Intervista
a
Mike Keneally (1999)
—————-
di Beppe Colli
March 30, 2003
La prima
volta che abbiamo avuto modo di ascoltare Mike Keneally dal vivo?
Nel 1988 a un concerto romano di Frank Zappa, della cui formazione
Keneally era lo sconosciuto "ragazzino" (il suo contributo
è rintracciabile su album quali Broadway The Hard Way, The
Best Band You Never Heard In Your Life e Make A Jazz Noise Here, più
alcuni brani sui voll. 4 and 6 della serie You Can’t Do That On Stage
Anymore. Ancora meglio, il CD Zappa’s Universe). Ma il suo contributo
in quell’occasione ci risultò oscurato – in senso letterale
– dalla colonna di destra dell’impianto di amplificazione, che ci
impediva di vedere la quasi totalità della sezione fiati –
e il "ragazzino". Durante il concerto Zappa offrì
a Keneally un assolo (cos’era, una Telecaster?), e potemmo così
finalmente vedere questo tipo con un cappello. Un bel solo, tra l’altro
– senza alcun dubbio maturo, e certo non il tipo di assolo suonato
per impressionare e farsi notare.
Alcuni
anni dopo abbiamo rivisto il nome di Keneally, stavolta sulle pagine
della rivista statunitense Guitar Player, dove aveva iniziato a tenere
una rubrica mensile. Vedemmo che il tipo aveva appena pubblicato un
CD. Di lì a poco leggemmo un articolo di Matt Resnicoff su
Musician. E così decidemmo di rintracciare il CD e procedere
all’ascolto.
Da allora
nessun album di Keneally ci ha deluso (ne ha fatti parecchi, e noi
non ci accontentiamo tanto facilmente…). Ovviamente le qualità
che chi scrive trova meritevoli in musica – originalità, varietà,
sottigliezza, padronanza tecnica dello strumento – non sono esattamente
quelle che oggigiorno rendono un musicista conosciuto. Il che è
oltremodo deprimente, dato che la musica di Keneally non è
affatto di difficile fruizione.
Nato
a Long Island, N.Y., il 20 dicembre del 1961, Keneally è un
ragazzo precoce: dapprima l’organo, poi (all’età di dieci anni)
una chitarra elettrica. Il suo primo amore? I Beatles. Quindi la musica
progressive trasmessa da San Diego FM – The Yes Album, Tarkus, poi
i Gentle Giant, i King Crimson e così via – quindi Frank Zappa.
E poi un sacco di altre cose – è il tipo che ascolta tutto.
Quel
primo album – hat. (’93) – regge ancora bene. Già presenti
il suo senso dell’umorismo, quelle impressionanti doti tecniche, uno
stile compositivo già perfettamente maturo, quella varietà
stilistica perversamente non commerciale. Senz’altro da ascoltare,
così come Boil That Dust Speck (’94), lo scuro secondo album.
Half Alive in Hollywood (’96), pur valido, non è però
il miglior punto di partenza per chi non abbia mai ascoltato Keneally.
Se l’eccellente Sluggo! (’97) è l’apice di tutto un periodo,
il lavoro collaborativo intitolato The Mistakes (’95) – con Henry
Kaiser, Prairie Prince e Andy West – è un fantastico album
di musica rock – come il rock dovrebbe essere.
Gli album
successivi hanno mostrato Keneally intento a reinventarsi. Nonkertompf
(’99) è un album solo interamente strumentale del tutto diverso
da qualunque altra cosa abbia fatto, mentre Dancing (2000) riesce
con successo a tradurre la sua visione personale in una dimensione
di gruppo e Wooden Smoke (2001) è un’esplorazione – per la
maggior parte acustica, per la maggior parte in solo – di atmosfere
quiete coronata da successo.
Abbiamo
avuto modo di vedere Keneally in concerto a Groningen, in Olanda,
nell’ottobre del 2001. La prima sera il suo già ampio gruppo,
coadiuvato per l’occasione da alcuni musicisti olandesi, ha eseguito
una versione riarrangiata di Nonkertompf (obbligatorio procurarsi
un nastro), mentre la seconda serata ha visto il gruppo navigare con
competenza l’abituale repertorio.
