Radio Days
—————-
di Beppe Colli
May 5, 2021
Su un piano macro, l’estate italiana del 1975 è caratterizzata da un evento epocale: l’avanzata dei partiti della sinistra, in special modo il PCI, nelle elezioni amministrative. Un trionfo cui mancò il nostro contributo: votavano solo i maggiorenni, e dato che nell’Italia di allora la maggiore età era fissata a ventun anni…
Su un piano micro, l’estate italiana è caratterizzata da un evento ugualmente epocale, foriero di non minori sconvolgimenti: la nostra decisione di passare qualche mese a Londra.
Il nostro inglese quasi tutto da autodidatti ci consentì di sfuggire al temibile destino di lavapiatti. Trovammo un lavoro dignitoso, caratterizzato da una paga meschina riscattata dal poter abitare in una stanza autonoma con servizi. Vedemmo tutto quello che ci fu possibile vedere – nell’ordine: Procol Harum, Kraftwerk, i ricostituiti Van Der Graaf Generator che presentavano per intero il nuovo album, Godbluff, non ancora uscito – e riuscimmo a comprare un discreto numero di LP. Anche un piccolo giradischi, un Philips portatile di colore arancione che a lavoro finito ci rendeva possibile trascorrere qualche ora al giorno ad ascoltare "la nostra musica".
A questo quadro idilliaco va aggiunto il problema delle bombe, che a quel tempo scoppiavano a sorpresa. C’erano anche degli allarmi fasulli causati da telefonate giunte in piena notte ma, data la difficoltà di distinguere gli allarmi veri dai falsi, correre bisognava (la nostra stanza era tra le più lontane dall’uscita in un edificio di una certa grandezza dallo sviluppo decisamente labirintico). In un albergo vicino al nostro, ma di classe decisamente superiore, la direzione pensò che non era il caso di creare il panico tra gli ospiti, limitandosi a radunarli nella capiente hall. Sfortunatamente, era proprio lì che era stata piazzata la bomba… (Dopo il nostro ritorno in patria, colleghi terrorizzati ci dissero dello scoppio di una bomba nella stazione della metropolitana che usavamo tutti, a due passi dall’albergo.)
Venuta la stagione delle piogge, il 29 settembre prendemmo il volo che ci avrebbe riportato a casa. Detto di passata dei nostri tentativi di rendere un po’ più "inglesi" gli abitanti della nostra città ("ma davvero non vi rendete conto che metterci in fila per due renderebbe tutto più efficiente e ordinato?") ci trovammo di fronte due eventi epocali:
uno, che nel quadro dell’avanzata delle sinistre di cui sopra, gli Henry Cow – allora uno dei nostri gruppi preferiti – avevano suonato al Festival dell’Unità; e non solo, ma al momento di dormire si erano sparpagliati a casa di nostri amici (avevamo così perso l’occasione di poter chiedere a John Greaves come faceva a ottenere quel bel suono pieno e rotondo dei dischi di studio);
due, che in città era nato un discreto numero di emittenti radiofoniche, cosa che mai avremmo sospettato (il fatto era già raro in contesti più "moderni"; ricordiamo che a quel tempo la RAI operava in regime di monopolio).
Fu ai primi di novembre che squillò il telefono: amici di amici avevano aperto un’emittente a poche centinaia di metri da casa nostra, e c’era assoluto bisogno di una persona "di ottime capacità e buon gusto" per coprire la fascia dalle 22 alla 23. Massima libertà d’azione, ovviamente senza compenso alcuno. E fu così che passammo tutte le sere del mese di novembre.
Avevamo tutti gli LP comprati a Londra a fare novità – Neu! 75 non era stato né pubblicato né recensito, One Size Fits All di Frank Zappa l’avevamo preso (in un piccolo affiliato Virgin a Tottenham situato sopra un negozio di scarpe – nel senso che per andarci bisognava prima entrare nel negozio) senza neppure conoscerne l’esistenza e così via.
