dal vivo di un sacco di gente, da Jimmy Rushing a Freddie Hubbard
a Jaki Byard.
All’inizio degli anni novanta avevo un
programma radio, e una sera come ultimo pezzo ho trasmesso Piano-Cello Song da
Colors In Thirty-Third. Sono andato a mangiare qualcosa in un bar del centro e
– guarda che coincidenza! – lì dentro c’era Dave Holland che beveva qualcosa.
Mi ha detto che la musica che ha suonato su quell’album era molto difficile. E
tutto l’album è stato registrato in un giorno! Hai qualche ricordo di quella
registrazione?
Non posso dirti molto sul contenuto di quell’album dato che ero
troppo spaventato e sopraffatto e pregavo di non essere licenziato seduta
stante.
Per molto tempo la Black Saint e la Soul Note
hanno registrato tanta "musica d’avanguardia" di musicisti
statunitensi che altrimenti nel loro Paese non avrebbero registrato. Tra quelli
che hai registrato ne ho alcuni di Muhal Richard Abrams, e anche Song Out Of My
Trees di Henry Threadgill, che hai registrato al Sear Sound. Esaminando la tua
discografia ho visto che ricevi un accreditamento per molti box set di vari
artisti indicati come "The Complete" (ma il box di Abrams non include
l’album "Colors"). Vuoi chiarirmi la cosa?
Credo che la mia risposta precedente illustri l’argomento. E’
stata una relazione meravigliosa e gratificante che ha dato forma a tutta la
mia carriera. Un enorme grazie a Tim Berne per avermi presentato a loro.
Phillip Johnston è un artista con il quale hai
sviluppato una relazione lunga e fruttuosa. Della sua produzione solista, tra
gli album dei quali hai curato la parte tecnica, ho Big Trouble e Flood At The
Ant Farm, e anche The Needless Kiss del Transparent Quartet, e sono sicuro che
ce ne sono ancora, per arrivare agli ultimi tre album del Microscopic Septet.
Mi parleresti di questa collaborazione?
Ero un fan delle composizioni di Phillip Johnston da ben prima
che lavorassimo insieme. Il suo modi di mettere insieme il serio e il faceto,
il contemporaneo e il rétro, mi ha sempre colpito. E’ stato bello per me avere
la possibilità di essergli accanto nel processo di documentare la sua musica.
C’è sempre stato un buon rapporto tra noi, per lui ho registrato di tutto nel
corso di molti anni, da album di jazz a colonne sonore per film a pubblicità.
Spero di continuare a lavorare con lui per molto tempo ancora.
L’album più recente del Microscopic Septet è
stato registrato ai Tedesco Studios. Mentre davo un’occhiata alle note di
copertina di alcuni vecchi album di Phillip Johnston di cui hai curato la parte
tecnica ho visto che anche questi erano stati registrati ai Tedesco Studios. Ma
suppongo che – come tutti gli studi di tutto il mondo – quello studio sia
cambiato moltissimo, da analogico a digitale, e tutti i cambiamenti tecnologici
che sappiamo. Quindi vorrei sapere se per te c’è stato un "periodo di
transizione" per quanto riguarda il suono registrato. Agli inizi, il
digitale ti suonava stridulo? Hai percepito una differenza nel tono degli
strumenti che registravi? Il tuo approccio all’equalizzazione è cambiato?
Il mio obbiettivo quando entro in uno studio o in un teatro con
un gruppo da registrare è di uscire fuori prima possibile con musica che suona
bene e che è bello missare. Qualunque cosa mi mette in grado di raggiungere
l’obbiettivo nel più breve tempo possibile e al costo minore senza compromessi
per ciò che riguarda la qualità per me va bene, così ho usato nastri analogici,
nastri digitali, e adesso dischi rigidi, ma l’obbiettivo resta lo stesso. Il
fattore più importante per come suona una registrazione è il feeling che si
crea tra i musicisti nella stanza. Come puoi vedere, non sono un maniaco delle
apparecchiature ma in generale mi piacciono i microfoni Neumann e l’elettronica
della Neve. Questi macchinari sembrano catturare con molta chiarezza il cuore e
l’anima del suono dei musicisti. Per fare le registrazioni dal vivo uso
hardware e software della MOTU, che racchiude la migliore miscela di
semplicità, qualità e robustezza.
Mi è piaciuto molto il suono del CD The Micros
Play Monk. L’hai registrato, missato e masterizzato. Il che ci porta alla
questione "guerre del volume". Ovviamente questa è una cosa molto più
comune nel "pop/rock", dove molta buona musica è stata rovinata da
dinamiche schiacciate dovute a un eccesso di compressione in fase di
masterizzazione (e, di recente, anche nel post-missaggio). Come vedi questo
fatto, e come pensi influenzerà il jazz?
I miei clienti preferiscono un suono molto "prudente"
che non fa un uso spinto della compressione. Dato che pochissimi dei dischi ai
quali lavoro sono di tipo commerciale, non c’è nessuna spinta a competere con
l’ultima uscita di Kanye West. Ci sono tipi di musica come il rap e l’hip-hop
che si sposano bene a quel tipo di compressione, ma non la musica che fa uso di
strumenti acustici. In generale sono d’accordo con il grande mastering engineer
Bob Ludwig che credo abbia detto che ascoltare questi dischi molto compressi ti
stanca facilmente. Sul momento ti colpisce ma quando ha qual tipo di suono la
musica ti stufa presto.
Mi ricordo che una volta ho letto che la
differenza tra la Prestige e la Blue Note consisteva in "due giorni di
prove". Vedo che oggi molti gruppi registrano i loro album in pochi
giorni, spesso grazie a sottoscrizioni effettuate tramite Kickstarter.