Le prossime
mosse? Un CD rock, per essenziale quartetto, dovrebbe vedere la luce
tra breve. E c’è anche una commissione per un lavoro orchestrale
– l’appuntamento è ad Amsterdam, il prossimo giugno.
L’intervista
che segue è apparsa in italiano sul # 20, gennaio 2000, della
rivista Blow Up. Avevamo già tracciato un profilo di Keneally
sul # 9, gennaio/febbraio 1999, e decidemmo che una conversazione
su Nonkertompf, allora fresco di stampa, e su altri argomenti, non
era una cattiva idea. L’intervista è stata realizzata mediante
e-mail. Ha avuto inizio a metà settembre (quando Keneally stava
per iniziare le prove per un tour con Steve Vai) e si è protratta
fino a metà ottobre (a tour già iniziato).
Comincerei chiedendoti di Nonkertompf; un album molto diverso dai
tuoi precedenti lavori: niente canzoni, pochi assolo di chitarra, inciso
in solitudine – mi ha colto totalmente di sorpresa. Certo, venendo dopo
hat. mi ci è voluto qualche giorno per inquadrare Boil That Dust
Speck, ma in quel caso la cosa dipendeva dal diverso mood dell’album;
ed è vero che su ognuno dei tuoi dischi precedenti erano presenti
cose "poco tipiche" rispetto all’immagine mentale che mi ero
fatto di chi tu fossi, ma qui direi che è solo in Click che mi
sembri essere "ovviamente tu". Il nuovo album mi è
anche sembrato più apertamente "pittorico" – se questa
è la parola giusta – e in un certo senso un cambiamento di rotta.
Vuoi parlarmene?
Dalla prima volta in cui ho concettualizzato l’album – all’età
di dodici anni – ho sempre considerato Nonkertompf come una svolta (anche
se all’età di dodici anni dovevo ancora formarmi un’immagine
precisa di ciò rispetto al quale sarebbe stato una svolta). E
in accordo con le mie speranze è stato veramente un cambiamento
per ciò che riguarda:
la forma – tutto strumentale, non particolarmente incentrato sulla chitarra,
con molti brani, molti dei quali abbastanza brevi (sotto quest’aspetto
un ritorno a hat. e Dust Speck,
ma in senso diverso – le miniature di quegli album erano perlopiù
di natura umoristica, e l’umorismo non era certo l’obiettivo principale
di Nonkertompf);
il concetto – ho suonato tutti gli strumenti, il che (data la mia scarsa
abilità al basso e alla batteria, nonché alla maggior
parte degli altri strumenti che compaiono, ad esempio il sax elettronico,
il contrabbasso, il flauto, il violino, varie percussioni e così
via – tutti strumenti che suono da dilettante) fornisce un feel particolare,
molto diverso dai risultati che ottengo quando questi strumenti vengono
suonati da musicisti più esperti;
il contenuto – la scrittura (o più precisamente la "scrittura",
dato che la maggior parte dell’album è stata improvvisata e poi
orchestrata) è, credo, considerevolmente più rilassata
su questo album qualora la si paragoni alla mia musica precedente. E’
ovvio che album dopo album sono cresciuto, diventando in un certo senso
più sicuro di me e meno ansioso di impressionare, ma in particolare
con Nonkertompf non avevo nessun tipo di scopo da raggiungere che non
fosse quello di creare un’atmosfera di ricca bellezza, piuttosto languida
e timbricamente varia, interrotta da episodi di allarmante oscurità
e da imperscrutabili ma innegabili momenti di energia e di propulsione.
Quando lavoro a un album, e ancor di più con Nonkertompf, una
delle mie principali priorità è quella di costruire una
"destinazione" sonora che l’ascoltatore consideri un luogo
irresistibile, affascinante, eccitante, inebriante, piacevole da visitare
e al quale ritornare. Durante i primi anni in cui ho realizzato i miei
album solo ho seguito il motto zappiano "Io compongo per me stesso
– se agli altri piace, bene" – ma oggi, anche se ovviamente il
rimanere personalmente soddisfatto rimane per me una cosa essenziale,
ho sempre ben presente il mio pubblico durante tutto il processo di
registrazione e missaggio. (L’interazione coi miei fan consentitami
da Internet è stata per me una grande benedizione.) Per questo
motivo non provo nessuna colpa o vergogna per il fatto che i miei CD
durino il massimo consentito – se riesco a creare un mondo che chi mi
ascolta considera bello mi fa un GRANDE piacere che vi si rimanga per
un po’. La vita è dura, e mi piace dare alle persone qualcosa
che la renda più piacevole. Non ho mai ricevuto una sola lamentela
per il fatto che i miei album siano troppo lunghi, anche se tutti abbiamo
ascoltato CD di non più di cinquanta minuti e che tuttavia sembravano
durare ore e ore. (Non diversamente da questa risposta.) Capisco che
il fatto che la mia musica tenda a cambiare così rapidamente
(per ciò che riguarda stile, orchestrazione, tempo e groove)
da momento a momento è un fattore importante nel far sì
che l’ascoltatore rimanga interessato. Ma sono anche conscio che questo
tipo di approccio può diventare stancante e apparire dilettantesco.
