Sacha Mullin
Duplex

(self-released)

Un gran bell’album, e tanta musica in grado di interessare e coinvolgere l’ascoltatore in una pluralità di modi. Per chi scrive, una bella scoperta (della quale non abbiamo merito alcuno, avendo trovato il CD nella nostra buca delle lettere).

Le prime parole che vengono in mente nel presentare Duplex? Voci (tante, varie). Melodie (declinate con sicurezza in una pluralità di stili). Pianoforte (sotto l’aspetto timbrico, e quale generatore di musica). Un bel suono dinamico (qualità oggi decisamente rara, ancor di più se consideriamo il carattere economicamente autogestito di questo lavoro e il suo abitare il mondo digitale).

Tireremmo fuori dal cappello la definizione di "mainstream", non fosse che un’occhiata alle classifiche – quel che ne resta – restituisce un’immagine non poco diversa. Forte la tentazione di usare un’etichetta elastica quale "leftfield pop", ma quest’album ospita anche musiche – arie di Broadway, "standard di jazz degli anni quaranta", cenni operistici – che è lecito chiamare "pop" solo a patto di fare un frullato di calendari.

Scontato dire di un lungo e vario background, a dispetto di un’età (relativamente) giovane: trenta-e-qualcosa? Un album di esordio che non abbiamo mai ascoltato, svariate collaborazioni, frequentazioni che dopo l’ascolto di Duplex ci sono parse sorprendenti: Todd Rittmann – co-produttore del lavoro, qui impegnato anche come tecnico del missaggio – è lo stesso musicista che ricordiamo parte del gruppo indie-rock statunitense U.S. Maple!

Come da titolo, Duplex è diviso in due parti. I primi cinque brani, registrati tra l’aprile del 2013 e il novembre del 2015, abitano una dimensione che veste abiti "elettronici" e "sintetici", con bell’uso di synth e batterie elettroniche. La seconda parte, registrata tra il luglio del 2016 e il febbraio di quest’anno, mette in scena un "piccolo gruppo acustico" con piano, basso e batteria, voci, e violino e viola a dare una dimensione orchestrale.

Le session sono state tenute un po’ dappertutto – pare di vedere quei grossi pacchi di dati viaggiare sui cavi – ma a testimonianza della solidità della scrittura l’ascolto diretto restituisce l’immagine mentale di un gruppo di musicisti che suonano tutti insieme in un vasto ambiente dal pavimento ricco di tappeti. Registrato in digitale, l’album ha poi visto un passaggio in analogico, su nastro, al momento della masterizzazione, anch’essa effettuata da Rittmann. E scommettiamo che una versione in vinile, in presenza di stampa accurata, darebbe effetti spettacolari.

Essere in possesso di una voce bella e versatile espone l’artista al rischio di innamorarsene al punto da produrre risultati tristemente autoindulgenti. E com’è noto, l’artista Narciso rende l’ascoltatore un Sisifo. Diremmo che qui, con qualche piccola eccezione – un vibrato esagerato, un momento in concorso per il premio "tonsilla d’oro" – il pericolo è stato evitato.

"Un album mainstream di una certa difficoltà" è definizione che potrebbe dar luogo a interminabili discussioni. Le melodie di questi brani all’apparenza naturali sono spesso tortuose, con svolte inattese, cambiamenti di accordo a mutare il senso della melodia, orchestrazioni vocali stratificate (molte le voci femminili ospiti, tutte di pregio), e un uso sofisticato degli "incisi", caratteristica compositiva che diremmo oggi largamente scomparsa.

Per il lettore che ha avuto la pazienza di giungere fin qui, una veloce descrizione dei singoli brani.

Intro è l’apertura dell’album, come da titolo; molto breve (solo 39"), è un baccanale di voci e percussioni, con una coda di synth che conduce a…

Crow, che si presenta come uno scoperto omaggio agli anni ottanta. Si colgono rimandi agli Hall & Oates prodotti da Bob Clearmountain e assistiti da Arthur Baker, e a quei brani "Fake Motown" Made In England arrangiati da Anne Dudley e prodotti da Trevor Horn. Ovviamente basta strizzare un po’ gli occhi per vedere il David Bowie "crooner" con voce "di petto". Batteria assertiva, con cassa cupa e rullante leggero, accordi di piano in staccato, bella melodia vocale sostenuta da una voce femminile, "stabs" orchestrali del synth, molte citazioni anni ottanta: il ritornello viene introdotto da rullate sintetiche ogni volta diverse, nel finale c’è anche un accenno di syn-drum, c’è la chitarra ritmica leggera sugli accordi, i contrappunti di "synth Oberheim", il basso sintetico.