Registrare velocemente era una cosa che avveniva anche in passato. La
differenza è che un tempo gente come Mingus, Monk e Coltrane prima faceva
concerti e poi registrava la musica, cosa che al giorno d’oggi non credo possa
essere data per scontata. Che tipo di pressione aggiuntiva tutto questo crea
per il tecnico?
Non sento alcuna pressione. La sfida per l’artista è scegliere
musicisti che siano in grado di suonare la musica con un minimo di prove. Può
diventare un fattore per me quando occorre che ci siano un sacco di
aggiustamenti da fare quando esaminiamo le tracce che devono essere missate. E’
fantastico quello che puoi fare oggi con Pro Tools ma gli artisti non sempre
sono pronti per il conto alla fine del processo. Ci possono volere molte ore di
quel tipo di lavoro perché una registrazione sia pronta per essere ascoltata.
Come fai a decidere quando un missaggio è
ultimato? (Non "quando non ci sono più soldi", ovviamente!)
Il processo può variare molto in lunghezza, ma parlando in
generale, dato che è tutta la vita che ascolto registrazioni sia per lavoro che
per piacere, c’è una sensazione istintiva che provo e che mi fa dire
"suona come un lavoro finito". Non dico che lo sento per ogni album
che porta il mio nome ma arrivato a questo punto della mia carriera è una cosa
che avviene per la maggior parte di essi. Però, a volte, anche se sento che un
album è finito, ho bisogno di lavorare con gli artisti in modo che essi possano
sentire che il lavoro è concluso. Anche questa è una parte, e non piccola, del
lavoro di un tecnico.
Nel 2010 hai vinto un Grammy® come Best Jazz
Small Group Instrumental Recording per un album di James Moody di cui hai
curato la registrazione. Congratulazioni! Vorrei sapere se, in questi tempi di
cambiamento, senti ancora di far parte di un "gruppo di pari". In
tempi passati c’era una "tradizione" del suono, ma oggi si è detto
che "la gente con un laptop nella propria stanza" ha reso superflui
gli studi, e anche i tecnici. La "gentrification", con il suo aumento
vertiginoso degli affitti, ha aggiunto ulteriori problemi. Chi consideri oggi
come "i tuoi pari"?
I
tecnici il cui lavoro è stato per me un modello di qualità nel corso della mia
carriera: Rudy Van Gelder, David Baker, James Farber, Joe Ferla e Jim Anderson.
Se qualcuno di loro mi ha visto o mi vede come un suo pari, sarei molto
onorato. Considero anche Joe, Mike e Nancy Marciano, insieme al resto dello
staff ai Systems Two Studios a Brooklyn, come miei pari nel senso che
discutiamo spesso sul modo migliore di registrare ensemble ampi e poco usuali
con i quali mi è capitato di lavorare nel corso degli anni.
Esaminando la tua discografia ho visto che hai
registrato molti titoli di Anthony Braxton. Negli anni settanta, quando aveva
un contratto con la Arista, il lavoro di Braxton è stato per molti versi un
segnale di cambiamento – un album di "jazz" adesso poteva contenere
un quartetto di fiati, un duo clarinetto-sintetizzatore, un quartetto
"bop". Cosa che presentava nuove sfide per i tecnici. Mi parleresti
della tua collaborazione con Braxton, e di alcune delle sfide che questa
collaborazione ti ha presentato?
Il mio contributo maggiormente duraturo alla musica di questo
periodo sarà probabilmente il mio lavoro con Anthony Braxton. Lui propone
situazioni che sembrano impossibili e ha completa fiducia che io mi inventi
qualcosa per documentarla. La cosa incredibile è che durante il processo
riusciamo sempre a trovare delle ragioni per ridere insieme. Potrei scrivere un
libro intero basato solo su queste esperienze ma è sufficiente dire che per
quanto mi concerne Anthony è stato una benedizione per me, per la mia famiglia,
e per la razza umana. E’ stato un privilegio speciale avere un posto in prima
fila e guardarlo lavorare con i musicisti allo scopo di ottenere quello che
vuole.
Ho letto che il New York Times sta riducendo
di molto la sua copertura dei concerti dal vivo e anche il numero delle
recensioni discografiche, cosa che potrebbe privare i musicisti che fanno
musica "difficile" di un palcoscenico di cui hanno molto bisogno.
"Un’attenzione di breve durata nell’era del multi-tasking" sembra
essere la nuova normalità, il che è una brutta notizia per qualunque cosa
necessiti di un’attenzione indivisa. Dal tuo punto di osservazione, come credi
che andranno le cose?
Qui hai fatto davvero centro. Al momento, il problema più grosso
è la perdita del sostegno in Europa che ha reso sempre più difficile per i
musicisti pagare i conti e mettere da parte dei soldi per pagare le
registrazioni. Le case discografiche muoiono come mosche, quindi non vengono
soldi neppure da lì. Da un punto di vista commerciale è una situazione orribile
ma non ho alcun dubbio che in un modo o nell’altro le forme acustiche del jazz
sopravviveranno.
Ovviamente questa conversazione potrebbe
durare giorni, e sono sicuro che ci sono molte cose che non ti ho chiesto. In
chiusura, c’è qualcosa che ti farebbe piacere aggiungere?
In qualità di tecnico, il mio più grande piacere è osservare
alcuni tra i migliori musicisti e compositori sulla faccia della Terra lavorare
allo scopo di superare la sfida di trasformare le loro idee in realtà. E’ un
sogno per qualcuno come me che si è innamorato dei dischi da ragazzino. Chi
avrebbe mai potuto immaginare che tutto questo sarebbe diventato realtà? Ma a
me è successo!
©
Beppe Colli 2017
CloudsandClocks.net | Apr. 2, 2017