La mia arma in questa lotta è la passione e l’intensità
che provo durante tutti i momenti della creazione del mio lavoro, il
mio credere che la musica sia estremamente valida, e non solo la forma.
Credo con tutto il cuore a ogni secondo di Nonkertompf. Penso – e sono
contento di ciò – che quello che l’ascoltatore percepisce sia
questa passione, e che ciò abbia molto a che fare con l’accoglienza
ugualmente appassionata che l’album sta ricevendo da parte dei miei
fan. Che amo molto.
E’ interessante che tu usi il termine "pittorico" – le parti
più orchestrali di Nonkertompf (ad esempio gli episodi Paprika
e Rake Bannuh) sono degli estratti da una colonna sonora che ho realizzato
all’inizio dell’anno per un network televisivo statunitense chiamato
Court TV. La maggior parte dei brani che ho usato sull’album non sono
stati trasmessi in televisione – sono degli estratti da musiche per
uno show sul famigerato e/o famoso "pietoso assassino" americano
Jack Kevorkian. Inoltre, il fatto che ci sia meno chitarra solista sull’album
è una cosa estremamente intenzionale – non mi sento a mio agio
con l’etichetta di guitar hero attaccata al collo. In effetti
ora è un problema minore di quanto non fosse alcuni anni fa.
Mi reputo molto fortunato per il fatto che il mio lavoro sia non solo
ben accolto ma anche ben compreso da una gran parte di coloro che mi
seguono. Le mie motivazioni non sono un mistero per i miei fan, e la
mia scelta di non concentrarmi sulla chitarra come mezzo di orchestrazione
(la musica mi offre molto più della chitarra!) non è stata
messa in discussione. Internet è stato un mezzo potente per favorire
questa comprensione.
Per me tutto Nonkertompf è MOLTO "ovviamente me" –
è il lavoro più personale e meno soggetto a compromessi
che io abbia mai realizzato.
"Compromesso" è una parola dai molti significati;
ti spiacerebbe chiarire il senso dell’ultima frase?
Conformarsi alle convenzioni della canzone-pop necessita di almeno una
certa quantità di aderenza alla tradizione. Sui miei precedenti
album basati sulle canzoni ho a volte cambiato la forma della canzone
pop fino al punto da renderla irriconoscibile, ma il più delle
volte quel maledetto ritornello ritorna sempre tra i piedi. Certo, a
considerare le cose complessivamente è un piccolo compromesso
(molti artisti devono fare i conti con intromissioni di un certo numero
di persone che non sono coinvolte da un punto di vista creativo, e questo
tipo di problema non mi si è mai presentato nemmeno per un secondo)
ma è pur sempre un compromesso. E’ stato un grande piacere, su
Nonkertompf, poter fare a meno di tutte le nozioni comunemente accettate
di cosa sia una canzone (con una sola eccezione – Self ‘n’ Other ha
una struttura alquanto tradizionale che funziona perfettamente per il
brano) e lasciare che la musica fluisse in accordo soltanto con le mie
idee di cosa fosse bello e coinvolgente e di cosa credevo che i miei
fan più accaniti avrebbero gradito ascoltare.
Hai detto che avevi "solo un paio di brani pronti prima di iniziare
a registrare il disco": vuoi parlare di come vedi il rapporto tra
la composizione/improvvisazione e lo studio di registrazione?
