Intervista
a
Peter
Hammill (2000)
—————-
di Beppe
Colli
July
29, 2003
(La
seguente intervista è originariamente apparsa su Blow Up # 32, gennaio 2001.)
La
sensazione provata quando sono cominciate a filtrare le prime notizie
che davano in preparazione un cofanetto dedicato ai Van Der Graaf Generator?
Gioia: pura e semplice – e questo ancor prima di venire a sapere che
il progetto avrebbe visto la partecipazione attiva dei componenti del
gruppo, cui sarebbe spettata la scelta dei materiali da includere nel
box. Strana sorte, quella toccata ai Van Der Graaf – perché è
così che li chiamavano tutti, anche se in realtà la parola
"Generator" scomparve dalla sigla solo per gli ultimi due
album, incisi con una formazione alquanto atipica. Nella natia Inghilterra,
dove non andarono mai al di là di uno status di gruppo "cult",
la loro piccola fama è rimasta sostanzialmente immutata – e qui
diremmo non sia stato ininfluente il fatto che la formazione non venne
mai davvero coinvolta nel pesante dileggio che il "dopo ’77"
riservò a molti tra i protagonisti della musica del giorno prima.
Invece in Italia, dove per un periodo tutt’altro che breve – diciamo
per buona parte degli anni settanta – i Van Der Graaf furono uno dei
gruppi più famosi, la loro musica è stata pressoché
dimenticata – anche se non sappiamo quanto abbia pesato in proposito
la passata gestione del catalogo: se un giro di telefonate ad alcuni
negozi di fiducia ci ha confermato quella sostanziale assenza di titoli
disponibili che dolorosamente ricordavamo la consultazione di un catalogo
anglosassone di vendite per corrispondenza ci ha subito fornito, antologie
comprese, dodici titoli del gruppo e trentuno di Peter Hammill in veste solista.
Una cosa è comunque certa: come gli Henry Cow, e a differenza
di moltissimi gruppi attivi in quel periodo, i Van Der Graaf non hanno
mai cercato di incassare ex post quanto a ben vedere sarebbe stato loro
consentito da una fama più che meritata; la qual cosa è
fattore tutt’altro che secondario nel consentirci oggi di ascoltare
la loro musica senza avvertire alcun fastidioso retrogusto. In ciò
il gruppo è stato coerente con tutta la sua storia: coraggiosamente
imprevedibile dal vivo, capace di sciogliersi una prima volta forse
alla vigilia del grande salto, rigoroso al punto da non suonare quasi
nessuno dei brani classici durante i primi due concerti che ne videro
il ritorno dopo tre anni di assenza: venne invece eseguito il nuovo
album, che nessuno tra il pubblico aveva ancora ascoltato.
Com’era
la musica dei Van Der Graaf? Intensa, senza dubbio – e originale, già
a partire da una formazione che in bella e coraggiosa controtendenza
rispetto allo spirito dei tempi rinunciava alla chitarra elettrica dal
bruciante e coinvolgente assolo per schierare invece: Hugh Banton, organo
versatile e dal timbro particolarissimo, pianoforte sempre pertinente,
rari e brillanti tocchi di sintetizzatore che, ascoltati oggi, non fanno
mai sorridere (per intenderci: non c’è nessuno di quegli inviluppi
sul filtro che suonano come "miow"); David Jackson, sassofonista
e flautista acustico e (coraggiosamente) elettrificato: impossibile
dimenticare quelle scatolette appese alla cintura, la magrezza, il buffo
cappellino, gli assolo mai "comodi", i "commenti"
alla voce e ai testi; Guy Evans, batterista elastico e poliritmico,
perfettamente a proprio agio – e profondamente efficace – in ogni genere
di situazione: si ascolti l’enorme varietà di stili disseminati
nella produzione discografica del gruppo per averne conferma; poi, Peter
Hammill: chitarra e piano funzionali, da compositore, ma in possesso
di una delle voci più personali, coinvolgenti e versatili di
tutta la storia del rock; suoi tutti i testi, sui quali ci sarebbe tanto
da dire, e la maggior parte delle musiche. Musica di gruppo, dove il
contributo di tutti era in funzione del disegno compositivo. E parliamo
di canzoni, ma attenzione – perché
è qui che l’ascoltatore ignaro dovrà forse operare i maggiori
adattamenti.
Un
piccolo dato biografico: Hammill aveva vent’anni quando il gruppo si
formò, ventidue all’epoca di capolavori quali H To He, Who Am
The Only One e Pawn Hearts, trenta quando i Van Der Graaf si sciolsero.
