Roscoe Mitchell
Bells For The South Side

(ECM)

Alcuni giorni fa, il tre agosto, Roscoe Mitchell ha compiuto settantasette anni. (Auguri!) Pur piccole, le foto contenute nel libretto di quest’album ce lo mostrano pimpante e di bell’aspetto, in felice contrasto con quelle che apparivano a corredo di Far Side, il bell’album ECM apparso nel 2010 ma registrato tre anni prima.

Qualche (passato) timore per l’aspetto, nessuno per quanto riguarda la musica, come le oltre due ore di questo (doppio) album sono agevolmente in grado di dimostrare. Nello splendore di una registrazione perfetta – asciutta, anti-retorica, mai "d’effetto": proprio come la musica di Mitchell – Bells For The South Side offre un panorama "orchestrale" che si riallaccia al pregevole Nine To Get Ready (1999), album dove il musicista allargava la sua tavolozza a una "mini-orchestra" di improvvisatori.

Tutto bene, dunque? Beh, tutto o quasi. Un articolo-intervista apparso sul New York Times a ridosso della pubblicazione di quest’album riferiva di un minacciato licenziamento di Mitchell e di altri undici colleghi da parte del Mills College – la prestigiosa istituzione musicale dove Mitchell occupa una cattedra in composizione – nella necessità di operare drastici tagli. Petizione in Rete (avanti, diciamolo: che belli, i tempi moderni!), e la tempesta sembra passata. Ma l’episodio – anche qualora inquadrato in un processo di svecchiamento (il mese prossimo il multistrumentista Tyshawn Sorey, che fa bella figura su quest’album, prenderà il posto già di Anthony Braxton alla Wesleyan University) – mostra quanto precario resti in fondo lo status di questa musica.

Spettatore a un recente concerto di Anthony Braxton, il pianista statunitense Ethan Iverson si chiedeva quante figure altrettanto originali è verosimile appaiano in futuro.

Il che ci porta dritti a Bells For The South Side, perfetta illustrazione di quell’unicum che è stato Mitchell.

Ci sentiamo in dovere di offrire una piccola precisazione: sebbene alcuni luoghi della copertina facciano riferimento a "Roscoe Mitchell Trios" – le formazioni qui presenti traggono i loro musicisti dalle varie formazioni in trio con le quali Mitchell ha molto lavorato, e molto inciso, nello scorso decennio – gli organici che possiamo ascoltare sono spesso molto più ampi. Questioni di "appeal commerciale" a parte, è una cosa che ci teniamo a chiarire dato che nel leggere le note di copertina avevamo male interpretato proprio questo aspetto, rimanendo a dir poco perplessi nell’ascoltare il primo brano, con due pianoforti!

Registrato due anni fa, l’album non era inteso quale celebrazione della musica di Mitchell ma di quella Association For The Advancement Of Creative Musicians (il lettore ricorda senz’altro il motto "Great Black Music – Ancient To The Future", forse progettato allo scopo di eludere la scomoda domanda "Ma è jazz?”) fondata a Chicago mezzo secolo prima.

Inserite in un più ampio contesto celebrativo – i percussionisti presenti sull’album fanno anche uso di strumenti storici già usati da membri dell’AACM – queste registrazioni sono state effettuate al Museum Of Contemporary Art di Chicago da David Zuchowsky. Missaggio effettuato nel maggio dello scorso anno da Gérard de Haro con Steve Lake negli studi La Buissonne, a Parnes-les-Fontaines. Masterizzazione opera di Nicolas Baillard. Produzione di Steve Lake. Suono eccellente, con gamma dinamica spettacolare: i molti momenti di silenzio riveleranno immediatamente lo stato di salute della circuitazione dell’amplificatore.

Difetti? Uno solo, e non dell’album: la totale assenza di note esplicative (le note di Mitchell presentano i musicisti, non la musica). E’ certamente un fatto "filosofico" – il libretto c’è, le foto anche, Steve Lake lo ricordiamo di buon comprendonio – ma ribadiamo sommessamente il nostro dissenso. Chi ascolta musica come questa è mediamente qualcuno che si pone delle domande. Si potrebbe dire che è compito del critico illuminare la materia per l’ascoltatore. Ma è stato solo grazie a quel pezzo del New York Times che abbiamo appreso che nel primo brano Mitchell dirige i musicisti, cosa che ha immediatamente illuminato di senso un procedere che ci suonava troppo teleologico per essere aleatorio ma che non ci sembrava "tutto scritto".