E dato che nel nostro modo di vedere le cose un programma radio deve presentare e commentare ma anche dare la possibilità di riascoltare quanto già noto – crediamo che nessuno sia in grado di reggere un’ora di musica totalmente sconosciuta, soprattutto se di una certa difficoltà – ci divertivamo a presentare musica dal "catalogo" degli ultimi anni, attingendo alla nostra collezione: Frank Zappa ovviamente, King Crimson, Nico, i Gong, il Brian Eno "canzonettaro", gli snobbatissimi Hawkwind, Henry Cow e Slapp Happy e tutti i gruppi tedeschi di cui eravamo innamorati: Amon Düül II, Can, Faust, Neu! e i Kraftwerk di Ralf & Florian.
Parlavamo poco, dato che al contrario di quanto avviene con la scrittura alle parole la radio fa seguire la musica (oggi grazie a Internet le cose sono diverse, ma è il contesto a essere cambiato). Il nostro ideale sarebbe stato poter fare ascoltare un pezzo due volte, con una presentazione critica a precedere il secondo ascolto. Ma è ovvio che chi presenta conosce già bene la materia, e a volte il rischio è quello di non considerare la capacità di reazione di chi ascolta una musica per la prima volta, che non necessariamente focalizza quegli aspetti che chi trasmette vorrebbe invece fossero percepiti con immediatezza.
Va da sé che ci muovevamo in un mondo "omogeneo", da fascia serale. Ma quando il mese successivo andammo a lavorare – non gratis – in una radio già assestata il problema si pose. Se la fascia serale gode di uno statuto autonomo da repubblica indipendente, come comportarsi per il resto?
E qui sorge il problema del rapporto con il mainstream, del tutto ineludibile. Gli Henry Cow di In Praise Of Learning la sera non incontrano problemi. Ma il pezzo d’apertura, War, breve e spigliato, non potrebbe andar bene anche per il pomeriggio? La cosa non è soggetta a troppi dubbi, basta avere chiari i termini del discorso. In una radio del 1975 che non predilige la "musica italiana" (termine che va inteso tra virgolette, e che non include, per esempio, gli Area), se non in fasce orarie molto limitate, il mainstream è rappresentato da due nomi: il Bruce Springsteen di Born To Run e gli Eagles di One Of These Nights (il lettore è libero di aggiungere i Led Zeppelin). Possiamo mettere War degli Henry Cow tra Springsteen e gli Eagles? Laddove il "possiamo" non è da rapportare a un permesso esterno, ma all’eventualità (non – attenzione! – che qualche ascoltatore ne sia infastidito, ma) che nessun ascoltatore sia interessato.
Per fare un altro esempio: a differenza di In Praise Of Learning degli Henry Cow/Slapp Happy, l’album "gemello" di Slapp Happy/Henry Cow, Desperate Straights, aveva ricevuto critiche feroci, con la voce di Dagmar Krause paragonata a quella di Yoko Ono (ai tempi, il massimo dell’infamia). Gli stessi dipendenti della Virgin londinese si erano mostrati terrorizzati dal nostro considerare Desperate Straights un album "Henry Cow". Il punto a favore era che molti brani di quel disco erano intorno ai due minuti, quindi tentar si poteva.
Com’è ovvio, più radio facevamo, meno ne ascoltavamo. Un giorno ci capitò di ascoltare un programma di RAI 3 dove si parlava di Desperate Straights, compito a dire il vero non facile. A precedere Some Questions About Hats, la traduzione del testo effettuata da un poeta o poetessa che aveva cercato di riprodurre gli aspetti – formali, metrici, e altro che non sapremmo spiegare – del testo originale. Venivano trasmessi, nell’ordine: una presentazione del gruppo, in termini austeri; il pistolotto sul poeta/poetessa; la lettura in tono divertito del testo; la trasmissione del brano.