Pressappoco la stessa età avevano Jimi Hendrix, Robert Wyatt,
Nick Drake, Robert Fripp, Jack Bruce, Eric Clapton, John Martyn, Jeff
Beck, Jimmy Page; eppure: estetiche già perfettamente formate,
originali, mature.
Quale
migliore occasione, dunque, per ripercorrere insieme a Peter Hammill
il cammino del gruppo? Una precisazione – superflua per chi già
conosce i fatti, indispensabile per tutti gli altri – va però
fatta: parallelamente alla carriera dei Van Der Graaf Hammill aveva
già pubblicato ottimi album quali Chameleon In The Shadow Of
The Night, The Silent Corner And The Empty Stage, Nadir’s Big Chance
e Over, che in più sensi fanno parte a pieno titolo della storia
del gruppo. Sono però gli album successivi, sia quelli che lo
vedono unico titolare (The Future Now, PH7, Sitting Targets, A Black
Box) che quelli incisi con il K Group (Enter K, Patience, il doppio
dal vivo The Margin), non dimenticando il tesissimo trio con basso e
violino di Roomtemperaturelive, quelli che per polistilismo, secchezza
di linguaggio, lavoro di studio, consiglieremmo a chi volesse proseguire
l’esplorazione: stante gli alti e bassi naturali in una lunga carriera,
oggi Hammill non è un sopravvissuto ma un "classico".
Fissiamo
quindi l’appuntamento per l’intervista al momento del suo ritorno da
un tour che lo avrebbe portato in Italia e in Olanda. Tornato alla base,
il 28 ottobre ci comunica di essere "bask (but not yet rested…)" e l’intervista viene
così realizzata via e-mail (in maniera molto intensa) nei giorni
30 e 31 ottobre e 1 novembre. E dato che in occasione di un’intervista
che ci aveva concesso anni fa (era il 25 febbraio 1991) avevamo deliberatamente
scelto di non rivolgergli nessuna domanda a proposito dei "mitici Van Der Graaf Generator" quando
questa conversazione fortemente tematizzata ha avuto inizio ci sentivamo
con la coscienza perfettamente a posto.
Il
primo brano dei Van Der Graaf Generator che ho ascoltato è stato
Darkness, da The Least We Can Do Is Wave To Each Other – l’album era
stato pubblicato da non molto. Venne fuori dalla mia piccola radio a
transistor: il suono del vento, le voci, la sezione ritmica, poi la
tua voce… Quando arrivò l’assolo di organo fui totalmente conquistato:
era così strano! Molto bello, ma estremamente inusuale: fino
a quel momento la maggior parte degli assolo di organo che avevo ascoltato
erano stati contraddistinti da una vena gospel/jazz/blues – Jimmy Smith,
Brian Auger, le radici blues di Chicago di Ray Manzarek dei Doors…
I musicisti dei Van Der Graaf Generator sembravano provenire da retroterra
molto diversi tra loro, cosa tutt’altro che rara a quell’epoca – sto
pensando a gruppi quali i Soft Machine e i King Crimson, cioè
a dire gruppi che avevano come obbiettivo la creazione di qualcosa di
originale che fosse più della somma delle singole parti… Vorresti
parlarmi delle tue influenze formative e di quelle degli altri membri
del gruppo e di quali fossero le vostre aspettative al momento in cui
avete formato la band?
Hai
perfettamente ragione a citare i Soft Machine e i King Crimson. Tutti
e tre i gruppi erano già attivi prima del 1970 – o qualunque
fu l’anno in cui il termine "Progressive" divenne un’etichetta
onnicomprensiva; agli inizi eravamo conosciuti come gruppi "underground".
In
breve, le nostre influenze erano:
Jaxon:
soprattutto jazz, in particolar modo Archie Shepp e John Coltrane. Ma
aveva suonato anche in alcuni gruppi di soul music, quale parte della
sezione fiati piuttosto che come solista, credo. E aveva anche fatto
parte della National Youth Jazz Orchestra.
Evans:
suo padre aveva una big band, e anche lui era un appassionato di jazz.
Inoltre conosceva perfettamente i gruppi psichedelici statunitensi e
aveva un’altrettanto ampia familiarità del tutto priva di preclusioni
con ogni cosa rock che uscisse fuori dall’ordinario.
Banton:
un organista che aveva ricevuto un’educazione classica, naturalmente.
Ma anche un appassionato degli aspetti più grintosi della musica
rock/pop & soul.
PH:
blues, rhythm’n’blues, i gruppi del beat inglese (in special modo gli
Who, i Kinks, gli Animals) e, di nuovo, soul music.