Veniamo adesso a musicisti e strumentazione. D’obbligo fare un bel respiro.

Roscoe Mitchell ai sassofoni sopranino, soprano, alto e basso, e poi flauto, piccolo, flauto basso, percussioni. James Fei a sax sopranino e alto, clarinetto contralto, electronics. Hugh Ragin a tromba e "piccolo trumpet". Tyshawn Sorey a trombone, pianoforte, batteria, percussioni. Craig Taborn a pianoforte, organo, electronics. Jaribu Shahid a contrabbasso, basso elettrico e percussioni. William Winant a percussioni, campane tubolari, glockenspiel, vibrafono, marimba, roto toms, piatti, cassa, woodblock, timpani. Kikanju Baku a batteria e percussioni. Tani Tabbal a batteria e percussioni.

L’album presenta una grande – e diremmo benvenuta – gamma di situazioni, ed è verosimile che ogni ascoltatore trovi la musica, e il musicista, più congeniale. Da parte nostra, in senso critico, vorremmo sottolineare il lavoro svolto dalle percussioni, innanzitutto sotto l’aspetto timbrico. Sembra quasi inutile dirlo adesso, ma riflettiamo su quanto pionieristico – e quanto musicale: un aspetto che non daremmo per scontato quando si parla di "musica moderna" – sia stato il lavoro di Mitchell con le percussioni, prima con l’Art Ensemble Of Chicago, poi nella sua produzione solista. Chi potrà mai dimenticare quella foto gigante con gli otto percussionisti in studio con quella selva di percussioni, a incidere The Maze?

Come si argomenterà nel dettaglio che segue, non manca qualche situazione che ci pare intesa soprattutto a mettere in risalto il musicista, ma non in senso virtuosistico: diciamo che qualche spezzone potrebbe anche non essere riconoscibile come "di provenienza mitchelliana". Ma è poca cosa. Buon ascolto!

Spatial Aspects Of The Sound vede Craig Taborn e Tyshawn Sorey al pianoforte, William Winant alle campane tubolari, Kikanju Baku ai campanelli e Roscoe Mitchell al piccolo. Ascoltiamo i pianoforti sui lati opposti dello spettro stereo, insieme alle campane tubolari. Accordi o note singole si stagliano nel silenzio, in un "procedere" parco di note non dissimile da quei pezzi in solo nei quali Mitchell suona una sola nota per strumento, passando dall’uno all’altro. A 8′ 24" entrano i campanelli a fare un bel contrasto timbrico, con suoni tintinnanti. A 10′ 36" cesura, silenzio, poi un accompagnamento per accordi a una bella e inconfondibile melodia per piccolo.

Panoply si apre con percussioni e piatti, poi tromba e sax alto all’unisono, una cassa sonora, tromba e sassofono, note lunghe tenute. Sax alto-batteria. Tromba, batteria, percussioni, alto, note tenute. Di nuovo. Di nuovo. Poi assolo di tromba scoppiettante, vibrafono, batteria e percussioni che salgono di volume e in densità degli eventi. A 6′ 50" un crash di piatto, a 7′ 02" una brevissima coda.

Prelude To A Rose vede Hugh Ragin e Tyshawn Sorey per una strumentazione che ovviamente ricorda l’episodio in trio – una facciata intera – del doppio L-R-G/The Maze/S II Examples del ’78. Aprono i fiati a formare un accordo, procede con un che di aria barocca. A 3′ 15" la sezione si conclude, dando vita a un episodio dove i tre fiati emettono suoni puntillistici variandone attacco e durata. A 6′ 08" nuova cesura, poi i suoni riprendono, lungo, soffiato, la tromba, con un ingresso drammatico del sax basso, con l’inconfondibile attacco mitchelliano in gamma bassa e alta. A 9′ 16" taglio, passaggio, poi si torna a una dimensione "narrativa" barocca, con unisono, e unisono imperfetto, con il crearsi di bellissimi battimenti tra sax alto e tromba. Taglio su un accordo.

