Shelby Lynne
Just A Little Lovin’
(Lost Highway)
"Tra
parentesi, sei un fan di Shelby Lynne? Sta per pubblicare un album che
è un tributo a Dusty Springfield – fa degli arrangiamenti asciutti, suggestivi,
di canzoni di Dusty…"
La frase
appena citata chiudeva un messaggio proveniente dagli USA, e da noi ricevuto
proprio sul finire del 2007, dove si esprimeva gioia per il fatto che –
cinque anni dopo – Clouds And Clocks fosse ancora in piedi. Beh, un album
con
"arrangiamenti asciutti e suggestivi" di canzoni che erano state
originariamente interpretate da, e quindi facevano venire in mente, Dusty
Springfield, ci sembrava una proposta decisamente allettante. E poi, se cantate
da Shelby Lynne… "Ma un momento…" – ci siamo detti – "Chi
diavolo è questa Shelby Lynne?".
Dusty
Springfield ce la ricordavamo bene. Essendo stati ascoltatori sfegatati
della radio a metà degli anni Sessanta era giocoforza avere familiarità
con lei e con le canzoni che cantava. Ricordiamo chiaramente i successi
di allora: I Only Want To Be With You, You Don’t Have To Say You Love Me
(versione inglese di una canzone italiana che odiavamo profondamente),
Anyone Who Had A Heart, The Look Of Love e così via. Ma mentiremmo se dicessimo
che era stato un amore a primo ascolto, per un motivo che è ben illustrato
da una foto che appare in un libro sui Rolling Stones intitolato The Rolling
Stones – An Illustrated Record, a firma Roy Carr. La foto (è a pagina 34)
mostra i vincitori dell’edizione del 1965 del Poll del settimanale anglosassone
New Musical Express: ci sono Mick e Brian degli Stones, Tom Jones, Cilla
Black, Dusty Springfield, Kathy McGowan, più nomi assortiti. Ora, mentre
Mick e Brian hanno un aspetto davvero
"hip", e Tom Jones sembra una versione casalinga e di dubbia autenticità
dell’"hip", sia Cilla Black che Dusty Springfield hanno l’aspetto
delle amiche della mamma, con acconciature impossibili, ciglia finte e via
dicendo. Chiaramente, non "hip"! E questa è esattamente l’impressione
che le loro canzoni ci facevano a quel tempo.
Occorre
una certa dose di maturità, diremmo, per essere in grado di apprezzare
la qualità in una performance vocale. Ma sebbene Dusty Springfield fosse "una
credibile soul singer", come ci ha detto recentemente un amico quando
gli abbiamo detto di questo nuovo CD di rifacimenti, quella era un’epoca
in cui scrivere le canzoni che si cantavano costituiva prova di autenticità;
e inoltre, i cantanti che dovevano contare su materiale esterno erano ovviamente
alla mercè di quello che passava il convento – per non parlare di produttori
e arrangiatori. E poi, a noi la Motown non piaceva granché, e in ogni caso
preferivamo i Four Tops ai Temptations. Mentre eravamo dei fan della Stax/Volt.
E poi ci fu Aretha, ovviamente.
Quindi
non può sorprendere che ci piacesse molto Son Of A Preacher Man, una nuova
canzone che ci capitò di ascoltare alla radio più avanti nei Sessanta.
Qui la cornice che circondava la voce di Dusty Springfield (perché era
lei a cantarla) era completamente mutata, con quelle enormi sezioni di
archi, i timpani e i pesanti ottoni rimpiazzati da un suono più snello
e funky. Ovviamente non possiamo sottovalutare il nuovo team di produttori,
la scelta delle canzoni e quelle brillanti prestazioni vocali. Tutte cose
che rendono Dusty In Memphis un classico. (Non fummo sorpresi, qualche
anno fa, quando sentimmo l’album venire suonato mentre aspettavamo che
Elvis Costello salisse sul palco, Costello avendo scritto le note di copertina
dell’edizione del 2002 di Dusty In Memphis.)
Dopo
Dusty In Memphis (un album che all’epoca della prima pubblicazione non
vendette molto ma la cui statura non ha fatto che accrescersi nel tempo)
ci capitò di ascoltare pochissime cose di Dusty Springfield, e poi nulla
fino alla fine degli anni Ottanta, quando i Pet Shop Boys riportarono il
suo nome alla ribalta, rendendolo nuovamente "hip". Ciò poco
prima della sua morte prematura, avvenuta nel 1999.