Tutti
noi eravamo appassionati dei Beatles e di Hendrix. Col passare del tempo
i nostri interessi si fertilizzarono reciprocamente, sia per ciò
che riguarda il nostro entusiasmo nell’ascoltare la musica che il suonarla,
e arrivammo a una comunanza di gusti che comprendeva anche la musica
classica sia nelle sue forme più antiche, romantiche e sinfoniche
che quelle maggiormente sperimentali e d’avanguardia.
Non
avevamo nessuna aspettativa – né alcuna motivazione – se non
quella di tentare di creare una musica originale che avesse quale punto
di partenza sia le nostre differenze che le nostre affinità.
Ed esplorare e creare suoni che fossero davvero estremi!
The
Least… fu registrato in soli quattro giorni: siete rimasti soddisfatti
del risultato? Ho visto che nel box sono state incluse versioni differenti
di alcuni brani che erano apparsi sull’album…
A
quei tempi pensavamo che quattro giorni fossero un vero lusso! Così,
esattamente come per tutti i nostri album successivi, ci impegnammo
al massimo delle nostre capacità, e quindi ci riteniamo molto
contenti del risultato.
Le
versioni diverse che sono contenute nel box provengono da session dal
vivo realizzate per la radio.
All’inizio
credevo che Van Der Graaf Generator fosse un gruppo olandese! Da dove
è spuntato questo nome?
E’
stato Chris Judge Smith (colui che ha fondato il gruppo insieme a me
quando eravamo studenti alla Manchester University) a venir fuori con
quel nome. Robert Van Der Graaf era uno scienziato americano che aveva
inventato una macchina per la generazione e l’accumulazione di cariche
elettrostatiche. L’esemplare più grande del mondo si trova al
museo delle scienze di Boston.
I
riferimenti alle scienze "dure" non erano per niente comuni
tra i gruppi rock… Mi riferisco alla citazione di Albert Einstein
presente in After The Flood (The Least…), alla formula che compare
sulla copertina di H To He, Who Am The Only One (e ovviamente al titolo
dell’album), al titolo della canzone Man-Erg (Pawn Hearts), alla storia
raccontata in The Pioneers Over C… e, naturalmente, a W. Da dove proveniva
questo tuo interesse per le scienze? E quali erano le tue motivazioni
nell’esplorare questo argomento?
Beh,
ai tempi dell’università ero uno studente in "Liberal Studies
in Science". Avevo allora – e continuo ad avere oggi – un interesse
per la scienza sia in se stessa che intesa quale metafora della nostra
vita di oggi. Data la mia familiarità con la terminologia scientifica
e con le teorie scientifiche per me è sempre stato naturale incorporare
queste cose nelle mie canzoni. Se avessi portato a termine i miei studi
sarei stato qualcuno che capisce abbastanza della scienza da comunicarlo
alla società e vice versa. Ma forse l’ho fatto lo stesso almeno
un po’…
Gli
album di studio dei Van Der Graaf Generator di questo periodo erano
prodotti con molta cura, ma in passato hai detto che dal vivo la band
era un animale molto diverso, ed estremamente imprevedibile. (Robert
Fripp ha detto esattamente la stessa cosa per quanto riguarda i King
Crimson del periodo ’69 – ’71 e ha cercato di completare il quadro pubblicando
nastri dal vivo risalenti a quegli anni.) All’età che avevo allora
non si era considerati abbastanza grandi da poter viaggiare da soli,
quindi non ho mai visto dal vivo i Van Der Graaf Generator del periodo
’70 – ’72. Mi parleresti dell’atteggiamento del gruppo nei confronti
del suonare dal vivo?
Davvero
molto selvaggio. NOI non suonavamo mai lo stesso set e ogni canzone
cambiava radicalmente da una sera all’altra. Inoltre suonavamo a un
volume molto alto! Nessuno sapeva mai cosa aspettarsi, il che era qualcosa
di altamente desiderabile per noi, sia in quanto musicisti che come
persone. Del tutto intenzionalmente, noi non cercavamo di ricreare sul palcoscenico
il suono dello studio. E in questo, forse, la formazione del gruppo
è stata un fattore liberatorio. Voglio ribadirlo: noi puntavamo all’eccesso.