Qui possiamo solo aggiungere che certe cose, se non si capiscono da soli, non c’è verso di farle capire. Ovviamente, posto che lo scopo sia quello di far vendere l’album degli Slapp Happy. Se invece lo scopo è quello di far ridere argutamente l’ascoltatore, e di rendere noto il nome del poeta/poetessa, è un altro discorso.
Qui di seguito il lettore troverà una breve descrizione di tre album che caratterizzano il nostro lavoro radiofonico di quel tempo.
Neu!
75
Di recente riflettevamo su come, per chi scrive, il 1971 si sia aperto in un modo e chiuso in un altro. Intendiamo dire che gli album da noi acquistati nella prima parte dell’anno erano molto più in linea con i nostri gusti e i nostri acquisti passati di quanto non lo furono quelli acquistati nella seconda parte. Da un lato ciò è da attribuire al calendario – è il caso di Harmony Row di Jack Bruce e di Hunky Dory di David Bowie; dall’altro, al poter acquistare con (relativa) facilità album che presentavano stili "nuovi". In questa categoria un posto di riguardo spettava a gruppi come Amon Düül II, Can e Faust, con il più tardo corollario dei Neu!.
Ricordiamo bene i discorsi sulla "fissità" ritmica di Tago Mago, l’album dei Can da noi acquistato a ridosso della pubblicazione. E in un cammino che vide nella nostra discografia la comparsa degli Hawkwind, fu proprio la firma del loro leader, Dave Brock, a spingerci a comprare a scatola chiusa l’album di esordio del duo tedesco (l’edizione italiana, in un bell’arancio, presentava delle note di copertina di David Brock, in parallelo a quella inglese, i due gruppi condividendo in quel paese la casa discografica).
Se i Can di Tago Mago erano piaciuti a pochi (parliamo di nostri amici e conoscenti), i Neu! piacquero ancor meno: la fissità ritmica era maggiore, e le "canzoni" sembravano strambe assai, con quel rumore di remi sul laghetto. Qui consigliamo a chi non avesse mai ascoltato il gruppo o l’album di non fermarsi al veloce sunto che vuole il lavoro "quello di Hallogallo e Negativland", anche se ovviamente in termini di "storia del rock" pochi brani sono stati sotterraneamente influenti (e precursori) quanto quelli.
Se l’uscita di Neu! è del ’72, il nostro acquisto è da collocare all’anno successivo. Lo stesso anno della pubblicazione del seguito, non sorprendentemente intitolato Neu! 2. Ma la totale assenza di notizie in merito fece sì che comprassimo Neu! 2 a Londra insieme al nuovo lavoro appena uscito, Neu! 75.
Neu! 2 non è solo "la replica" dell’esordio, come un ascolto attento facilmente rivela. La vera sorpresa fu il terzo album: laddove la prima facciata portava alle estreme conseguenze una delle componenti della musica del duo – un lirismo rarefatto ormai "classico" – con la seconda a portare alla luce uno spirito che con il senno di poi è inevitabile – ma del tutto riduttivo – chiamare "punk".
Quello dei Neu! è senz’altro uno dei gruppi da noi maggiormente trasmesso nel primo anno di attività radiofonica. Quanto veramente apprezzato, non ci fu dato modo di sapere.
Roger Powell
Cosmic Furnace
L’aura di novità che circondava tutto quanto sapesse di "elettronico" – termine in verità alquanto confuso – con il corollario di tastiere e sintetizzatori, fece di entità quali la TONTO’s Expanding Head Band – qualcuno ricorda Zero Time? – "un nome noto". A lato, "i tedeschi", con in prima fila Klaus Schulze e i Tangerine Dream. Mai stampato in Europa e mal distribuito negli Stati Uniti, passò inosservato questo album del ’73, che di lì a poco avremmo trasmesso spesso e volentieri.
Già protégé di Robert Moog, Powell divenne l’esperto e il dimostratore dei sintetizzatori ARP, assoluti protagonisti della musica di quest’album insieme al pianoforte.
