Intervista a
Jim McAuley
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di Beppe Colli
March 19, 2009
Ascoltato grazie a una combinazione del tutto fortuita,
l’album di duetti di Jim McAuley intitolato The Ultimate Frog ci è piaciuto
in misura che di questi tempi diremmo poco comune, bella miscela di linguaggi
musicali che riconoscevamo come noti ed elementi sufficientemente inusuali
da farci chiedere cosa sarebbe successo di lì a poco (che diremmo essere
una definizione accettabile di "progresso con qualche chance").
E dato che sulla copertina del CD c’era un indirizzo e-mail
abbiamo deciso di contattare il musicista (che avevamo da perdere?) e di
chiedergli di fare quattro chiacchiere, e fortunatamente McAuley ha accettato
la nostra proposta.
Dopo aver visto un po’ di cose sulla vita musicale di McAuley
il nostro problema non è stato più cosa chiedergli, ma da dove cominciare.
Al lettore decidere se la conversazione si è svolta in modo soddisfacente.
L’intervista è stata realizzata via e-mail durante la prima
metà di marzo.
Il tuo nuovo album, The Ultimate
Frog, presenta quattro duetti strumentali molto diversi tra loro sia
in termini di strumentazione che di approccio musicale. Quale la logica
che ti ha indotto a scegliere proprio questi musicisti – e queste esecuzioni
– e a presentarli come un tutto?
Devo dire che questo progetto si
è evoluto per stadi. Nel 2002 ho avuto l’incredibile onore e piacere di
registrare alcuni duetti con la leggenda della free-music Leroy Jenkins.
Abbiamo realizzato pezzi in numero sufficiente da riempire un intero CD,
tutti completamente improvvisati. Ma a quel tempo ero nel bel mezzo della
registrazione del mio CD solo – Gongfarmer 18 – e quindi le mie energie
erano dirette a finirlo e a cercare qualche etichetta interessata a pubblicarlo.
Nel 2005, quando quell’album in solo fu pubblicato, sono ritornato sul
materiale inciso con Leroy e ho capito che per quanto mi piacesse l’idea
di un album totalmente improvvisato quei pezzi avrebbero potuto avere un
impatto maggiore se fossero stati "incorniciati" da materiale
di natura più composta. Evidentemente non sono un purista fanatico dell’improvvisazione!
Allora ho contattato il bassista Ken Filiano. Ho sempre amato la varietà
e la musicalità del suo modo di suonare, e inoltre lui è in grado di suonare
con swing e anche in modo sentito e pieno di soul. Dopo le nostre session
le cose hanno davvero cominciato a muoversi in modo frenetico!
Ho realizzato che i miei momenti
di improvvisazione più riusciti ed euforici all’interno di un ensemble
hanno sempre visto la partecipazione di uno dei fratelli Cline. Mai di
tutti e due, e mai in un formato in duo. Così forse è stato a causa di
una falsa impressione di importanza, ma se questa doveva essere la mia "parola
definitiva"
in fatto di duo, allora perché non includere i due musicisti che più ammiro
e con i quali ho il rapporto migliore? Così ho registrato con Alex e Nels
nel 2007 – tutta una serie di cose che andavano dall’improvvisazione totalmente
free a una vera sequenza di accordi (per me era la prima volta)! Naturalmente
avevo tonnellate di materiale da cui scegliere, ma ho sentito che se fossi
riuscito a metterlo in sequenza in maniera efficace avrebbe potuto essere
un doppio CD valido.
Alcune esecuzioni sono ovviamente
improvvisate – alcune lo dicono fin dal titolo. Ma sono curioso a proposito
della quantità di preparazione – ammesso che ce ne sia – di alcuni duetti,
specialmente quelli con il bassista Ken Filiano.
I pezzi intitolati Improvisation
sono tutti free duet con Leroy, numerati secondo l’ordine in cui sono stati
registrati. Ken e io abbiamo fatto una breve prova prima di registrare.
Avevo preparato alcune idee – riff, tonalità, delle mappe generiche – ma
niente di troppo specifico. Per esempio, Successive Approximations è totalmente
free, mentre The Zone of Avoidance è completamente basata su una scala
minore melodica in tonalità di Mi con una sequenza di accordi quale "tema".
Sono curioso di sapere qualcosa
su questa "prepared marquette parlor guitar" – che cos’è questa
marquette, o Marquette, una marca? E che ha di tanto speciale?
E’ molto speciale da un punto di
vista personale dato che è stata la mia prima chitarra. E’ venuta dal seminterrato
di un amico di famiglia. Non sono mai riuscito a scovare nessuna informazione
sulla marca, ma ritengo che sia uno di quegli strumenti di poco prezzo
venduti nei grandi magazzini negli anni Trenta e Quaranta. E’ piccola (ha
dodici tasti fuori dal corpo) e ha le chiavi incassate un po’ come le prime
Washburn. Ho sempre amato il suo suono risonante e ho cominciato a prepararla
quando mi sono unito all’Acoustic Guitar Trio (con Nels Cline e il defunto
Rod Poole). Tra parentesi, ho scelto deliberatamente di limitare la mia
preparazione ai tipici accessori di chitarra: plettri, capotasti mobili,
attrezzi per l’accordatura, slide, ecc.