H To He… è stato il primo album dei Van Der Graaf Generator del
quale ho cercato di tradurre i testi, ricevendone l’impressione che
tutti i personaggi che appaiono nelle canzoni si trovassero immersi
in situazioni di estrema solitudine (una semplificazione eccessiva,
lo so…). C’è tanta varietà nella musica; le canzoni
sono molto complesse, e le cose cambiano, a volte in maniera alquanto
drastica, nel corso della stessa canzone: un tratto stilistico che a
quei tempi era (quasi) dato per scontato, mentre oggi – almeno a giudicare
dalla mia esperienza personale – la maggior parte degli ascoltatori
sembra preferire album che sono molto più "stabili"
e omogenei dall’inizio alla fine, e le cui canzoni non hanno molta varietà
interna. Qual è la tua opinione in merito? E: sto forse dipingendo
un quadro troppo roseo del passato?
Sicuramente
in passato una maggiore quantità di sperimentazione era permessa
e richiesta sia dai musicisti che dal pubblico. Ma credo che la musica
a quei tempi avesse un significato del tutto diverso. Essa era "posseduta"
dal pubblico, piuttosto che essere un arredamento delle loro vite, cosa
che ritengo essere la situazione prevalente oggi.
Contrariamente
a quello che oggi pare il modo di vedere più comune continuo
a credere che sia molto più interessante avere un album – e anche
una canzone – che offra varietà piuttosto che omogeneità…
Al
momento della sua pubblicazione Pawn Hearts mi sembrò un album
di tale densità che ne rimasi quasi intimidito, anche se dopo
averlo ascoltato più volte finì per diventare il mio disco
preferito tra quelli incisi dal gruppo fino ad allora (per ciò
che riguarda questo aspetto i dischi erano proprio come dei libri, un
luogo dove ritornare per rivisitare le proprie impressioni). Nell’appendice
al tuo libro Killers, Angels, Refugees, parlando del testo di A Plague
Of Lighthouse-Keepers, hai scritto tra l’altro: "Lascerò
parlare il suo sé clandestino, dicendo solo che è una
presentazione cinematica dell”io’ in svariate possibili configurazioni".
Ora – e l’obiettivo al quale punto è molto più ampio di
questa particolare citazione – questo è un tipo di ambizione
narrativa che negli anni successivi è stata spesso ridicolizzata
in quanto "pretenziosa" o "troppo intellettuale".
Mentre io credo che un approccio "ambizioso", anche se indubbiamente
a volte ti si può ritorcere contro, sarebbe oggi fortemente benvenuto
in una scena rock dove le aspettazioni sono grandemente diminuite –
e non intendo certo riferirmi a Britney Spears…
Um,
e la domanda? Seriamente, di questi tempi per quanto riguarda l’analisi
esterna tendo a tacere – tendo a far sì che le cose siano in
grado di parlare da sole, cercando al contempo di dar loro profondità.
Credo ancora oggi, esattamente come lo credevo allora, che qualsiasi
cosa dotata di un reale valore, in qualunque ambito, richiederà
di norma una certa quantità di impegno per essere pienamente
apprezzata… o "compresa"… o per diventare, come tu dici,
in altre parole, una parte della nostra vita. Ma in generale, hey, il
modo di pensare alla "Big Mac" è quello prevalente,
non credi?
Dopo
Pawn Hearts il gruppo si sciolse, causando molta costernazione in Italia,
dove si assumeva – forse in maniera un po’ troppo ottimistica – che
i Van Der Graaf Generator fossero destinati a diventare "grandi".
Ma in seguito gli altri membri del gruppo hanno continuato a contribuire
agli album solo che hai registrato dopo lo scioglimento. Cos’era successo?
La
vita, tante cose, follie. Ragionevolmente documentate in The Box, direi.
Però restammo amici (e lo siamo ancora, naturalmente) e con il
livello di reciproca comprensione esistente fra noi sia sul piano personale
che su quello musicale era naturale che continuassimo a suonare insieme.
Per ciò che riguarda i miei album e i miei tour da solo ci era
sempre chiaro che noi eravamo i musicisti dei Van Der Graaf Generator
ma che questo non era il lavoro dei Van De Graaf
Generator.
Inoltre
nessuno di noi aveva come obbiettivo quello di diventare famoso. Volevamo
che la nostra musica avesse successo, naturalmente, ma non desideravamo
in alcun modo partecipare in prima persona agli aspetti esteriori della
fama.
Più
o meno in quel periodo c’erano cantanti che esploravano – ognuno nel
suo modo personale – la voce e ciò che poteva essere fatto in
quel campo: i nomi che mi vengono in mente sono sicuramente Robert Wyatt
e Jack Bruce nella sua produzione solista dopo i Cream. C’erano cantanti
il cui lavoro consideravi meritevole di attenzione?
Chiaramente
i due che hai citato. E’ passato così tanto tempo da allora.