Non ho nessuna formula. Ogni canzone fa storia a sé, ha un modo
unico di venire al mondo. Essenzialmente si tratta di aver fiducia in
se stessi; dopo aver lavorato per molti anni sulla mia musica e su quella
di altri ho sviluppato uno stile di improvvisazione che funzione molto
bene per me quando devo creare le basi per un nuovo pezzo. Adesso riesco
a sentire nella mia mente quel che è essenzialmente una registrazione
completa mentre sto improvvisando su nastro la prima parte di un pezzo.
La mia visione in quei momenti è forte e determinata. Non c’è
alcuna certezza, mentre faccio le sovraincisioni, che il brano che sta
prendendo forma sia lo stesso che avevo in mente durante l’improvvisazione
iniziale – e in effetti ciò è estremamente improbabile
e poco desiderabile; il divertimento consiste nella continua scoperta
di nuove possibilità mentre lavoro, in modo da permettere al
lavoro svolte veloci e inaspettate in territori nuovi ogniqualvolta
mi si presenti un nuovo percorso. Ovviamente non potrei fare nulla di
tutto ciò senza lo studio di registrazione, che vedo in modo
molto strumentale: ecco alcune piste vuote, ecco delle apparecchiature,
userò ciò di cui ho bisogno per mettere su nastro quello
che ho in mente quanto più accuratamente possibile. Spesso non
riesco a ricordare quali effetti uso durante la registrazione, il che
a volte non fa piacere a qualche amante di apparecchiature che mi scrive
volendo sapere come ho ottenuto "quel suono." In studio lavoro
molto rapidamente quando sono ispirato, il che devo dire avviene quasi
sempre (col che non voglio dire che tutto quello che faccio è
meraviglioso, ma ho sempre voglia di fare QUALCOSA quando sono nello
studio – sono molto produttivo), e non appena riesco a realizzare qualcosa
in maniera soddisfacente rimuovo tutti i dettagli dalla memoria e passo
alla prossima cosa da fare. Non ho una concezione romantica dello studio
di registrazione, ma lo amo.
(Importante – niente di tutto ciò sarebbe possibile senza l’imprescindibile
aiuto di altri, in particolare del tecnico dello studio Double Time,
Jeff Forrest – e nel caso di quest’album di Scott Chatfield, che con
le sue tecniche di computer editing e di manipolazione dei suoni mi
ha aiutato a far cambiare forma ad alcune sezioni della musica. Un hurrà
per loro.)
E’ strano sentirti dire "qualche amante delle apparecchiature
che mi scrive volendo sapere come ho ottenuto quel suono", dato
che la prossima cosa che avevo intenzione di chiederti era di parlarmi
del sassofono di plastica che suoni su Blue Jean Baby…
E’ uno dei circa trenta strumenti che il mio amico Bob Tedde mi ha prestato
per realizzare l’album – grazie alla sua gentilezza e al fatto che ha
un garage pieno di strumenti strani Nonkertompf è molto più
ricco di quanto altrimenti non sarebbe stato. Il sax di plastica è
piccolo, grigio e fatto di plastica (è un Casio o un Yamaha,
non ricordo esattamente), può essere connesso in MIDI, e oltre
ad avere un piccolo speaker incorporato ha anche un’uscita diretta,
anche se per Blue Jean Baby abbiamo microfonato lo speaker invece di
usare l’uscita diretta, dato che volevo il suono della stanza (e dato
che mi piaceva il suono di questo piccolo speaker di poco prezzo), e
questo è il motivo per cui puoi sentirmi soffiare e sbattere
le dita sulle chiavi di quest’aggeggio.
La scala e alcuni dei "salti" nella melodia di questo brano
mi hanno ricordato Robert Fripp: ho le allucinazioni?
Non avevo abbastanza controllo né tecnica su quello strumento
per rendere intenzionalmente omaggio o mimare lo stile di qualcun altro
– non avevo altra scelta se non semplicemente di muovere le dita e soffiare!
Quando poi l’ho ascoltato più che sembrarmi frippiano mi ha ricordato
alcune delle melodie, così originali – e per ciò che riguarda
l’uso degli intervalli, acrobatiche – che Frank Zappa ha spesso composto
usando il Synclavier.
Ad ogni modo (chiamiamola una libera associazione da parte mia)…
Sono d’accordo!
…vorrei chiederti di Fripp e dei King Crimson. Hai suonato con
Fripp durante il G3 Tour del 1997: come consideri quell’incontro?
