Intervista
a
Roscoe Mitchell (1999)
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di Beppe Colli
Jan. 26, 2003
Chi scrive ha iniziato ad apprezzare la musica dell’Art Ensemble of
Chicago con l’acquisto di Fanfare For The Warriors: vinile americano
già fuori catalogo nonostante l’album fosse di uscita alquanto
recente. Motivi geografici hanno fatto sì che un concerto del
1984 sia l’unico da noi visto della formazione classica; un gran bel
concerto, tra l’altro: la summa di Urban Bushmen con abbondanti spruzzate
da The Third Decade, allora fresco d’uscita.
A distanza di quindici anni, la possibilità di vederli nuovamente,
in formazione piuttosto atipica. Da cui l’intervista/ritratto che segue,
apparsa in italiano sul # 17 (ottobre 1999) del mensile Blow Up. Abbiamo
qui lasciato sostanzialmente inalterato l’impianto dell’articolo, operando
qualche doveroso aggiornamento nella discografia e reintegrando alcuni
particolari nell’intervista.
Chi è Roscoe Mitchell? Per un verso la risposta è semplice:
uno dei grandi della musica degli ultimi trent’anni. Ma quale musica?
Proviamo a usare un criterio "pratico": se andiamo a comprare
un suo disco lo troveremo nel settore "jazz". Se però
diamo un’occhiata alle formazioni da lui adoperate qualche perplessità
potrebbe sorgere: accanto a cose tipiche (quintetto jazz; sax
e piano; quattro sassofoni;otto percussionisti) troviamo dialoghi elettronici
con un software interattivo; un trio formato da due fiati e un tenore
(proprio quello operistico); un quartetto d’archi; un duo sax – bull
roarers (uno strumento preistorico aborigeno, per l’occasione suonato
tramite un congegno a pedali); un gruppo che sfoggia un contrabass sarrusophone
e una viola gigante che si suona salendo su un trespolo – e deve ancora
uscire il disco con l’orchestra di flauti barocchi… Insomma, se
è indubbiamente vero che Mitchell è da collocare tra i
grandi del jazz siamo altresì convinti che se fosse stato bianco
gli sarebbe toccata l’etichetta di "musicista totale". Proviamo
ad andare a ritroso nel tempo.
Trent’anni fa i quattro dell’Art Ensemble ("of Chicago" venne
aggiunto sul manifesto che ne annunciava un concerto, e poi mantenuto)
giungono a Parigi col conterraneo Anthony Braxton. Sono tempi di passioni
politiche, riscoperta dell’Africa, infocati dibattiti sul terzomondismo.
Il gruppo che Braxton ha messo su con Leo Smith e Leroy Jenkins (sax,
tromba e violino) viene rifiutato come "poco africano e troppo
intellettuale". Va meglio all’Ensemble, che sfoggia costumi pittoreschi,
un elaborato trucco facciale da maschera africana, percussioni e sonagli,
e una musica dalle mille componenti, ora pacata ora aggressiva ma sempre
di notevole spessore. Ed è la musica documentata sui dischi del
periodo (su tutti: People In Sorrow) che a distanza di tanti anni ci
conferma l’impostazione innovativa e sincera del gruppo, per il quale
lo slogan "Great Black Music: Ancient To The Future" era una
rivendicazione di continuità nel segno dell’innovazione e non
una proposta furba di elementi esotici ad uso di un pubblico
ben disposto. Semplificando al massimo: Joseph Jarman era un ottimo
polistrumentista con interessi nel campo della poesia e del teatro;
Lester Bowie un trombettista originalissimo, sempre in bilico tra l’omaggio
alla tradizione e il suo sberleffo; Malachi Favors, essenziale pulsazione
al contrabbasso, la presenza più "africana". E Mitchell?
La struttura.
La cosa era iniziata proprio a Chicago alcuni anni prima. I nomi sono
oggi noti: Muhal Richard Abrams, Henry Threadgill, Braxton, Mitchell,
Smith… Sperimentazione collettiva di strumenti e linguaggi, un’associazione
non-profit (la AACM) che riceverà fondi per organizzare concerti
e progetti artistici (niente più il ricatto dei club per i giovani
jazzisti) diventando un esempio influente. I "chicagoani"
cominciano una ricerca consapevole e sottile lontano dal "centro"
del jazz, New York. I loro risultati creativi verranno notati con incredibile
ritardo; non è solo un fatto geografico: i linguaggi che questi
musicisti vanno elaborando sono quanto di più distante dalla
"energy music" newyorkese – Albert Ayler, Cecil Taylor, John
Coltrane. Non è un rifiuto dei risultati (Braxton adorava Coltrane,
e l’Ensemble dedicò un brano ad Ayler); piuttosto, la consapevolezza
che una insufficiente riflessione sulla forma avrebbe lasciato la musica
in secca una volta esauritasi la spinta del momento. Sound è
il titolo rivelatore del primo album di Roscoe Mitchell: il rapporto
tra il suono e il silenzio indagato in maniera consapevole. Ornette
il riconoscimento di un’affinità col padre del free jazz, a quel
tempo molto appartato.