Dive è un brano altamente drammatico che ha inizio e termina con spezzoni parlati (non sappiamo se correlati al brano Questions, di cui si dirà tra breve). Arpeggio di chitarra – è un attacco che stranamente ci ricorda la Joni Mitchell "elettronica" di Dog Eat Dog – , poi voce, una figura ritmica cassa-charleston. Bello sviluppo melodico delle strofe, che prendono quota e si sviluppano ariosamente. Dopo alcuni "teasing" spunta un vero "inciso", con ritmo "spezzato" e una melodia che è quasi un canto gregoriano, che poi sfocia in una nota lunga su un ritmo cadenzato. C’è un false ending che riparte e un interludio dal ritmo spezzato, il finale ritorna all’arpeggio di chitarra e a uno spezzone parlato.

Eureka ha una bella figura ritmica circolare di batteria elettronica, synth maestoso e melodia vocale "orientale", con testo in giapponese (alle nostre orecchie occidentali è parso di sentire parole quali "Mon Amour" e "Yawning"). Zig-zag melodici, alternarsi di timbri e di voci maschili e femminili, un brano che attende solo la colonna sonora appropriata per rendere ricchi tutti i partecipanti. C’è anche un bell’inciso, che suona naturale.

Questions è un brano più convenzionale, come le Atomic Kitten che cantano qualcosa a metà strada tra la Eternal Flame delle Bangles e la Hotel California degli Eagles fatta "Spanish", o qualcosa vintage scritta da Diane Warren. Può sembrare un complimento aspro, ma in realtà il brano – oltre a funzionare da perfetta "chiusa di facciata", nonché proverbiale "tormentone" – mette ancor di più in risalto l’eccellente caratura dei brani originali. (La canzone è tratta dal serial So Weird della Disney, del quale nulla sappiamo.)

Dream Ain’t Dead è un brano che risulta un po’ troppo "bombastic", in stile "tonsille d’acciaio". Ritmica cadenzata, incalzante, pianoforte, parti di archi a dare un’aria solenne, un po’ da colonna sonora anni sessanta, con cori femminili a sostenere un ritornello arioso ma altamente drammatico. Batteria tonante con piatti e tamburi, basso, è un brano "over the top", ma come per le famosissime sigle dei film di 007 questo fa parte delle regole del gioco.

Applejack è un altro brano dichiaratamente pianistico ma più leggero e arioso di quello che lo precede; ben introdotto da una vivace batteria con rullante "jazz" suonato con le spazzole; un buon basso, piano e voce spesso a eseguire frasi all’unisono, e un ricordo del Ben Folds più sbarazzino; belle variazioni di dinamica, e un inciso sorprendentemente ritmato con buon sostegno della voce femminile. Coda con basso melodico in evidenza e batteria il cui rullante torna adesso al timbro iniziale. Sfuma, ed è una bella soluzione musicale.

Fools (Are We) ha un attacco con voce in rubato, pianoforte, piatti. Tra uno standard jazz anni quaranta, un musical di Broadway e l’opera. Cambia volentieri atmosfera. Molto frammentato, con batteria piena, rock, poi uno "scarto", con appoggio vocale femminile. Se fosse sardonico invece di serio tireremmo in ballo Mose Allison. "Looped melody" nel finale, con ostinato.

White Hot Room ha un inizio in rubato, poi il tutto si fa drammatico, con violino e viola a fare sezione. Ci ricorda un po’ l’Elton John del periodo "inglese" assistito da Paul Buckmaster o lo Scott Walker del periodo "classico". Ed è il picco drammatico dell’album, con la voce sovrapposta femminile a fare "drama".

Accept Treasure chiude l’album con un’atmosfera più leggera e ariosa, con piano e voce, poi basso e rullante suonato con le spazzole, una melodia distesa, anche qui con appoggio femminile, e violino multiplo, pizzicato e con arco, che costeggia il c&w. Chiude il piano in solitudine.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2017

CloudsandClocks.net | Sept. 22, 2017