Arrivati
a questo punto ci potremmo fare una lunga chiacchierata sul Rock e il Pop
e quello che vogliono dire. Dobbiamo confessare che è ormai da molto tempo
che siamo profondamente perplessi riguardo alla sopravvivenza – ma forse
sarebbe più appropriato dire il prosperare – del Pop, un genere che già
molto tempo fa sembrava in punto di morte. Non abbiamo mai capito gli Abba
– e fummo molto sorpresi, a dir poco, quando leggemmo quella cover story
di Musician nella quale sia Robert Fripp che Joe Strummer (tra parentesi,
era il primo che intervistava il secondo) avevano espresso profonda ammirazione
per il quartetto svedese. E neppure siamo della scuola "fa così schifo
che è bello". Rimanemmo ugualmente perplessi per l’emergere di intere
correnti che traevano ispirazione non dalle qualità formali della buona
musica degli anni Sessanta (piccole e trascurabili cose quali melodia e
armonia) ma dai suoi elementi più coreografici – cose quali i bonghi, gli
organetti di poco prezzo, i cocktail martini e così via.
Eravamo
discretamente sicuri di avere già letto il nome di Shelby Lynne – ma dove?
Quasi per caso ricordammo che la Lynne era stata la vincitrice di un Grammy®
quale Best New Artist nel 2001 per l’album intitolato I Am Shelby Lynne
(sebbene quello fosse il suo sesto album!). Ci eravamo occupati dell’edizione
del 2001 dei Grammy® in quanto gli Steely Dan ne avevano vinti ben quattro
per l’album del loro ritorno discografico, Two Against Nature. Ricordiamo
vagamente di aver letto di una cantante, Shelby Lynne, che aveva fatto
una scenata o qualcosa del genere. Ma il nostro interesse per lei era cessato
non appena avevamo saputo che era una "country singer" (le ore
trascorse ad ascoltare l’American Country Music Countdown sono senza dubbio
tra le più tristi della nostra vita – a proposito di Pop!).
Ci abbiamo
perso. Shelby Lynne sembra avere fatto della musica davvero interessante
– accanto a qualche scelta davvero bizzarra. Ovviamente biografia e informazioni
sono facilmente reperibili in Rete. E così, dopo aver ricevuto quel messaggio
dagli USA di cui s’è già detto siamo usciti e abbiamo comprato (l’unico
album disponibile nella nostra città – popolazione 380.000 ca.) Identity
Crisis, auto-prodotto e relativamente spoglio, pubblicato nel 2003. Laddove
Shelby Lynne canta molto bene, suona delle belle parti di chitarra (tutte
le parti di chitarra: acustica, elettrica, slide…), scrive delle belle
canzoni che stilisticamente vanno dal country al blues al gospel a… Canzone
Easy Listening Con L’Orchestra Degli Anni Sessanta?, tutte con uno stile
vocale efficace ma asciutto, mai troppo ricco, e senza mai sovraccaricare
in emozione. (Ci viene detto che il suo album da prendere per primo è forse
quel Grammy® Winner I Am Shelby Lynne – ci faremo un pensierino più avanti.)
(Crediamo
che qualcuno sarà rimasto colpito dal nostro uscire e comprare un album
di un artista ignoto con tanta facilità – soldi facili, eh? Dobbiamo dire
di aver scoperto che il segreto per un buon uso del proprio tempo è aver
fiducia in persone la cui opinione rispettiamo. Certo, i gusti esistono.
Ma i suggerimenti casuali di un’armata di completi sconosciuti accoppiati
allo scarico gratuito di qualsiasi materiale di cui ci capiti di sentire
parlare può solo portare a degli hard disk pieni di file che non avremo
mai il tempo di sentire per davvero. E noi non vogliamo ridurci così, no?)
Pare
che a un certo punto la Capitol (l’etichetta di Shelby Lynne) non sapesse
più che farsene di lei, e così venne fuori l’idea di registrare un album
di canzoni
"inspired by Dusty Springfield" (e pare che la scelta sia stata
sua). L’album era appena stato completato quando la Capitol Records cessò
di esistere. Ecco quindi la "boutique label" Lost Highway.
L’album
è stato prodotto da Phil Ramone e registrato e missato da Al Schmitt. Non
ci sono vere note di copertina, ma informazioni largamente reperibili in
Rete, e che speriamo attendibili, lo vogliono registrato nel famoso Studio
A della Capitol, su nastro analogico da 2", dal vivo senza sovraincisioni,
con la voce della Lynne assistita da un glorioso microfono RCA 44.
L’album
si apre con Just A Little Lovin’ (che, lo ricordiamo, è anche il brano
d’apertura di Dusty In Memphis). Dieci pezzi in tutto, uno dei quali scritto
da Shelby Lynne. Più una bonus track. L’approccio scelto è davvero asciutto:
niente archi, niente orchestra, niente ottoni. Solo quattro musicisti:
Rob Mathes al pianoforte e (a quello che a noi sembra essere un vero) piano
elettrico Fender Rhodes™; Dean Parks alla chitarra, elettrica e acustica;
Kevin Axt al basso elettrico e al contrabbasso; Gregg Field alla batteria,
con Curt Bisquera su due pezzi. Quello che si nota immediatamente è l’enorme
quantità di spazio "vuoto", quei lunghi silenzi, l’approccio
scelto dalla produzione essendo ovviamente quello di non "replicare" le
convenzioni dei vecchi tempi, ma di andare all’essenza delle canzoni, cioè
a dire le parti vocali.