E’ possibile che il lettore conosca già il nome di Roger Powell. Probabilmente per la sua partecipazione al gruppo di Todd Rundgren denominato Utopia (molti album all’attivo). O come sintetista nel tour di David Bowie da cui fu tratto l’album Stage (non è difficile trovare in Rete la versione dal vivo di Station To Station dove Powell è protagonista assoluto del lungo momento iniziale). C’è poi tutta una carriera "dietro le quinte", in aziende che producevano sintetizzatori, software musicali e quant’altro (Wikipedia è d’aiuto).
Ottimo e creativo per quanto riguarda i timbri – ricordiamo che quelli sono i tempi del Moog "miagolante" – Cosmic Furnace si presenta di ottimo livello anche per ciò che riguarda la musica in senso stretto, con qualche influenza classica in chiusura di prima facciata ed echi di "big band" con sassofono "impossibile" sulla seconda.
Un buon sunto è l’iniziale Ictus – uno stress metrico, non l’accidente vascolare – momento "rock" che lasciamo volentieri all’esplorazione dell’ascoltatore come tutto il resto dell’album, che alle nostre orecchie suona sorprendentemente fresco ancora oggi (dopo una trentina d’anni, l’abbiamo riascoltato un paio di giorni fa). Si noti la naturalezza del timbro chitarristico: conosciamo tutti il pionieristico lavoro di Jan Hammer con la Mahavishnu Orchestra e anche dopo, ma lì la verosimiglianza è da attribuire soprattutto all’intelligenza musicale della frase e all’uso della ruota del pitch-bend, mentre qui la perfetta conoscenza dello strumento "sintetico" permette a Powell una riproduzione espressiva del plettro posizionato sopra il pick-up della chitarra.
Jukka Tolonen
Crossection
Sperando di non incorrere nell’accusa di barare, diciamo subito che quest’album è stato pubblicato nel 1976. Ma avremmo potuto trasmettere questi pezzi nel 1975, se solo avessimo posseduto gli album da cui sono tratti. Come abbiamo avuto modo di accorgerci solo alcuni giorni fa (!), Crossection è una raccolta ragionata – ed eccellente – che ospita brani tratti da alcuni album solisti del chitarrista finlandese della prima metà degli anni settanta.
(Preghiamo il lettore di avere un attimo di pazienza. La versione di Crossection di cui parliamo, quella inglese per la Sonet, coincide solo in parte con quella statunitense della Janus, come scoprimmo con sconcerto al momento di sostituire la nostra copia usurata da troppo frequenti passaggi radiofonici con una più fresca. La versione USA contiene tra l’altro due brani eseguiti dalla formazione di cui Tolonen faceva parte, i Tasavallan Presidentti: si ascolti Last Quarters, con evidentissime influenze Gentle Giant.)
Trovammo Crossection in un punto vendita della Ricordi. L’album ci colpì per la varietà e la pulizia dell’insieme, con un evidente influsso "californiano" ad affiorare qua e là negli assolo di chitarra, strani influssi "jazz-rock" nel senso di Brian Auger a fare capolino, delle belle melodie con flauto a dare un tono "nordico" e un brano – Silva the Cat – il cui assolo perfetto propinammo in tutte le occasioni. (Il bel brano d’apertura, Northern Lights, fu per molto tempo la sigla iniziale di un nostro programma.)
Dobbiamo ammettere di essere molto affezionati a quest’album, ma non per motivi personali. Piuttosto, Crossection fa parte di quella schiera di lavori non fondamentali, non da storia della musica, ma tutt’altro che "minori", che per il solo fatto di non essere spinti da un supposto "spirito dell’epoca" vengono quasi sbeffeggiati per la loro "inattualità". Un motivo in più per riascoltarlo, come abbiamo fatto in questi giorni. (La seconda facciata è meglio della prima, ma la prima non demerita.)