Ampliamento della strumentazione (percussioni, sax basso e contrabbasso,
oboe, tuba, soprano ricurvo). Recupero di forme desuete, dal ragtime
in poi – non come revival ma quale riflessione sul concetto di composizione.
Indagine sulle microstrutture del linguaggio sassofonistico e creazione
di una grammatica delle componenti. Consapevolezza che la presenza del
passato su disco, dove il materiale è stato suonato quando gli
stili erano coniugati al presente, rende superflua l’orchestra di repertorio.
A riprova dell’esattezza delle intuizioni di questi musicisti si confrontino
i loro lavori del periodo, ancor oggi così freschi, e i prodotti
di quelle correnti che hanno operato un recupero calligrafico delle
forme anteriori al free (a proposito: mai etichetta fu più disgraziata;
ancor oggi non pochi lo intendono non come libertà dalle vecchie
strutture ma come assenza di qualunque struttura).
E’ forse inutile, e sicuramente noioso per chi legge, passare al microscopio
una discografia tutt’altro che esigua. Se molto di quel che resta dell’Ensemble
classico è senz’altro da consigliare, e se il periodo ECM rinuncia
alle novità ma offre sistematizzazione delle idee e incisioni
perfette, Fanfare For The Warriors è forse il titolo da suggerire
a chi voglia prendere confidenza col gruppo. Occhio ai brani di Mitchell
– e non sembrerebbe il "white noise" di Tnoona un’esplorazione
di elettronica/contemporanea? E’ "solo" jazz acustico – quello
di Chicago.
Mitchell ha ovviamente continuato il cammino, sviluppando le premesse
con coraggio pari ai risultati. Sebbene bisognoso di rabberciamenti
il tanto vituperato sistema americano in fondo ha tenuto: l’università
ha accolto parecchi sperimentatori, risparmiando ad alcuni di loro –
nel caso di Braxton (che si andava a cercare la legna nella neve) letteralmente
– una brutta fine. Mitchell, Lewis, Braxton hanno dei lavori all’università.
Coleman, Taylor, Abrams e Braxton hanno ricevuto dalle classiche fondazioni
(Guggenheim in testa) dei "genius grants" di notevole entità
– Braxton ci ha finanziato un’opera. I più, certo, non sono stati
così fortunati. Ma i dischi, bene o male, vengono pubblicati
e si trovano. Ora tocca a noi, se vogliamo, ascoltarli.
L’intervista
I quattro dell’Art Ensemble giungono in albergo dopo alcune ore
passate in autostrada in orario non felicissimo. Giacca rossa, buffo
cappello, occhiali dalla montatura multicolore, Mitchell ci porge la
mano e ci invita a sederci; se è stanco non lo dà a vedere.
Ordina un toast senza prosciutto e una bevanda analcolica. L’intervista
inizia in modo cortese ma non proprio esaltante: Mitchell deve avere
un paio di rospi sullo stomaco – e solo riascoltando la cassetta ci
accorgeremo che la frase a proposito di Brötzmann significava più
o meno "dovunque viva non sposta nulla." Ma a poco a poco
le cose si mettono per il giusto verso; e superato lo shock di sentirlo
parlare con un timbro vocale che ci ha spesso ricordato quello di Gil
Scott-Heron riusciamo anche a godere della sua mimica irresistibile.
Ho notato che nella formazione dell’Art Ensemble Of Chicago che suonerà
stasera c’è un nuovo membro, Ari Brown.
Non è un nuovo elemento, ma uno "special guest":
Lester Bowie è malato.
Mi spiace saperlo; l’ultima volta che ho visto il gruppo c’era ancora
Joseph Jarman… non ho mai ascoltato dal vivo la formazione in
quartetto. Vorrei dirti innanzitutto che ho molto apprezzato il tuo
ultimo lavoro, Nine To Get Ready.
Grazie.
Qual è la direzione in cui il gruppo è diretto? Nel
solco della tradizione della Great Black Music che vi è solita,
immagino.
Beh, credo che questo sia il momento migliore per la musica – in
assoluto – perché separerà quelli che sanno quel che fanno
da quelli che non lo sanno. Il momento migliore per chi ha continuato
a lavorare su questa musica nel corso degli anni; perché se ci
rifletti stiamo parlando di un lavoro di quasi quarant’anni. Ed è
questa la direzione (ride): un bel momento per chi sa quel che
fa, e per gli altri…non molto bello. Quel che ho notato è
che gli europei negli anni sessanta hanno sostenuto la musica, ma poi
tutto è diventato commerciale; e chi nel fare la propria musica
si è impigrito non sarà all’altezza della situazione.
Qui in Europa mi vedete solo con l’Art Ensemble, ma ci sono così
tante cose che faccio…e forse il motivo per cui non mi viene mai chiesto
di venire con altre formazioni è perché il mio approccio
alla musica è rimasto molto sperimentale.