Dobbiamo
confessare di avere ascoltato l’introduzione strumentale della prima canzone
dell’album, Just A Little Lovin’, davvero molte volte, quei 48" sono
davvero speciali. Un colpo di piatto, poi un rimshot, un hi-hat (= charleston)
chiuso, poi il piano elettrico, la chitarra elettrica, il basso. La bellezza
timbrica, l’economia di mezzi, tutto ci ha ricordato gli Steely Dan, per
esempio l’introduzione di Babylon Sisters. Qui il fatto che l’hi-hat venga
poi colpito da semiaperto implica un gran senso del "drama".
C’è anche una pausa molto drammatica prima del ritornello, nel silenzio
che va da 1’18" a 1’26". Approccio vocale lento e accurato da
parte di Shelby Lynne, in una performance molto diversa da quella di Dusty
Springfield.
Anyone
Who Had A Heart ha il pianoforte, la batteria suonata con le spazzole,
un rullante che suona davvero grande nello spazio, chitarra e basso elettrici.
La narrativa vocale occupa il centro della scena, triste. Da un punto di
vista vocale senz’altro uno dei picchi dell’album. Una bella nota "tenuta" a
2’47", seguita dall’eco corto della chitarra e dal decay lungo del
piano.
Come
già detto in precedenza, non abbiamo un buon ricordo di You Don’t Have
To Say You Love Me (tra parentesi, i nomi degli autori italiani qui non
sono scritti correttamente). Però dobbiamo ammettere che questa versione
è davvero bella, per nulla melodrammatica (un pericolo tutt’altro che remoto
in circostanze simili).
I Only
Want To Be With You viene rallentata considerevolmente, con un bel trattamento
simil-bossa. Bel piano elettrico, appropriata chitarra acustica. Se la
versione originale suonava piena di giovanile entusiasmo, qui l’approccio
prescelto è appropriatamente più "adulto". A parere di chi scrive,
l’inciso ha più di un tocco di Annie Lennox – il cui vecchio gruppo, The
Tourists, non dimentichiamolo, ebbe un grosso successo U.K. nel 1979 proprio
con un rifacimento di questa canzone.
Il fatto
che dopo tutti questi anni, e tutte le diverse versioni, siamo riuscito
ad ascoltare un’altra esecuzione di The Look Of Love la dice lunga sulla
sua qualità. E tuttavia…
E’ un
modo appropriato di chiudere la Side One. Sì, l’album viene pubblicato
anche in vinile. Una versione che non abbiamo mai visto, ma siamo ugualmente
pronti a scommettere che questo è il pezzo che conclude la Side One.
Se la
Side One era molto buona, la Side Two è perfino meglio. Apertura funky
con la batteria elastica/rilassata di Curt Bisquera, piano elettrico, basso
elettrico, chitarra elettrica nasale suonata con il bottleneck, voce rilassata.
E’ Breakfast In Bed.
Di nuovo
il bottleneck, questa volta sull’acustica, e anche Shelby Lynne alla chitarra,
su Willie And Laura Mae Jones, un vero country-blues con un mucchio di
verve e uno shaker "funky".
I Don’t
Want To Hear It Anymore di Randy Newman mostra una gradevole miscela di
country-blues e un’interessante progressione di accordi. Bel piano, ottima
voce.
L’album
diventa più quieto – e anche più intenso – con gli ultimi due pezzi. Pretend
è una canzone scritta da Shelby Lynne, diremmo piuttosto aperta in quanto
a significato (ma non siamo riusciti a capire tutte le parole). Solo una
chitarra acustica, contrabbasso, e voce. Ci sta alla perfezione.
Il vecchio
successo dei Young Rascals How Can I Be Sure (che non abbiamo mai ascoltato
nella sua versione originale) viene drasticamente riarrangiato rispetto
alla densa orchestrazione della versione di Dusty Springfield: qui solo
una chitarra acustica e una voce, e nessun cambiamento di tempo da una
sezione all’altra. Alcune bellissime note "tenute". Eccellente,
e una chiusa perfetta per l’album.
Wishin’
And Hopin’ è la bonus track, con un suono meno perfetto, più "funky",
del resto dell’album. Ma è lo stesso una buona aggiunta.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2008
CloudsandClocks.net | Feb. 10, 2008