© Beppe Colli 2021
CloudsandClocks.net | May 5, 2021
—————-
di Beppe Colli
May 5, 2021
Su un piano macro, l’estate italiana del 1975 è caratterizzata da un evento epocale: l’avanzata dei partiti della sinistra, in special modo il PCI, nelle elezioni amministrative. Un trionfo cui mancò il nostro contributo: votavano solo i maggiorenni, e dato che nell’Italia di allora la maggiore età era fissata a ventun anni…
Su un piano micro, l’estate italiana è caratterizzata da un evento ugualmente epocale, foriero di non minori sconvolgimenti: la nostra decisione di passare qualche mese a Londra.
Il nostro inglese quasi tutto da autodidatti ci consentì di sfuggire al temibile destino di lavapiatti. Trovammo un lavoro dignitoso, caratterizzato da una paga meschina riscattata dal poter abitare in una stanza autonoma con servizi. Vedemmo tutto quello che ci fu possibile vedere – nell’ordine: Procol Harum, Kraftwerk, i ricostituiti Van Der Graaf Generator che presentavano per intero il nuovo album, Godbluff, non ancora uscito – e riuscimmo a comprare un discreto numero di LP. Anche un piccolo giradischi, un Philips portatile di colore arancione che a lavoro finito ci rendeva possibile trascorrere qualche ora al giorno ad ascoltare "la nostra musica".
A questo quadro idilliaco va aggiunto il problema delle bombe, che a quel tempo scoppiavano a sorpresa. C’erano anche degli allarmi fasulli causati da telefonate giunte in piena notte ma, data la difficoltà di distinguere gli allarmi veri dai falsi, correre bisognava (la nostra stanza era tra le più lontane dall’uscita in un edificio di una certa grandezza dallo sviluppo decisamente labirintico). In un albergo vicino al nostro, ma di classe decisamente superiore, la direzione pensò che non era il caso di creare il panico tra gli ospiti, limitandosi a radunarli nella capiente hall. Sfortunatamente, era proprio lì che era stata piazzata la bomba… (Dopo il nostro ritorno in patria, colleghi terrorizzati ci dissero dello scoppio di una bomba nella stazione della metropolitana che usavamo tutti, a due passi dall’albergo.)
Venuta la stagione delle piogge, il 29 settembre prendemmo il volo che ci avrebbe riportato a casa. Detto di passata dei nostri tentativi di rendere un po’ più "inglesi" gli abitanti della nostra città ("ma davvero non vi rendete conto che metterci in fila per due renderebbe tutto più efficiente e ordinato?") ci trovammo di fronte due eventi epocali:
uno, che nel quadro dell’avanzata delle sinistre di cui sopra, gli Henry Cow – allora uno dei nostri gruppi preferiti – avevano suonato al Festival dell’Unità; e non solo, ma al momento di dormire si erano sparpagliati a casa di nostri amici (avevamo così perso l’occasione di poter chiedere a John Greaves come faceva a ottenere quel bel suono pieno e rotondo dei dischi di studio);
due, che in città era nato un discreto numero di emittenti radiofoniche, cosa che mai avremmo sospettato (il fatto era già raro in contesti più "moderni"; ricordiamo che a quel tempo la RAI operava in regime di monopolio).
Fu ai primi di novembre che squillò il telefono: amici di amici avevano aperto un’emittente a poche centinaia di metri da casa nostra, e c’era assoluto bisogno di una persona "di ottime capacità e buon gusto" per coprire la fascia dalle 22 alla 23. Massima libertà d’azione, ovviamente senza compenso alcuno. E fu così che passammo tutte le sere del mese di novembre.
Avevamo tutti gli LP comprati a Londra a fare novità – Neu! 75 non era stato né pubblicato né recensito, One Size Fits All di Frank Zappa l’avevamo preso (in un piccolo affiliato Virgin a Tottenham situato sopra un negozio di scarpe – nel senso che per andarci bisognava prima entrare nel negozio) senza neppure conoscerne l’esistenza e così via.