Ma ricordo che hai fatto degli album dal vivo in Europa, ad esempio
in Germania al Festival di Moers, con una grossa formazione; quindi
intendi dire che è adesso che non vieni invitato…
… è così, dato che si pensa che ci siano persone
in grado di fare quel che faccio io.
Intendi artisti residenti in Europa?
Sì – come Peter Brötzmann…che è in grado di
suonare solo un po’ di quel che suona Frank Wright… e basta. E ce
ne sono tanti altri che sanno fare solo…
… una piccola parte?
… una piccola parte.
Peter Brötzmann… abita a Chicago?
Sì. "Vive lì. Ci vive? Non lo so…"
Neanch’io…
(ride di gusto) Neanch’io… "keep upputy, mummy"
(???)… è qualcosa che ho visto all’Atlanta Arts Festival…una
canzone.
Ma il mercato americano, stando a quello che leggo su Down Beat, ripaga
le direzioni più commerciali…
… lo so, lo so…
… penso, per fare solo un nome, a Wynton Marsalis e alle rassegne
da lui organizzate al Lincoln Center, a New York; e ricordo che fu proprio
un critico americano, Francis Davis, a definire Marsalis un musicista
che credeva di essere un rivoluzionario ma che, nel suo ribellarsi a
una rivoluzione, era di fatto un controrivoluzionario.
E’ esatto: un controrivoluzionario. Vedi… ci sono musicisti
che creano, e musicisti che ri-creano. Wynton Marsalis è uno
di questi, dato che suona la musica di Duke Ellington e non quella di
Wynton Marsalis. John Coltrane suonava la musica di John Coltrane. Charlie
Parker suonava la musica di Charlie Parker. Lester Young quella di Lester
Young. Tutti quelli che suonano la musica di altri musicisti non sono
musicisti creative, ma re-creative.
Ho molto apprezzato due collaborazioni elettroniche da te intraprese:
quella con George Lewis e il suo software interattivo sull’album Voyager
e il rapporto improvvisatore-nastro sull’album di Tom Hamilton Off-Hour
Wait State.
Ma per me non è una cosa nuova. E’ da tanto che lo faccio; per
molto tempo ho collaborato con David Wessel, il più prestigioso
esponente della computer music: lo conosco sin da quando impiegava due
o tre giorni per ottenere una nota dal computer; è colui che
organizza le Computer Music Conferences negli Stati Uniti, e qui in
Europa il Computer Music Festival a Parigi e a Den Haag. Come vedi,
non è una cosa nuova per me.
Sì, ma direi che c’è una differenza nell’approccio col
software interattivo di Lewis…
Col programma di George imparo sempre di più; sai che ci sono
certe cose che puoi fare per avere una certa risposta dal computer –
ed è questo che mi risulta interessante: vedere quello che il
computer può fare; ci sono cose che puoi fare che causano certe
classi di risposte da parte del computer: non è sempre la stessa
risposta. Puoi davvero quasi comunicare col computer…grazie al software
di George…
… dato che è interattivo… e quindi non puoi prevedere
la risposta del…
… quasi… in un certo senso… voglio dire, se suoni poche note fa
qualcosa… con molte note hai una diversa risposta… a basso volume
un’altra… a volume sostenuto, un’altra ancora… e così con
note singole, plurime… e così via.
Ti ho fatto questa domanda perché sul tuo primo album, nel
’66, c’è un brano chiamato Sound: tu hai sempre esplorato questa
dimensione della musica – anche se a quel tempo era una dimensione acustica
– e quindi non mi pare, in un certo senso, tanto differente da allora.
No, non lo è. E poi ho passato tanto tempo a costruire un vocabolario
per fare queste cose; per molto tempo ho cercato di non suonare una
melodia – tutto ciò che mi sembrava una melodia cercavo di non
suonarlo; per tanto tempo ho anche suonato melodie… cose che erano
molto dense… altre a bassa densità… ho studiato a lungo ritmi
molto complicati, cosicché quando suonavo in solo sembrava ci
fosse più di uno strumento; molti tipi di studio nel corso degli
anni. E ora tutto quel che voglio fare è studiare… per me.
Mi piace studiare – continuamente.
Dato che hai nominato Den Haag, conosci un musicista che vive lì,
Luc Houtkamp? Suona il sassofono, compone e sperimenta con l’elettronica.
No.
Tra i musicisti più giovani che lavorano a Chicago che opinione
hai, ad esempio, di Ken Vandermark?
Non so nemmeno se lo conosco…
Tra gli altri ha suonato anche con John McPhee…
Non lo conosco tanto bene.
E Rob Mazurek? Suona la cornetta…
Non conosco la loro musica.
(Da moltissimo tempo Mitchell non vive più a Chicago ma nel
Wisconsin – n.d.i.)