Vedo che hai usato anche il Marxophone
(il cui suono mi è familiare dai tempi del primo album dei Doors, anche
se allora non sapevo cosa fosse), ma non riesco a decidere dove – forse
su Froggy’s Magic Twanger? O sono chitarre preparate?
Il Marxophone era uno strumento
di nuovo tipo che veniva venduto porta a porta ai primi del Novecento.
Di fatto è come un autoharp o uno zither a tastiera. Lo uso su Froggy’s
Magic Twanger (riaccordato su due scale a toni interi). Su quel pezzo Nels
suona due chitarre preparate accordate in modo analogo tenendole sulle
gambe e usando i suoi tipici sbattiuova e anche delle slide, ecc.
Se le mie informazioni sono corrette
a metà degli anni Sessanta eri già un uomo. Quindi mi piacerebbe rivolgerti
delle domande molto specifiche. Conoscevi il lavoro di gente come Dave
Graham e Bert Jansch, nel Regno Unito, o di gente come Robbie Basho e
John Fahey negli Stati Uniti? Parlamene.
Negli anni Sessanta ascoltavo Bert
Jansch, John Renbourne, John Fahey, Robbie Basho e Sandy Bull. Ho saputo
dell’esistenza di Davy Graham molto dopo. Ero attratto tanto dall’eclettismo
e dall’integrità della loro musica quanto dal loro evidente virtuosismo.
E’ solo da poco che i generi hanno cominciato a mescolarsi di nuovo (post-modernismo?),
il che ha reso la mia musica – che ha sempre incorporato elementi di classica,
jazz, folk e blues – più al passo con le tendenze moderne.
Se ascolto la musica degli anni
Cinquanta e Sessanta quello che sento – ovviamente è un elemento tra
molti – è un senso del luogo, come se la musica avesse un profumo specifico
proveniente da un luogo preciso, una cosa che forse potrei chiamare
"regionalismo". Pensi che allora esistesse davvero? E oggi?
Sebbene buona parte del regionalismo
degli anni Sessanta – il "San Francisco sound", ecc. – fosse
essenzialmente un’etichetta di marketing, in questo concetto c’è in effetti
un grano di verità. "The East Coast blues sound" di Mike Bloomfield
o Paul Butterfield era diverso dal "West Coast style" di gente
come Canned Heat o Taj Mahal. A quel tempo ero particolarmente innamorato
della scena folk-rock-pop di Los Angeles che aveva al centro i Byrds, i
Love, Brian Wilson e così via. Sebbene oggi possa avere ancora senso parlare
di una "British non-idiomatic improvisation" o di un "Norwegian
death metal" si tratta di etichette che hanno rilevanza più per i
fan accaniti che per il pubblico di ascoltatori in generale. Diventa abbastanza
privo di senso discutere di "regionalismo" in un’epoca di collaborazioni
internazionali via Internet, per esempio. Personalmente preferisco ascoltare
musica senza avere alcuna conoscenza o aspettazione riguardante la sua
origine.
Parlando di John Fahey (ho letto
che sei stato sotto contratto con la Takoma ma che niente è stato pubblicato):
sei rimasto sorpreso da quell’improvviso scoppio di popolarità prima
che morisse? Voglio dire, a un certo momento non lo conosceva proprio
nessuno.
Mi sono assicurato il contratto
con la Takoma grazie a un demo che comprendeva slide blues, pezzi
gospel, danze del Rinascimento, una cover di Van Morrison, Round Midnight
e del bluegrass. Quindi sono stati aperti al mio eclettismo. L’approccio
di Fahey era molto più focalizzato, tuttavia all’interno di uno stile molto
personale c’era ancora spazio per i raga, i collage sonori, il blues e
il country. Sì, sono stato molto sorpreso di vedere la sua foto sulla copertina
di The Wire, ma sospetto che la sua tarda popolarità sia stata in parte
dovuta al suo stato di "artista di culto", cosa dovuta alla sua
iniziale oscurità. Se fosse stato molto popolare negli anni Sessanta credo
che oggi sarebbe visto in modo diverso. A ogni modo, è stato un artista
davvero dotato e unico in tutta la sua carriera.
Negli anni Sessanta hai lavorato
in studio con Don Costa, a fianco di gente come Tommy Tedesco. Pensi
che l’assenza dell’"elemento umano" che invece era prevalente
a quei tempi renda più sterile oggi ascoltare musica mainstream?