E dato che nel nostro modo di vedere le cose un programma radio deve presentare e commentare ma anche dare la possibilità di riascoltare quanto già noto – crediamo che nessuno sia in grado di reggere un’ora di musica totalmente sconosciuta, soprattutto se di una certa difficoltà – ci divertivamo a presentare musica dal "catalogo" degli ultimi anni, attingendo alla nostra collezione: Frank Zappa ovviamente, King Crimson, Nico, i Gong, il Brian Eno "canzonettaro", gli snobbatissimi Hawkwind, Henry Cow e Slapp Happy e tutti i gruppi tedeschi di cui eravamo innamorati: Amon Düül II, Can, Faust, Neu! e i Kraftwerk di Ralf & Florian.
Parlavamo poco, dato che al contrario di quanto avviene con la scrittura alle parole la radio fa seguire la musica (oggi grazie a Internet le cose sono diverse, ma è il contesto a essere cambiato). Il nostro ideale sarebbe stato poter fare ascoltare un pezzo due volte, con una presentazione critica a precedere il secondo ascolto. Ma è ovvio che chi presenta conosce già bene la materia, e a volte il rischio è quello di non considerare la capacità di reazione di chi ascolta una musica per la prima volta, che non necessariamente focalizza quegli aspetti che chi trasmette vorrebbe invece fossero percepiti con immediatezza.
Va da sé che ci muovevamo in un mondo "omogeneo", da fascia serale. Ma quando il mese successivo andammo a lavorare – non gratis – in una radio già assestata il problema si pose. Se la fascia serale gode di uno statuto autonomo da repubblica indipendente, come comportarsi per il resto?
E qui sorge il problema del rapporto con il mainstream, del tutto ineludibile. Gli Henry Cow di In Praise Of Learning la sera non incontrano problemi. Ma il pezzo d’apertura, War, breve e spigliato, non potrebbe andar bene anche per il pomeriggio? La cosa non è soggetta a troppi dubbi, basta avere chiari i termini del discorso. In una radio del 1975 che non predilige la "musica italiana" (termine che va inteso tra virgolette, e che non include, per esempio, gli Area), se non in fasce orarie molto limitate, il mainstream è rappresentato da due nomi: il Bruce Springsteen di Born To Run e gli Eagles di One Of These Nights (il lettore è libero di aggiungere i Led Zeppelin). Possiamo mettere War degli Henry Cow tra Springsteen e gli Eagles? Laddove il "possiamo" non è da rapportare a un permesso esterno, ma all’eventualità (non – attenzione! – che qualche ascoltatore ne sia infastidito, ma) che nessun ascoltatore sia interessato.
Per fare un altro esempio: a differenza di In Praise Of Learning degli Henry Cow/Slapp Happy, l’album "gemello" di Slapp Happy/Henry Cow, Desperate Straights, aveva ricevuto critiche feroci, con la voce di Dagmar Krause paragonata a quella di Yoko Ono (ai tempi, il massimo dell’infamia). Gli stessi dipendenti della Virgin londinese si erano mostrati terrorizzati dal nostro considerare Desperate Straights un album "Henry Cow". Il punto a favore era che molti brani di quel disco erano intorno ai due minuti, quindi tentar si poteva.
Com’è ovvio, più radio facevamo, meno ne ascoltavamo. Un giorno ci capitò di ascoltare un programma di RAI 3 dove si parlava di Desperate Straights, compito a dire il vero non facile. A precedere Some Questions About Hats, la traduzione del testo effettuata da un poeta o poetessa che aveva cercato di riprodurre gli aspetti – formali, metrici, e altro che non sapremmo spiegare – del testo originale. Venivano trasmessi, nell’ordine: una presentazione del gruppo, in termini austeri; il pistolotto sul poeta/poetessa; la lettura in tono divertito del testo; la trasmissione del brano.