Il nuovo disco con la Note Factory è il secondo sotto questo
nome – mi era molto piaciuto il primo, This Dance Is For Steve McCall;
il primo album, tra l’altro, su cui ho ascoltato Matthew Shipp. Ne è
passato di tempo prima di farne un altro…
Tanto tempo per tutto… ho dovuto lottare… non so nemmeno il
perché… solo per tenere insieme il gruppo – e l’ho tenuto in
piedi per venticinque anni; me ne hanno fatte tante, come ad esempio
prendere i miei musicisti e inserirli in altre formazioni. E’ stato
un miracolo che la Note Factory abbia fatto qualcosa. Un miracolo.
Ma pensi che la musica della Note Factory sia percepita come più
difficile rispetto a quella, ad esempio, dell’Art Ensemble Of Chicago?
Non lo so, non so cos’è. Vedi, tanto tempo fa c’erano tante
piccole case discografiche, e individui con una visione di ciò
che volevano registrare, e così via, e ci sono ancora persone
così. Purtroppo le cose non vanno molto bene per loro – rispetto
alle case discografiche che fanno parte di grossi conglomerati. E le
banche e i conglomerati si stanno impadronendo di tutto. Un tempo Down
Beat era un giornale di jazz, mi segui? Il mercato si è impadronito
dell’arte – non solo nel campo della musica: le arti, la scrittura,
tutto.
Il cinema.
Il cinema? Sì… Nessuno è più in grado di
fare nulla. Tutto quello che si fa è solo un remake di una cosa
che è stata già fatta. Ma se pensi a quali sono le cose
che ti piacciono sul serio, beh, la gente che le produceva non era così.
Per quanto mi riguarda sono arrivato al punto in cui non voglio essere
coinvolto in ciò che non mi interessa, non voglio sprecare il
mio tempo con gente che non lo merita; ci sono cose più interessanti
da fare. Ma ho notato che questa musica sta diventando sempre più
popolare anche negli Stati Uniti, e non avrei mai creduto che sarebbe
arrivato il momento in cui…
… scusa, quale musica?
La musica più avant-garde, free o come la vuoi chiamare…
contemporanea, adesso è molto popolare negli Stati Uniti; ciò
che la gente vuol sentire sono artisti che salgono sul palco e sanno
il fatto loro, è una diretta comunicazione mentale, che è
ciò che interessa chi pensa, no? E quindi io non so in che direzione
andranno gli altri, ma per ciò che mi riguarda non ho tempo per
le cose scontate. Tutti quelli che ammiro hanno fatto così. E
l’Art Ensemble è rimasto un gruppo valido nel tempo. Tanti si
sono lanciati a fare questa musica con troppa precipitazione – pensavano
di avere capito come funzionava, ma non era così. E ora risultano
noiosi.
Hai parlato di "sprecare il mio tempo", e ciò mi
ha ricordato You Wastin’ My Tyme, una canzone che hai cantato su un
album del Sound And Space Ensemble. Che importanza ha la voce nella
tua musica?
La voce umana è lo strumento. In tanti la pensano
così. Ho collaborato con Thomas Buckner per molti anni – molto
di recente abbiamo fatto un concerto per orchestra sinfonica, voce baritono
e io al sax alto. La prima è stata lo scorso anno a New York
alla Alice Tully Hall, e forse il mio prossimo disco per la ECM sarà
con un’orchestra sinfonica, e avrà un brano per solo piano e
uno per violino e piano; sto lavorando anche con la Early Music Orchestra,
nel Wisconsin: flauti, viola da gamba, viola e così via – ho
trascritto tanti miei lavori per quel tipo di orchestra.
Vuoi dirmi qualcosa in proposito?
Avevo tre brani per voce e piano con testi del poeta e. e. cummings,
fatti da Tom Buckner su Full Spectrum Voice; uno di questi si chiama
This, e l’ho adattato per questa strumentazione del periodo rinascimentale.
C’è poi una mia composizione del 1978, dedicata a Don Oropio
Gerit (???), un musicista e costruttore di strumenti, basata
su un flauto che costruì per me molto tempo fa e chiamata Variations
On Sketches From The Bamboo – alcune parti puoi sentirle sul disco del
Sound And Space Ensemble. L’avevo adattata per orchestra, e ora l’ho
trascritta per flauti, triple viols (nell’estensione della viola), viola
da gamba, violoncello, chitarra (che svolge la funzione dell’arpa) e
un basso. E un brano chiamato Because It’s, dove nella prima parte il
flauto assume il ruolo della voce, per flauto barocco, clavicembalo,
viola, violoncello e basso.