Per ciò che mi riguarda cercavo assolutamente di ampliare quello
che poteva essere fatto con la mia voce. Una ricerca che dura tutta
la vita.
C’erano
anche molti cantanti che provenivano da un ambito folk che esploravano
nuove direzioni, in un modo diverso. Dovresti includere anche Bowie,
naturalmente. Forse una distinzione importante è che a quel tempo
un certo numero di persone ha cominciato a cantare in inglese piuttosto
che in americano. Un trend che, è triste dirlo, procede oggi
nella direzione opposta.
L’unica
volta che ho visto il gruppo dal vivo è stato a Londra, nel 1975:
ero al concerto del New Victoria Theatre del 30 Agosto (il secondo dopo
la ricostituzione, ndi). Ricordo con certezza che la prima canzone fu
The Undercover Man, dall’album Godbluff, che ancora non era stato pubblicato,
e che oltre a vecchi brani cari a molti quali Lemmings e Man-Erg il
gruppo suonò alcune canzoni tratte da tuoi album solo (Forsaken
Gardens, In The Black Room e A Louse Is Not A Home, se ricordo bene)
che erano a tutti gli effetti "canzoni dei Van Der Graaf Generator".
Perché il gruppo decise di riavviare il motore?
Di
nuovo, la vita, tante cose, follie. Questo aspetto è, di nuovo,
documentato in The Box. Brevemente, direi che il momento era quello
giusto e anche noi come persone eravamo pronti per rientrare nel mondo
dei Van Der Graaf Generator. Quando lo abbiamo fatto non avevamo alcuna
intenzione di guardarci indietro o di cercare di riprendere il filo
da dove l’avevamo interrotto. Quindi al momento di votare quali canzoni
avremmo voluto suonare (oltre a quelle nuove) i vecchi cavalli di battaglia
non hanno ricevuto nessun voto ma le canzoni dei miei album solo (tra
le quali c’erano In The Black Room e A Louse Is Not A Home, che erano
già state suonate negli ultimi giorni della formazione
Mk I) ricevettero l’ok… per essere suonate, è naturale, alla
maniera dei Van Der Graaf Generator.
A
mio parere gli album registrati in quel periodo e che furono prodotti
dal gruppo – Godbluff, Still Life e World Record – cercavano di colmare
quel divario tra la dimensione di studio e quella dal vivo che era precedentemente
esistita: sono album più "diretti", più "snelli"
(ma non sono molto soddisfatto della mia scelta di queste parole), anche
se non sono per questo meno ambiziosi. Ritieni che la mia impressione
sia fondamentalmente corretta?
Credo
ritenessimo che il "Prog" stesse diventando un po’ troppo
contorto nel migliore dei casi e pomposo nel peggiore. E quindi volevamo
usare le nostre doti tecniche per dimostrare che noi eravamo un gruppo
che suonava e non un gruppo asservito ai tempi composti e alla complessità
fine a se stessa e così abbiamo nuovamente tratto ispirazione
dalle nostre radici nel soul, nel jazz e nel r&b. In generale, arrivati
a questo punto, quando suonavamo qualcosa di complesso volevamo che
sembrasse un 4/4… e vice versa.
Dei
tre album che ho appena nominato Still Life è forse quello che
preferisco – la canzone che dà il titolo all’album è tra
le mie preferite in assoluto (ricordo ancora quando ho finito di tradurre
il testo: ero davvero impaurito!). World Record è l’album che
mi piace di meno, con Meurglys III unica canzone nella discografia del
gruppo che considero essere "troppo lunga". Così, in
un certo senso, non sono stato troppo sorpreso quando il gruppo si è
sciolto nuovamente. Cos’era successo?
Le
stesse cose di sempre, ma stavolta in misura maggiore. Hugh e David
non si sentivano più in grado di continuare e, di nuovo, le cose
erano diventate assurde (come al solito, vedi The Box). I nuovi Van
Der Graaf, con Graham Smith e il ritorno di Potter, furono un cammino
logico da intraprendere, per quanto diverso. World Record, perfino per
ciò che riguarda le sovraincisioni, è stato una dimostrazione
di questo-è-il-suono-del-gruppo-dal-vivo, anche se nell’ambiente
parzialmente sotto controllo dello studio.
In
generale, giunti a questo punto ci stavamo avvicinando a quella che
è la fine della vita naturale de(l/i) grupp(o/i). Considero una
cosa altamente positiva il fatto di non esserci mai compromessi e di
non aver mai fatto nulla che potesse screditare il lavoro che avevamo
realizzato fino ad allora. Siamo stati coerenti con la nostra storia.