Dancing In The Canyon vede Mitchell, Taborn e Baku per un brano interamente improvvisato. Ha inizio con piccole percussioni, seguono tracce di sintesi. A 3′ 33" percussioni, pianoforte, sax alto, e un rullante sonoro con cordiera. Batteria "free" con cordiera, piatto ride e una bella sottolineatura della cassa. Il pensiero va a quella definizione della musica newyorchese free quale "Triple fortissimo all the time" ma qui non siamo distanti dal "tutti" della Note Factory. Sovracuti, coda per piano e percussioni.

EP 7849 vede l’elettronica di Taborn e il basso elettrico di Shahid quali protagonisti. Apre con synth in zona bassa, botti percussivi, piatti, tamburi, a 3′ 31" un innesto solista melodico che pare proprio un basso elettrico filtrato per un insieme sorprendentemente frippiano (!).

Bells For The South Side vede James Fei al clarinetto contralto, Ragin al "piccolo trumpet" e Sorey che suona da dentro la "percussion cage". Campanello della porta, sirena, un delicato episodio percussivo, innesto di piccolo trumpet. A 4′ 22" modulazioni in gamma bassa, borbottii di un clarinetto ligneo – un momento senz’altro, e diremmo sorprendentemente, braxtoniano, con clarinetto e synth. A 7′ 58" ritorna il piccolo trumpet su sfondo percussivo. Si chiude con una lenta sfumatura che chiude bene anche il primo CD.

Prelude To The Card Game, Cards For Drums, And The Final Hand apre il secondo CD mettendo in risalto Jaribu Shahid e Tani Tabbal, ma soprattutto quest’ultimo. Un attacco che per Mitchell è quasi "bluesy" (!) al sax alto su uno sfondo di contrabbasso suonato con l’arco a fare da pedale. A 4′ ca. parte un assolo di batteria dove è agevole trovare precise figure. Timbro rock! A 14′ 16" torna l’alto concitato, il contrabbasso  pizzicato, la batteria. Cadenza! Chiusa!

The Last Chord ha un’apertura con campane tubolari, pianoforte, percussioni, tamburi, trilli pianistici, clarinetto, sovracuti del soprano, si accelera nello stile della Note Factory, tromba, e a 6′ tutto si interrompe per un momento mariachi che ci ha ricordato Lester Bowie. Rullante-cassa, piatti, assolo batteria-percussioni, con le note di basso elettrico pizzicato "stoppate", woodblock, a 9′ ca. pianoforte. A 11′ 13" Mitchell in respirazione circolare porta il brano a conclusione.

Six Gongs And Two Woodblocks vede Fei and Winant. Sax soprano a note singole, sintetizzatore, percussioni. Facilmente percepibili delle sequenze di note "rispecchiate" dal synth. A 3′ 05" una nenia nordafricana in respirazione circolare, una modulazione bassa più qualcosa che timbricamente ricorda un modulatore ad anello, sovracuti, frasi a note singole a fronte di un muro sintetico che ci ricorda il Richard Teitelbaum dei tempi del Moog modulare. A 6′ 35" campanelli, cesura, percussioni, e a 7′ 05" ca. tema e chiusa.

R509A Twenty B vede ancora Fei e Winant. Due soprani, diremmo, con note "ammaccate", tamburi, due minuti di pura intonazione mitchelliana.

Red Moon In The Sky mette in mostra l’elettronica di Fei e Taborn. Attacco elettronico combinato, particellare, a 5′ 20" attacco di tromba, pianoforte, rullante, percussioni, sax basso, il brano si arricchisce gradualmente in senso percussivo, a 10′ 15" ritornano sax e tromba, e un bel rullante free. A 12′ 14" sax basso, con una cadenza insistita, la tromba, le percussioni, un pienissimo: tromba, trombone, alto, colpo di piatto! e a 17′ 10" parte…

Odwalla in uno stile "latino" che sulle prime ci ha riportato alla mente gli Steely Dan (!). Tema per fiati, pianoforte. Tra 18′ 55" e 19′ 05" il tempo sorprendentemente "vacilla". A 19′ 35" Mitchell fa un breve assolo e presenta i musicisti, chiamati a "presentarsi" sonicamente, ai quali a volte si sovrappone.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2017

CloudsandClocks.net | Aug. 8, 2017