C’è tanto di quel lavoro da fare che non ha proprio senso occuparsi
delle cose più commerciali. Guarda Muhal Richard Abrams: è
un grande, già negli anni sessanta aveva una grossa band, ma
tanti preferiscono sprecare il tempo con gente che fa la musica di Duke
Ellington; mentre gente come Muhal, Anthony Braxton, Leo Smith ed io
protremmo contribuire all’evoluzione della big band. E la gente che
fa Ellington non lo fa bene come Ellington. Ma ci troviamo ad avere
a che fare con questa gente, e quando la storia si occuperà di
loro come li vedrà? Come coloro che hanno arrestato lo sviluppo
della musica. E’ quello che hanno fatto. Nient’altro. Vedi, la nostra
musica non è mai stata così. Non è mai stata una
musica che veniva costantemente rifatta. Guarda alla sua storia. Perché,
tutto d’un colpo, è così? Mi sembra una cosa del tutto
insensata. Anthony Braxton ha appena terminato la sua opera. Ha speso
200.000 dollari per farla. Non vedo l’ora di essere a casa, perché
è lì che mi aspetta, e dall’aspetto del disco, la copertina,
il libretto, sembrerebbe che l’abbia fatto la Sony o un’altra major.
Queste sono le cose che vale la pena di fare, non suonare qualcosa come
Take The A Train per l’ennesima volta.
Su che etichetta verrà pubblicata?
La sua.
Braxton House?
Braxton House.
Alcuni anni fa erano stati annunciati dei suoi dischi per questa
etichetta, ma non sono mai riuscito a trovarli. Non so se siano veramente
stati pubblicati. Posseggo alcuni dischi di Braxton per coro e orchestra,
su Leo, credo, ma questa è proprio un’opera?
Sì, è un’opera.
Procedendo per grandi linee, Anthony Davis è un musicista
che mi piaceva molto come pianista e compositore, e che dopo i dischi
con l’orchestra su Gramavision si è dedicato all’opera – ne ha
fatte un paio: X…
… X, Malcom X, sì…
… ma le cose che fa sono sovvenzionate?
Le sue sì. Ma vedi, lui fa cose che sono maggiormente per
il popular market… X… a tutti interessa Malcom X.
Pensi che oggi sia più facile, negli Stati Uniti, avere sovvenzioni
per cose del campo classico piuttosto che per una musica sperimentale
che non ha l’etichetta di "classica"?
Dipende da chi sei. A Philip Glass danno un sacco di soldi. A tanta
gente danno parecchi soldi, e non è che ci facciano poi queste
grandi cose. Ho visto Glass, e alcune delle sue cose mi piacciono, ma
a mio parere fa sempre le stesse cose. Non ho visto l’ultima cosa che
ha fatto, ma chi c’è andato mi ha detto che non era molto interessante.
Forse non dovrei pronunciarmi, dato che non c’ero personalmente; ma
vedi, c’è un’altra cosa che il tempo determina: non puoi fare
di qualcuno un eroe. Bisogna diventare eroi per i propri meriti. I media
ci provano continuamente, ma non basta.
L’anno scorso ho visto un lavoro nuovo di Glass e Wilson; visivamente
non era male, ma musicalmente erano le stesse cose di trent’anni fa…
Molta gente cerca di convincerti che sta facendo cose grosse…
e non è così; ma succede in tutti i campi, nell’istruzione;
è tutto il sistema che va riformato. Uno dei miei eroi era Telemann,
che una settimana pubblicava un giornale – vuoi essere parte della conversazione?
Vuoi il resto dell’articolo? Compra il giornale la prossima settimana.
Mozart, nelle strade col suo quartetto. Schubert. Beethoven. E così
via. Dall’altra parte gente come Charlie Parker, Fats Navarro. Duke
Ellington. Se c’è qualcosa che dobbiamo fare è riconoscere
un debito di gratitudine nei confronti della gente che ha fatto qualcosa
di veramente valido, perché le cose devono andare avanti.
Parlavi delle case discografiche; ho recentemente intervistato un
batterista inglese, Chris Cutler, che dirige un’etichetta indipendente,
e si parlava di problemi simili. Le majors, a volte, quando fiutano
un trend, lo sostengono, ma sempre per breve tempo – vedi la Elektra/Nonesuch
con John Zorn negli anni ottanta.
Credo che oggi John Zorn abbia un club a New York – ma è solo
uno studente di Anthony Braxton; studiava con Braxton – lui e Tim Berne.
A mio avviso non sono degni nemmeno di portargli la custodia dello strumento.
Nemmeno la custodia. Ma si parla molto più di loro che di Anthony,
il che è totalmente ridicolo. Anthony è un artista che
produce idee a getto continuo, e la gente lo copia. Ma la musica si
è sviluppata a tal punto che perfino il pubblico se ne sta accorgendo.
Due bei dischi dell’Art Ensemble sono stati ristampati da poco: Bap-Tizum
e Fanfare For The Warriors…
… e stiamo ancora cercando di farci pagare dalla Atlantic – che ignora
le nostre telefonate. Non ci hanno dato nemmeno un soldo per queste
ristampe. Sono in ritardo… (ride)
In ritardo, o potremmo chiamarle "strane procedure contabili"?
"Procedure contabili molto strane" direi.
Chi c’è ora all’Atlantic?
Neanche lo so.
E’ parte della Warner?
Oggi non sai mai chi possiede chi… potrebbe essere chiunque.