Il gruppo
si è sciolto per la prima volta durante il periodo della mania
"glam rock". La seconda, alla vigilia del punk. Secondo Rolling
Stone (e quindi è senz’altro vero…) "le visioni perennemente
desolate di Hammill furono in seguito citate da alcuni membri del movimento
punk-rock inglese dei tardi anni 70 (ad es. Johnny Rotten) quale loro
ispirazione, e infatti Hammill creò il personaggio di Rikki Nadir
per un album solista che anticipava il punk". Ti dispiacerebbe
parlarmi di quel periodo – e di quell’album? (… per il quale mi mancano
ancora i testi! – e devo ancora riuscire a capire quella frase detta
all’inizio di Two Or Three Spectres che finisce con "… Stevie
Wonder!", seguita poi da una risata).
Beh,
per essere obiettivi credo che "una delle ispirazioni" sarebbe
un’affermazione maggiormente accurata per ciò che riguarda Johnny
Rotten e altri (Mark EW Smith dei Fall, per esempio…). In realtà
Nadir’s Big Chance fu registrato ben prima che il fermento del ’77 iniziasse
e non fu per niente ben accolto dalla critica ai tempi della sua uscita.
Era la prima volta che Hugh, Guy, David ed io andavamo in studio avendo
già deciso di riformare i Van Der Graaf Generator e senza alcun
dubbio il modo diretto in cui abbiamo suonato su Nadir ha avuto un’influenza
su quello che è venuto dopo (vedi le mie risposte precedenti).
Dato che i Van Der Graaf Generator stavano per riformarsi non volevo assolutamente
realizzare qualcosa che somigliasse al gruppo e così le canzoni
che ho scelto per il disco erano estremamente semplici e (per la maggior
parte) abbastanza vecchie.
Una
delle cose principali che volevo fare (in questo disco, ndi) era esprimere quello spirito
da ragazzino di sedici anni quando dice "Voglio solo suonare quei
tre accordi che conosco sulla mia chitarra elettrica, e a forte volume!"
– uno spirito che in un modo o nell’altro cerco ancora di preservare
nel mio io di 51 anni. Essenzialmente, è questo lo spirito del
punk (prima che il punk fosse preso in ostaggio dal Bizniss). E così,
da parte mia, non mi sono sentito affatto estraneo a quanto è
successo nel ’77. Inoltre, come ti dicevo prima, a quei tempi c’era
in giro un sacco di pomposità, come per dire – "No, non
puoi decidere di formare una band coi tuoi amici in un garage".
E invece sì che puoi!
Quello
che Hugh dice all’inizio di Two Or Three Spectres – a proposito del
modo in cui stavo cercando di farlo suonare – è "why didn’t
you say, more Stevie Wonder!" ("perché non mi hai
detto: suonalo più alla maniera di Stevie Wonder!", ndi). E, di nuovo, non credo che
Stevie Wonder sarebbe un punto di riferimento che la maggior parte degli
ascoltatori penserebbe che io/noi avremmo usato.
Vorrei
chiederti di Nic Potter. Non so se posso fidarmi della mia memoria,
dato che ho ascoltato questa conversazione una sera del ’72 (credo)
quando il gruppo – Potter non ne faceva più parte – fu intervistato
in un programma radiofonico della Rai. Alla fine di Darkness avete fatto
dei commenti a proposito di come le parti di basso della canzone non
fossero un granché. Potter non ha più fatto parte del
gruppo fino a The Quiet Zone – The Pleasure Dome, anche se ha suonato
sui tuoi album solo. Puoi quindi immaginare la mia sorpresa quando nel
’77 ho visto la nuova formazione e mi sono accorto che era rientrato!
Quel disco è molto più "ancorato" da un punto
di vista ritmico e ci sono canzoni (ad esempio The Sphinx In The Face
e Chemical World) dove Potter tira fuori un timbro col fuzz degno di
Hugh Hopper. Tu hai prodotto l’album, quindi immagino che sia stato
tu a prendere la maggior parte delle decisioni. Cos’era cambiato nella
tua concezione del groove?
Quell’intervista
mi sembra essere stata più di un pizzico ingiusta nei confronti
di Nic e sospetto che stessimo solo scherzando un po’!
Nic
è stato nel gruppo per The Least… e per metà di H To
He. Se ne andò in modo piuttosto misterioso, e adesso dice (questo,
dopo le varie interviste che abbiamo fatto per The Box) che è
stato perché era ancora molto giovane (ed è verissimo,
aveva 17 anni quando si è unito a noi) e perciò non si
sentiva in grado di reggere quello che lui percepiva come la pazzia
e la frenesia che sempre di più ci circondavano. Hugh crede che
il fatto di aver costruito un’uscita supplementare per i bassi dell’organo
non sia stato troppo d’aiuto.