Qui possiamo solo aggiungere che certe cose, se non si capiscono da soli, non c’è verso di farle capire. Ovviamente, posto che lo scopo sia quello di far vendere l’album degli Slapp Happy. Se invece lo scopo è quello di far ridere argutamente l’ascoltatore, e di rendere noto il nome del poeta/poetessa, è un altro discorso.
Qui di seguito il lettore troverà una breve descrizione di tre album che caratterizzano il nostro lavoro radiofonico di quel tempo.
Neu!
75
Di recente riflettevamo su come, per chi scrive, il 1971 si sia aperto in un modo e chiuso in un altro. Intendiamo dire che gli album da noi acquistati nella prima parte dell’anno erano molto più in linea con i nostri gusti e i nostri acquisti passati di quanto non lo furono quelli acquistati nella seconda parte. Da un lato ciò è da attribuire al calendario – è il caso di Harmony Row di Jack Bruce e di Hunky Dory di David Bowie; dall’altro, al poter acquistare con (relativa) facilità album che presentavano stili "nuovi". In questa categoria un posto di riguardo spettava a gruppi come Amon Düül II, Can e Faust, con il più tardo corollario dei Neu!.
Ricordiamo bene i discorsi sulla "fissità" ritmica di Tago Mago, l’album dei Can da noi acquistato a ridosso della pubblicazione. E in un cammino che vide nella nostra discografia la comparsa degli Hawkwind, fu proprio la firma del loro leader, Dave Brock, a spingerci a comprare a scatola chiusa l’album di esordio del duo tedesco (l’edizione italiana, in un bell’arancio, presentava delle note di copertina di David Brock, in parallelo a quella inglese, i due gruppi condividendo in quel paese la casa discografica).
Se i Can di Tago Mago erano piaciuti a pochi (parliamo di nostri amici e conoscenti), i Neu! piacquero ancor meno: la fissità ritmica era maggiore, e le "canzoni" sembravano strambe assai, con quel rumore di remi sul laghetto. Qui consigliamo a chi non avesse mai ascoltato il gruppo o l’album di non fermarsi al veloce sunto che vuole il lavoro "quello di Hallogallo e Negativland", anche se ovviamente in termini di "storia del rock" pochi brani sono stati sotterraneamente influenti (e precursori) quanto quelli.
Se l’uscita di Neu! è del ’72, il nostro acquisto è da collocare all’anno successivo. Lo stesso anno della pubblicazione del seguito, non sorprendentemente intitolato Neu! 2. Ma la totale assenza di notizie in merito fece sì che comprassimo Neu! 2 a Londra insieme al nuovo lavoro appena uscito, Neu! 75.
Neu! 2 non è solo "la replica" dell’esordio, come un ascolto attento facilmente rivela. La vera sorpresa fu il terzo album: laddove la prima facciata portava alle estreme conseguenze una delle componenti della musica del duo – un lirismo rarefatto ormai "classico" – con la seconda a portare alla luce uno spirito che con il senno di poi è inevitabile – ma del tutto riduttivo – chiamare "punk".
Quello dei Neu! è senz’altro uno dei gruppi da noi maggiormente trasmesso nel primo anno di attività radiofonica. Quanto veramente apprezzato, non ci fu dato modo di sapere.
Roger Powell
Cosmic Furnace
L’aura di novità che circondava tutto quanto sapesse di "elettronico" – termine in verità alquanto confuso – con il corollario di tastiere e sintetizzatori, fece di entità quali la TONTO’s Expanding Head Band – qualcuno ricorda Zero Time? – "un nome noto". A lato, "i tedeschi", con in prima fila Klaus Schulze e i Tangerine Dream. Mai stampato in Europa e mal distribuito negli Stati Uniti, passò inosservato questo album del ’73, che di lì a poco avremmo trasmesso spesso e volentieri.
Già protégé di Robert Moog, Powell divenne l’esperto e il dimostratore dei sintetizzatori ARP, assoluti protagonisti della musica di quest’album insieme al pianoforte.