Quindi non siete stati pagati…
… non per le ristampe. E per l’ultimo disco, hai visto forse pubblicità?
Solo una recensione su Down Beat.
Ed è tutto.
E’ tutto. La ECM ha fatto di meglio per il CD dei Note Factory; c’è
anche qualcosa sul sito..
Ho una rassegna stampa spessa così su quel disco, hanno fatto
un buon lavoro di promozione. Ma ora i musicisti hanno i loro siti,
dove il pubblico può comprare dischi, spartiti… puoi bypassare
le case discografiche, che cominciano a preoccuparsi di non avere più
il controllo totale del mercato.
Prima parlavamo di Glass. Negli anni sessanta Braxton lo ha apertamente
citato quale influenza su una parte del proprio lavoro, per essere precisi
la serie Kelvin. Personalmente non ho mai considerato le tue cose quali
la serie Nonaah come collegate al minimalismo. Vuoi dirmi la tua in
rapporto a ciò?
Vedi, alcune cose che il minimalismo ha prodotto erano buone. Ho visto
una produzione di Glass di The Photographer ed era un grosso lavoro,
con telecamere, luci e tutto quanto, e il modo in cui ha combinato gli
elementi era molto interessante, e tutto si ripeteva costantemente,
come la musica. In uno spazio sulla scena c’era un cerchio, alcuni che
ballavano, e i passi si ripetevano e poi cambiavano gradualmente, come
la musica. Quel lavoro mi piacque. Ed anche certe cose di Steve Reich.
Non ho mai pensato che il minimalismo fosse l’unica direzione in musica,
niente affatto. Ma alcune cose mi piacevano. C’è un mio pezzo,
Chant, che potrebbe essere considerato vicino al minimalismo; è
sulla serie Wildflowers, che Sam Rivers incise nel suo studio, Rivbea.
Posseggo quel disco, ricordo che Chant prendeva tutta una facciata…
Davvero? Per me il minimalismo era solo una parte, non certo il tutto.
Ma se consideriamo la serie Nonaah, la vedi collegata al minimalismo
o no?
No. No, affatto. Ebbe inizio come un pezzo per solo sax, in una
situazione in cui un solo sassofono potrebbe essere percepito come due
strumenti a causa degli ampi salti tra le due melodie. Tante cose che
faccio sono materiale cui fare riferimento per generare molti brani;
quest’ultima serie che sto componendo adesso, Fallen Heroes, beh, ne
ho già fatte tante, compresa una per orchestra sinfonica; ed
è così che l’ho ideata, in maniera tale da essere in grado
di ritornarci e generare da essa molti brani.
Una struttura generativa?
Esatto, una struttura generativa; esatto. E’ una fonte, una fonte materiale
per generare composizioni. E anche Fallen Heroes è così,
in modo che quando voglio comporre posso sedermi e comporre, invece
di …(si gratta comicamente la testa, come qualcuno che non sappia
cosa fare).
Ne ho una versione sul CD dei Note Factory, ne hai pubblicato altre?
Ce n’è una su Sound Songs.
Già! Il doppio su Delmark.
Quello. Tante cose su Sound Songs erano cose che mi sono venute in mente,
e che ho poi sviluppato; c’è anche uno sketch di Leola, su Sound
Songs.
Visto che parliamo di strutture: c’è molta resistenza, credo,
perfino adesso, a concepire la musica in modo "obiettivo",
per usare la parola migliore che mi viene in mente adesso, perché
molti sembrano percepire questo approccio come "freddo e calcolatore"…
… non ci vedo nulla di mal… (ride divertito) continua, continua…
scusa l’interruzione.
… sembra quasi che se "viene fuori" è ok, ma se
concepisci qualcosa ragionandoci sopra non lo sia, il che mi pare un
punto di vista molto strano.
E’ strano, ma vedi: devi sapere quello che fai. Ed è questo il
motivo per cui molti improvvisatori non sono dei buoni improvvisatori:
perché non conoscono la composizione; non ragionano come un compositore.
Quando un compositore si siede, pensa, diciamo, trecento misure. Molti
improvvisatori salgono sul palco, suonano due misure e stanno a vedere
che fanno gli altri, e quando fai così è come essere indietro
in un pezzo di musica scritta, hai lo stesso effetto: tu conosci bene
la tua parte, io meno bene, suono e sto a sentire quello che fai, tu
fai qualcosa ed io salto molto velocemente – ti seguo. E’ tutto qui:
molti improvvisatori non sanno cosa fa di una composizione una buona
composizione. Ma i migliori lo sanno. E i migliori hanno studiato musica
in tanti tipi di situazioni. Sanno come suonare una nota ogni cinque
minuti, e sanno come far sì che quella nota assolva la giusta
funzione. E sanno come suonare… perfino quando suonano il silenzio
puoi sentire lo schema di pensiero proseguire. Quelli meno bravi, invece,
tendono continuamente a suonare risoluzioni. Mentre un buon improvvisatore
non le usa mai, dato che esse mettono la musica in tanti piccoli quadratini.
