The
People’s Music
By
Ian MacDonald
Pimlico
2003, £10, pp272
Se assumiamo quale ambito di riferimento quello di "critica
rock" il concetto di "notorietà" acquista connotazioni
decisamente elastiche. Ian MacDonald è però un critico
che nel panorama anglosassone occupa un posto particolarissimo – e a
ben vedere paradossale. Da un lato, infatti, nonostante una lunga carriera
– Assistant Editor del settimanale New Musical Express nel periodo 1972-1975,
poi stimato freelancer per una serie di testate di buona visibilità
– il suo non è certo il primo nome che viene in mente se si parla
di critici rock inglesi, laddove i candidati più prossimi sono
molto probabilmente Nick Kent, Charles Shaar Murray e Simon Frith (in
senso storico), e poi David Toop e Simon Reynolds. Dall’altro, il libro
intitolato Revolution In The Head – The Beatles’ Records And The Sixties,
originariamente edito nel 1994, e rivisto nel ’97 (è stato tradotto
anche in italiano), viene unanimamente considerato una vetta nello studio
della musica del quartetto di Liverpool – e della "popular music"
in generale. E proprio MacDonald ne è l’autore. Alla base di
questo successo caratteristiche di impostazione del lavoro critico che
sarebbero già lodevoli qualora presenti singolarmente, ma che
hanno quasi del miracoloso qualora compresenti: un accurato studio musicologico
delle composizioni del quartetto (includendo ovviamente il complesso
e innovativo lavoro di studio); le vicende personali dei protagonisti
e il loro legame con le canzoni; un quadro musicale di riferimento (e
i conseguenti interscambi) tratteggiato in maniera precisa e percettiva;
la cornice politico-sociale e di costume dentro la quale queste musiche
andarono a collocarsi e sulla quale influirono. Se tutto il libro è
ricco di notazioni acutissime, la lunga Introduzione e la Nota alla
Cronologia posta in chiusura costituiscono un affresco di ricchezza
e originalità con pochi termini di paragone.
Una lusinghiera recensione apparsa su The Guardian ci ha allertato
in merito all’esistenza di questo The People’s Music, raccolta di scritti
(articoli, profili, recensioni) di lunghezza variabile già apparsi
su riviste quali Uncut, Mojo e Arena. "A chi è destinato
questo libro?" è una domanda che solitamente appare in chiusura
di recensione, ma che per una volta è sensato anticipare. Se
gli artisti trattati sono estremamente diversi per linguaggio, stile,
notorietà, rilevanza, fortune, pure una cosa hanno in comune:
la parte più fertile e innovativa del loro lavoro si situa nel
passato. E qui vanno immediatamente dette due cose. La prima è
che la trattazione di MacDonald beneficia sempre di una riflessione
"al presente"; il che può sembrare alquanto banale,
se non si riflette sul fatto che esistono non pochi critici "storici"
("quelli che c’erano") che al momento di trattare del passato
ripropongono pari pari le argomentazioni (quando non gli scritti!) della
loro ormai lontana gioventù, con effetti che sarebbero comici
se non fossero disperanti. La seconda è che, quali che siano
i motivi (una discussione in merito ci porterebbe lontano, ma possiamo
dire che il volume avanza delle precise ipotesi di lavoro), è
ormai dimostrato con strettissimi margini di incertezza che il fascino
esercitato dagli artisti "classici" è duraturo e tutt’altro
che limitato ai fan più anziani (i dubbiosi si scomodino ad accertare
l’età di chi compra questi dischi e i giornali che tali artisti
mettono in copertina); cruciale, quindi, che il senso e (attenzione!)
il contesto – che nei dischi ovviamente non c’è – siano affidati
a chi meglio può ricostruirli per noi.
Posti
rispettivamente in apertura e chiusura del volume, i lunghi saggi dedicati
a Bob Dylan e a Nick Drake non sembrano promettere bene – sul primo
si è scritto troppo da sempre, sul secondo moltissimo in troppo
poco tempo – ma Ian MacDonald riesce a mettere insieme informazione,
ottica e interpretazione personale in modo egregio. Tutti i restanti
scritti offrono svariati motivi di interesse e anche qualche sorpresa
– si veda la valutazione della personalità e del lavoro di Marvin
Gaye. I Beatles vengono rivisitati nella partnership musicale Lennon/McCartney,
nella celebre fase psichedelica e nell’antologia del Lennon "americano",
mentre dei rivali Rolling Stones si fa il punto avendo sullo sfondo
gli anni sessanta. Orecchie acute esaminano gli Chic; quel Gaucho che
fu capitolo conclusivo degli Steely Dan (che emozione vedere un critico
che mette a paragone il vinile e DUE versioni su CD!); il recentemente
rivalutato Forever Changes dei Love; i Beach Boys; il periodo "mistico
alla coca" di David Bowie; ovviamente Hendrix; meno ovviamente
Laura Nyro; e ci sono anche gli Spirit e The Band del disco d’esordio.
Sottovalutazioni per chi scrive dolorose: Cream e Jefferson Airplane.
Acuta l’analisi del davisiano Filles De Kilimanjaro, decisamente originale
il pezzo sul minimalismo, assolutamente controcorrente la prospettiva
sull’automazione in musica.
La
breve introduzione al volume offre alcuni avvertimenti, fra i quali
quello che così recita: "Un aspetto di questo volume che
è innegabile è la sua prospettiva che la migliore "popular
music" realizzata nel periodo preso in considerazione fu fatta
durante gli anni sessanta, quando il rock era al suo apice sia come
forma d’arte nuova, ancora mezza inventata, sia come ricettacolo di
impulsi sociali ribelli." (pag. viii). E questa è un’asserzione
che per alcuni sarà senz’altro motivo sufficiente per riporre
il libro e passare ad altro. Ma la storia non è così semplice
(fatta eccezione per chi deve assolutamente vendere i prodotti del giorno,
pena il fallimento, e per chi si chiede cos’abbiano fatto in definitiva
i Rolling Stones oltre a riscoprire il blues). The People’s Music –
lo scritto che dà il titolo alla raccolta e che appare quasi
in fondo al volume – fornisce la chiave di lettura di tutto ed è
lo sfondo per ciò che nel libro appare e per quello che – pur
menzionato – è presente soprattutto per implicazione. Laddove
alcune linee di tendenza situate a livello macro rendono conto di alcuni
fattori estetici – ad esempio la parte sempre crescente riservata all’ironia
e alla nostalgia – in modo molto più convincente delle proverbiali
"questioni di gusto".
L’inglese
adoperato è discretamente colto ma senz’altro comprensibile –
certamente molto più di certe elucubrazioni in stile "cortina
fumogena" di Wire e imitatori – sol che non sia andata persa la
voglia di leggere e capire.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2003
CloudsandClocks.net
| July 22, 2003