E’ possibile che il lettore conosca già il nome di Roger Powell. Probabilmente per la sua partecipazione al gruppo di Todd Rundgren denominato Utopia (molti album all’attivo). O come sintetista nel tour di David Bowie da cui fu tratto l’album Stage (non è difficile trovare in Rete la versione dal vivo di Station To Station dove Powell è protagonista assoluto del lungo momento iniziale). C’è poi tutta una carriera "dietro le quinte", in aziende che producevano sintetizzatori, software musicali e quant’altro (Wikipedia è d’aiuto).
Ottimo e creativo per quanto riguarda i timbri – ricordiamo che quelli sono i tempi del Moog "miagolante" – Cosmic Furnace si presenta di ottimo livello anche per ciò che riguarda la musica in senso stretto, con qualche influenza classica in chiusura di prima facciata ed echi di "big band" con sassofono "impossibile" sulla seconda.
Un buon sunto è l’iniziale Ictus – uno stress metrico, non l’accidente vascolare – momento "rock" che lasciamo volentieri all’esplorazione dell’ascoltatore come tutto il resto dell’album, che alle nostre orecchie suona sorprendentemente fresco ancora oggi (dopo una trentina d’anni, l’abbiamo riascoltato un paio di giorni fa). Si noti la naturalezza del timbro chitarristico: conosciamo tutti il pionieristico lavoro di Jan Hammer con la Mahavishnu Orchestra e anche dopo, ma lì la verosimiglianza è da attribuire soprattutto all’intelligenza musicale della frase e all’uso della ruota del pitch-bend, mentre qui la perfetta conoscenza dello strumento "sintetico" permette a Powell una riproduzione espressiva del plettro posizionato sopra il pick-up della chitarra.
Jukka Tolonen
Crossection
Sperando di non incorrere nell’accusa di barare, diciamo subito che quest’album è stato pubblicato nel 1976. Ma avremmo potuto trasmettere questi pezzi nel 1975, se solo avessimo posseduto gli album da cui sono tratti. Come abbiamo avuto modo di accorgerci solo alcuni giorni fa (!), Crossection è una raccolta ragionata – ed eccellente – che ospita brani tratti da alcuni album solisti del chitarrista finlandese della prima metà degli anni settanta.
(Preghiamo il lettore di avere un attimo di pazienza. La versione di Crossection di cui parliamo, quella inglese per la Sonet, coincide solo in parte con quella statunitense della Janus, come scoprimmo con sconcerto al momento di sostituire la nostra copia usurata da troppo frequenti passaggi radiofonici con una più fresca. La versione USA contiene tra l’altro due brani eseguiti dalla formazione di cui Tolonen faceva parte, i Tasavallan Presidentti: si ascolti Last Quarters, con evidentissime influenze Gentle Giant.)
Trovammo Crossection in un punto vendita della Ricordi. L’album ci colpì per la varietà e la pulizia dell’insieme, con un evidente influsso "californiano" ad affiorare qua e là negli assolo di chitarra, strani influssi "jazz-rock" nel senso di Brian Auger a fare capolino, delle belle melodie con flauto a dare un tono "nordico" e un brano – Silva the Cat – il cui assolo perfetto propinammo in tutte le occasioni. (Il bel brano d’apertura, Northern Lights, fu per molto tempo la sigla iniziale di un nostro programma.)
Dobbiamo ammettere di essere molto affezionati a quest’album, ma non per motivi personali. Piuttosto, Crossection fa parte di quella schiera di lavori non fondamentali, non da storia della musica, ma tutt’altro che "minori", che per il solo fatto di non essere spinti da un supposto "spirito dell’epoca" vengono quasi sbeffeggiati per la loro "inattualità". Un motivo in più per riascoltarlo, come abbiamo fatto in questi giorni. (La seconda facciata è meglio della prima, ma la prima non demerita.)
© Beppe Colli 2021
CloudsandClocks.net | May 5, 2021