Quel che un buon improvvisatore persegue è un pensiero esteso,
estesi modelli di pensiero. Ed è questo che fa di un’improvvisazione
una buona improvvisazione.
Ricordo che quando ho letto il libro di Graham Lock su Anthony Braxton,
Forces In Motion, è stato bello vedere su carta gli elementi
della sua grammatica musicale; non sono strutture che è facile
percepire mediante il solo ascolto.
E’ vero. C’è bisogno di gente più avanzata nelle scuole.
Vedi, negli Stati Uniti c’è tanta gente nelle scuole che fa sempre
le stesse cose, non sono per nulla aperti nei confronti delle cose nuove.
Questo, per me, è l’opposto dell’insegnare. L’istruzione concerne
l’imparare. E se tutto d’un colpo qualcuno pensa di sapere tutto, e
non può imparare più niente, beh, non è interessante.
Molti studenti sono stanchi di questo stato di cose, perché pagano
tanti soldi per essere messi in una situazione nella quale devono continuamente
essere all’altezza di qualcun altro, invece di essere presi in considerazione
in quanto singoli individui. L’unica cosa che si può insegnare
a uno studente è come imparare. Tutto qui. Io non devo farti
diventare come me, ma incoraggiarti ad essere te stesso. E’ questo l’insegnamento.
E se non è questo, allora non è interessante. Per essere
un buon insegnante e un buon allievo devi essere umile. Devi capire
che non sei nulla – e allora puoi crescere. Ma finché non lo
fai non potrai crescere.
Le amministrazioni Reagan e Bush hanno tagliato i fondi alle scuole.
Secondo te è un problema politico o culturale?
Un po’ tutt’e due le cose. La prima cosa che si taglia è l’arte
– e la musica. Nelle scuole nere è quello che hanno fatto. Per
questo è nato il rap: gli studenti non avevano strumenti, e quindi
dovevano fare qualcosa, allora hanno preso i dischi e li hanno usati
per fare lo scratching e così via, perché non si può
sopprimere la creatività, e se la tua vocazione è di essere
creativo troverai un modo per esserlo. Ma io credo che l’arte ci tocchi
tutti in un modo molto speciale, e tutti dovrebbero essere esposti all’arte;
per me è un’idea assurda quella di eliminare l’arte dalle scuole,
com’è stato fatto. Ci sono scuole in rovina, che cadono a pezzi…
c’è stato un banchiere bianco, nello stato di New York, che ha
comprato una scuola per rimetterla in sesto, e la maggior parte degli
studenti di quella scuola sono neri; sono stato toccato da questa notizia,
mi ha quasi fatto piangere; e in quattro anni questi studenti hanno
ottenuto i voti migliori in assoluto, gli insegnanti fanno a gara per
andare ad insegnare lì… L’istruzione è una cosa molto
importante. E’ molto importante che la gente riscopra l’importanza dell’imparare,
concetto che adesso è molto offuscato, bisogna che lo recuperino,
che vedano le cose chiaramente e focalizzino cosa vuol dire imparare.
Cosa pensi del rap come forma d’arte?
Ci sono delle cose che mi piacciono, proprio perché esso rappresenta
quello che ti ho appena detto: l’energia creativa. Alcuni hanno da ridire
su certe cose del rap, ma queste sono le reali condizioni nelle quali
la gente vive. Gli altri non capiranno mai finché non vivranno
in quelle condizioni. Molti non devono mai preoccuparsi di cose come
il danaro – mai! Non sanno com’è quel tipo di vita; non lo sanno
proprio. E così da un punto di vista mi piace e anche da un altro,
perché ha segnato un cambiamento nei confronti delle rock band…
li ha resi diversi da chi aveva una chitarra; tutti hanno una chitarra.
E quindi sono due le cose che mi piacciono. E il rap ha reso valida
un’altra direzione per la musica che viene dalla tradizione.
Pensi che la "direzione chitarristica" fosse ad un punto
morto?
Beh, questi dicono: tanti suonavano solo il blues, e adesso non vogliamo
più suonare il blues – perché il blues è morto,
capisci? E in un certo senso è vero. Quelli che suonavano il
vero blues – la maggior parte sono morti. Morti sul serio. E tanti che
fanno il blues in modo scadente… beh, non sono affatto interessanti.
Preferirei ascoltare un disco…
… che era valido e lo è ancora.
Lo è, certo, lo è. E’ questa la caratteristica della vera
arte. E’ l’unica cosa che resta, non resta nient’altro. Ed io sto diventando
vecchio, e non mi rimane più molto tempo (ride) perché
io lo perda ad avere a che fare con gente che non si impegna a migliorarsi
e a crescere mentalmente.
L’intervista sembra essere giunta molto naturalmente alla propria conclusione.