Ad
ogni modo, agli inizi Potter era un tipico bassista di blues, avendo
suonato con Paul Kossof (il chitarrista dei Free, ndi) e con The Misunderstood (con
Guy). Nel momento in cui i Van Der Graaf si riformarono sia lui che
noi cercavamo qualcosa di diverso per ciò che riguardava le frequenze
basse – quello spazio era stato liberato dall’assenza dell’organo e
dallo spostarsi del ruolo solistico nel territorio del violino. Di nuovo,
per essere giusti, lui ha trovato e adottato con entusiasmo dei suoni
più aggressivi, anche se con una certa dose di incoraggiamento!
E questa band venne fuori in pieno ’77, e forse abbiamo sentito che avremmo potuto
usare un po’ della grinta del punk combinandola con della musica maggiormente
sviluppata di quella basata su soli tre accordi.
Nulla
avrebbe potuto prepararmi al suono aspro e brutale di Vital. Una nuova
formazione, che nelle note di copertina di Maida Vaile hai descritto
come "atipica". Sull’album c’era anche molto materiale inedito,
cosa non molto comune per un "doppio dal vivo". E poi?
Credo
di averti già detto quasi tutto quello che avevo da dire in proposito
nella risposta precedente. Ovviamente intendevo "atipica"
nei termini della storia dei Van Der Graaf Generator, dato che per l’aspetto
sonoro ci eravamo completamente distaccati da tutto quello per cui eravamo
conosciuti. A un certo punto Jaxon doveva rimanere nella formazione,
che così sarebbe stata un quintetto dotato di una maggiore continuità
rispetto al passato, ma in seguito anche lui decise di andarsene. Così
Guy ed io, in particolare, sentimmo su di noi la responsabilità
di andare avanti e di continuare la storia nel vero spirito dei Van
Der Graaf Generator. Da cui questa versione della band. Ma non è
rimasto molto materiale già registrato nel cassetto!
Per
chiudere questa conversazione mi piacerebbe toccare qualche argomento
di carattere un po’ più generale. Come tu ben sai, il periodo
del cosiddetto "Progressive" è stato oggetto di pesante
sarcasmo – Robert Fripp ne ha scritto più volte sulle note di
copertina dei suoi CD (Mi sono dimenticato di chiederti della sua partecipazione
agli album del gruppo! E della tua partecipazione a Exposure!). Ho visto
i Genesis dal vivo ai tempi dell’uscita di Selling England By The Pound
e mi sono accorto che suonavano il disco esattamente tale e quale. Per
me, gruppi quali Genesis, EL&P e Yes mancavano del tutto di elementi
quali lo spirito di avventura e il "non giocare sul sicuro"
che erano un aspetto molto importante dei Van Der Graaf Generator, dei
King Crimson e, più tardi, di gruppi quali Henry Cow e Hatfield
And The North. Così vorrei chiederti il tuo punto di vista sul
"Progressive".
Credo
che il mio atteggiamento nei confronti di questo argomento sia stato
sufficientemente chiaro in tutto il corso di questa intervista… ad
esempio per quanto riguarda la distinzione tra gruppo "underground"
e "progressive" e così via. Dal mio punto di vista,
specialmente man mano che si procedeva verso la metà degli anni
settanta, molti/la maggior parte dei gruppi Prog aveva assunto un’aria
di pretenziosità e una patina di falsa intellettualità
artistica. Il che sarebbe anche potuto andar bene se ciò non
si fosse accompagnato a un atteggiamento del tipo "questo è
il modo giusto di fare le cose" inteso quale unica opzione.
Ovviamente,
dato che al nostro gruppo "doveva" essere data un’etichetta
ci fu attribuita quella di gruppo Progressive – quella che era più
facile dare. Ma io credo che noi fossimo molto più caotici e
anarchici, con un modo di suonare molto più vicino a uno spirito
rock/jazz (anche se in un’accezione piuttosto bianca, inglese e middle
class). Ahimè, dove la maggior parte dei gruppi Prog traeva ispirazione
dal repertorio romantico e faceva sfoggio di virtuosismo, i nostri riferimenti
erano piuttosto Messiaen, Ligeti o Stockhausen.