Se ti riferisci all’uso dei suoni
sintetici, ti rispondo con un sonoro "sì"! Ma non è proprio questa
"lustra levigatura" – la precisione del suono – una parte del fascino
della pop music? Oggi l’elemento umano si trova più nella voce e nel testo.
Se ti riferisci alla pratica post-moderna del campionamento credo che il
punto focale si sposti verso l’ingegno e la musicalità del mixer/producer.
Da cui, la popolarità dei re-mix. Oggi siamo attratti dalle infinite possibilità
di combinare i suoni piuttosto che dai suoni stessi. E gli stessi suoni campionati
evocano delle risonanze emotive in quelli di noi che sono tanto vecchi da
conoscere la loro origine!
In passato gruppi come i Led
Zeppelin funzionavano di fatto come popolarizzatori di "generi di
minoranza" ai quali per il pubblico mainstream non era facile accedere
in modo diretto. Ritieni che questo ruolo esista ancora? E che mi dici
della
"sete di cose nuove" da parte del pubblico?
Nei miei giovanili giorni
"puristi" sono stato profondamente offeso da quello che percepivo
come il furto operato dagli Zep ai danni degli artisti blues. (Stranamente
ho cominciato ad apprezzarli di più quando sono diventato più vecchio.) Ma
la pratica di appropriarsi dei generi di minoranza e di rimpacchettarli come
"nuovi" continua fino a oggi, e ancora mi sembra più uno sfruttamento
che un’opera di popolarizzazione. E con il facile accesso a Internet non
ci sono scuse per non cercare gli originali.
Per quanto riguarda gli appetiti
del pubblico ho notato un deciso spostamento di enfasi dal "familiare"
all’"esploratorio". Anche questo è un risultato della democratizzazione
della musica dovuta a Internet. L’accettazione mainstream della "world
music" è un altro segno che oggi alcuni ascoltatori cercano suoni non
familiari piuttosto che l’offerta omogeneizzata dei Top 40.
Qual è stata la lezione musicale
più importante che hai mai ricevuto? Intendo dire, se ti venisse chiesto
di sceglierne solo una.
Mi è venuta dal clarinettista John
Carter, che considero un vero genio della musica improvvisata. Lo chiamo
il mio mentore, anche se insieme abbiamo fatto solo poche lezioni in senso
formale. La lezione che mi ha impartito è stata di dedicare il mio tempo
destinato alla pratica dello strumento all’atto della stessa improvvisazione,
e non a memorizzare scale e frasette. Questo è molto difficile per un aspirante
musicista di jazz che vuole sviluppare i "muscoli". Ti trovi
a combattere la naturale inclinazione a sviluppare e rifinire le tue idee.
Perfino nella "free music" (almeno per me) è difficile resistere
alla tentazione di ricorrere a qualche frase che ha fatto bella figura
la sera prima – che è una cosa che poi non funziona mai dato che il contesto
è tutto. Io scopro che le mie migliori esibizioni dal vivo sono quelle
in cui posso seguire la musica ovunque mi conduca senza alcun riguardo
per il materiale pre-arrangiato (quello che John chiamava "il materiale
che tieni nella tasca di dietro").
Oggi Internet rende possibile
a un "artista oscuro" l’essere trovato e ascoltato. Sfortunatamente
un sacco di gente ha sviluppato la seccante abitudine di scaricare roba
senza pagarla. Discuti questo punto.
Ho molte opinioni al riguardo (a
volte in conflitto tra loro), ma complessivamente ritengo che i benefici
conseguenti alla democratizzazione della musica dovuti a Internet siano
maggiori delle iniquità inerenti allo scarico illegale. Nel mio piccolo
angolo di music "business" non c’è proprio nessuno che si aspetta
di ottenere alcun profitto finanziario dai prodotti registrati. E io sono
contento del tramonto del dominio delle grosse aziende dell’industria discografica;
nemmeno loro hanno mai compensato davvero i loro artisti. Chissà che un
qualche modello giusto di distribuzione non emerga in futuro. Per adesso
sono davvero contento che la mia musica sia disponibile per chiunque sia
interessato ad ascoltarla.
Progetti futuri di cui vuoi parlare?
Non ho alcun desiderio di imbarcarmi in un altro progetto
di studio di tanto impegno per un bel pezzo. E’ possibile che io pubblichi
delle performance dal vivo e/o delle registrazioni casalinghe in un formato
o nell’altro (tra parentesi, puoi sentire alcuni dei miei nastri di "pratica
casalinga" all’indirizzo longsongrecords.com). Attualmente la mia piena
attenzione è diretta a sviluppare e suonare materiale nuovo. Il mese prossimo
suono in un paio di festival, ed è possibile che quest’estate io faccia dei
concerti in solo. Spero anche che questo album di duetti apra la porta a
collaborazioni future e a nuove esperienze musicali.
© Beppe Colli 2009
CloudsandClocks.net | March
19, 2009