Spento il registratore Mitchell si accende una sigaretta ("ho ancora
tutto il fiato che voglio; posso suonare anche per un’ora di seguito"
– non sa quanto le sue parole si riveleranno profetiche); e c’è
anche il tempo per ricordare l’album degli Air, Air Lore (noi) e per
lodare Henry Threadgill, musicista creativo (lui). Appuntamento al concerto.
Live:
Acicastello 3/7/’99
Il concerto
dell’Art Ensemble Of Chicago costituisce il clou della manifestazione
"Jazz al Castello": posto suggestivo, buona amplificazione,
pubblico rispettoso (e alcuni hanno fatto parecchia strada). Mancando
Lester Bowie, l’elemento più entertainer, melodico e realista del gruppo, ci chiediamo quale sarà
il compito di Ari Brown. L’inizio del concerto fornisce subito le coordinate:
è Leola, proprio il brano posto in apertura dell’album a nome
Note Factory; pianoforte, respiro lungo e melodico, "afrocameristico".
Dove i conti saltano è nel giorno della settimana capitato in
sorte: sabato. Un fiume di teenager dediti all’eterno rito dello struscio
circonda la piazza, annegando nel vocìo le sottili trame del
gruppo. Con comprensibile disappunto Mitchell deve cambiare registro; ferma il gruppo ("Cut it, Ari")
e si lancia in un incandescente assolo in respirazione circolare di
cinque minuti buoni: siamo in territorio Nonaah, per intenderci. Lo
sconcerto di buona parte dei presenti è palpabile; ci viene in
mente Bill Bruford, che diceva i King Crimson più potenti dei
Megadeath, non per il volume ma grazie al rapporto armonico tra gli
strumenti. Qui siamo oltre. Seguono settanta minuti in cui ne succedono
di tutti i colori: assolo di sax soprano rigorosissimi e contemporaneamente
da trance sciamanica; un tradizionale solo di Brown al tenore che, ricontestualizzato,
pare nuovissimo; scene da mercato africano; i classici Moye e Favors
sempre efficaci e asciutti; un pianismo a tratti quasi tayloriano che
nasconde nelle pieghe del suono un sottile dialogo melodico coi sassofoni;
Mitchel lucidissimo e fluido, coinvolgente senza mai concessioni all’effetto.
E la vita riserva sempre delle sorprese: dopo il trascinante brano conclusivo
(una versione strumentale di Big Red Peaches) l’applauso è incontenibile.
Una signora vicino a noi pone la domanda fatidica: "Hanno già
finito? Così presto?"
Discografia
selezionata
Per la serie "l’ottimo è nemico del bene" abbiamo privilegiato,
tra gli album a nostro avviso maggiormente validi, quelli (ri)stampati
su CD. Solo qualche eccezione, per titoli fondamentali – il mercato
delle ristampe è in continua evoluzione.
Art Ensemble Of Chicago
1967/68
(5 CD) (Nessa)
People In Sorrow
(’69) (rist. insieme a Les stances à Sophie come 1969-1970) (Emi Jazztime)
Bap-Tizum (’72) (Atlantic)
Fanfare For The
Warriors (’73)
(Atlantic)
Nice Guys (’78) (ECM)
Full Force (’80) (ECM)
Urban Bushmen (’80) (ECM)
Roscoe
Mitchell
Sound (’66) (Delmark)
Solo Saxophone Concerts (’73/’74) (Sackville) (fuori catalogo)
Nonaah (’77) (Nessa) (f.c.)
L-R-G/The Maze/S II Examples (’78) (ristampato Chief)
Snurdy McGurdy And Her Dancing Shoes (’80) (Nessa) (f.c.)
3X4 Eye (’81) (Black Saint)
New Music For Woodwinds And Voice (’81) (1750 Arch, rist. Mutable
Music)
And The Sound And Space Ensembles (’83) (Black Saint)
An Interesting Breakfast Conversation (’84) (1750 Arch, rist.
Mutable Music)
Four Compositions (87?) (Lovely Music)
Duets And Solos (with Muhal Richard Abrams) (’90) (Black Saint)
This Dance Is For Steve McCall (’92) (Black Saint)
Pilgrimage (’94?) (Lovely Music)
Hey Donald (’94) (Delmark)
Sound Songs (’94) (Delmark)
First Meeting (with Borah Bergman) (’94) (Knitting Factory)
In Walked Buckner (’98) (Delmark)
Nine To Get Ready (’98) (ECM)
8 O’Clock: Two Improvisations (with Thomas Buckner) (2001) (Mutable
Music)
Song For My Sister (2002) (PI Recordings)
Partecipazioni
Anthony
Braxton – Creative Music Orchestra (’76) (rist. RCA Bluebird)
George Lewis – Shadowgraph (’77) (Black Saint)
George Lewis – Voyager (’93) (Avant)
Tom Hamilton – Off-Hour Wait State (’95?) (O O Discs)
Matthew Shipp – Duo (’96?) (2.13.61)
© Beppe Colli 1999 – 2003
CloudsandClocks.net
| Jan. 26, 2003