Hey
ho, la gente ti chiamerà come ti vuole chiamare in ogni caso…
Nel
corso di una nostra precedente conversazione ti ho fatto una domanda
a proposito della "interpretazione dei testi", avendo quale
punto di partenza il fraintendimento della canzone Four Pails. Ti avevo
poi chiesto se a tuo parere la disponibilità degli ascoltatori
a "comprendere" un testo fosse diminuita rispetto ai tempi
dei Van Der Graaf Generator. Come saprai, in molti Paesi del mondo va
in onda un programma chiamato Big Brother. Molti commenti che ho letto
sottolineano l’aspetto voyeuristico del programma, ma quello che mi
colpisce di più è il fatto che molte persone siano disposte
a guardare "se stesse", per così dire, mentre non fanno
"assolutamente nulla". Per me "l’essenza" dell’Arte
(letteratura, cinema, musica) è il suo essere "più
grande della vita": trascendente. E a questo riguardo i dischi
dei Van Der Graaf Generator sono sicuramente "Arte". Ma ho
il forte sospetto che ci stiamo abituando ogni giorno di più
a considerare la nostra vita quotidiana nella sua forma "grezza"
come una norma non trascendibile e che i nostri orizzonti si stiano
rimpicciolendo.
In
realtà penso che l’Arte stia in ambedue le direzioni – nelle
pennellate ampie, nel quadro di grandi dimensioni ma dall’altra parte
anche nell’indagine accurata di ciò che è solo apparentemente
banale. Vedere tutto il mondo in un granello di sabbia e cose del genere.
La questione cruciale alla quale si deve sempre ritornare è l’indagine;
senza la quale l’esperienza è priva di significato. E io credo
che sia vero che la società sta diventando sempre più
passiva, sempre meno accesa dall’entusiasmo, in molte sfere. Così
tanto della vita oggi ha a che fare con il mettersi addosso come distintivi
acquisti ed entusiasmi piuttosto che con l’essere davvero appassionati
al loro riguardo.
Il
31 Ottobre è stato annunciato un accordo tra la Bertelsmann,
il gigantesco conglomerato dell’intrattenimento, e Napster, la società
specializzata nello scambio di file. Quando i Van Der Graaf Generator
hanno iniziato la loro carriera sono stati messi sotto contratto da
una etichetta indipendente, la Charisma – e ricordo che dopo la morte
di Tony Stratton-Smith, il proprietario dell’etichetta, tu gli hai dedicato
la canzone Time To Burn. Essendo stato testimone dei giganteschi cambiamenti
avvenuti nel music business durante gli ultimi tre decenni come vedi
la situazione odierna con riguardo alle probabilità che i nuovi
gruppi hanno di produrre musica innovativa e non convenzionale come
quella del tuo gruppo?
Quando
abbiamo iniziato noi il Music Business era proprio quello che il nome
dice, localizzato in poche strade, bar, pub e club a Soho. Oggi è
un’industria globale. Il che rende le cose difficili per gente che viene
fuori adesso e cerca di fare cose innovative (sia dal punto di vista
degli affari che per ciò che concerne la musica).
Al
giorno d’oggi promuovere qualcosa costa così tanti soldi che
nella maggior parte dei casi l’opzione preferita è l’andare sul
sicuro, il riferirsi a cose che hanno già avuto successo in passato.
Inoltre ai musicisti non viene dato il tempo necessario per svilupparsi
e per trovare la propria identità e il proprio pubblico come
invece è stato possibile a noi.
Ciò
nonostante alcuni artisti riescono a raggiungere un successo mainstream
con cose innovative – Björk sarebbe sicuramente un esempio, e così
pure i Radiohead. Ma la cosa è sempre più difficile e
sospetto richieda ancora più forza di volontà che in passato.
Se avevi successo, di qualunque entità esso fosse, per noi andava
bene. Oggi se hai un hit sei immediatamente responsabile di circa un
migliaio di posti di lavoro e probabilmente di molti isolati di uffici
a Los Angeles!
Quindi,
molto, molto più difficile al giorno d’oggi. Io e noi siamo stati
dei ragazzi fortunati a iniziare quando abbiamo iniziato. Oggi non ci
farebbero nemmeno infilare un piede nella porta.
C’è
qualcosa che vorresti dire a qualcuno che non ha mai ascoltato nulla
della musica contenuta in The Box?
Credo
soltanto "così è stato, così è com’è
andata". Come ho detto prima, alcune parti possono (retrospettivamente)
essere considerate non prive di difetti ma ogni cosa è stata
fatta ai limiti delle nostre capacità e delle nostre intenzioni
a quei tempi. E così riconosco la paternità di tutto quanto.
©
Beppe Colli 2000 – 2003
CloudsandClocks.net
| July 29, 2003