Forse è banale, ma innanzitutto devo dire che lo considero senza
dubbio un grande onore. Robert mi ha invitato a unirmi a lui sul palco
dopo avermi notato assistere regolarmente alle sue performance seduto
tra il pubblico. Devi aver presente quanto fosse particolare il ruolo
che Robert si era scelto per il tour: cominciava a suonare i suoi Soundscapes
proprio nel MOMENTO in cui venivano ufficialmente aperte le porte del
posto dove suonavamo… e questo vuol dire che per uno show che iniziava
alle 8 Robert era sul palco alle 6, il che ovviamente vuol dire che
all’inizio delle sue performance c’erano circa 34 persone tra il pubblico,
una delle quali ero di solito io. (E tante persone tra il pubblico che
affluiva durante la sua performance non avevano idea di chi lui fosse,
e hanno avuto veramente poca pazienza nei confronti della natura rilassata
e graduale dei Soundscapes. Ma io li ho trovati belli – per tornare
nuovamente a una mia precedente analogia trovo che i mondi sonori che
ha creato fossero di natura simile, per densità e bellezza, a
Civilization Phaze III, che io adoro.) Una volta, mentre lo osservavo
suonare, mi guardò e mi fece cenno di raggiungerlo sul palco.
Non fu possibile, in quattro e quattr’otto, senza un accordo precedente,
predisporre il mio amplificatore e suonare, ma accettai il suo invito
la sera seguente, ed è stata una sfida estremamente piacevole
quella di improvvisare melodie sulle trame ondulanti e sui cambiamenti
di tonalità delle sue Frippertronics. Non ho tentato di "fare
degli assolo" sulla musica, stavo esplorando il cuore della musica
per cercare di trovare le melodie che era INEVITABILE apparissero nella
musica in quel momento, e di suonarle sulla chitarra al meglio delle
mie capacità, ancora molto primitive (devo ancora crescere TANTO
sulla chitarra). Fripp ha sembrato gradire, e mi ha rivolto l’invito
di unirmi a lui sul palco ogni volta che io volessi per tutta la durata
del tour, cosa che ho fatto quasi ogni sera. E’ stato un divertimento
assolutamente incredibile.
Cosa pensi, oggi, della musica dei King Crimson – che io credo sia
stata una parte della tua identità musicale? (Se ricordo bene,
moltissimo tempo fa il tuo gruppo suonava One More Red Nightmare; e
su Lightning Roy credo tu abbia citato una frase da Red (il pezzo) –
a circa 7′ e 13’…
Il passaggio di Lightning Roy cui ti riferisci non è una citazione
letterale (almeno, non intenzionalmente!) anche se certamente proviene
da quel mondo, cosa della quale ero consapevole quando l’ho scritto
e registrato. E’ stupefacente che tu ricordi che io abbia suonato Red
Nightmare – è stato 21 anni fa che mio fratello e io l’abbiamo
fatto!
Per ciò che riguarda i King Crimson, sono stati una grossa influenza
e io ero un loro grande fan quand’ero un teenager, ma il mio amore per
loro era di natura quasi esclusivamente intellettuale, non mi coinvolgevano
a un livello emotivo come Frank o Todd Rundgren o gli Yes o molti altri.
Ma preferivo Red, Starless And Bible Black e Lizard, e sono consapevole
del fatto che gli echi di questi album sono presenti nella mia musica.
Oggi ho un enorme rispetto e dei sentimenti molto caldi nei confronti
di Fripp e dei Crimson, e sto comprando tutte le uscite di archivio
dei KC che di recente hanno deliziosamente inondato il mercato. Mi piacciono
tanto per il loro valore storico e per le note di copertina di Fripp
quanto per la musica che contengono, ma come oggetti considero tutte
queste uscite recenti dei Crimson una totale gioia, amo vederli sullo
scaffale. E di tanto in tanto li prendo e li ascolto (specialmente The
Great Deceiver, il quadruplo cofanetto dal vivo della band di Starless
– lì dentro c’è della musica imprescindibile).
Nel momento in cui discutiamo stai per andare in tour con Steve Vai;
vuoi dirmi qualcosa su questo tour, e sul tuo rapporto musicale con
lui? (Tra parentesi, ho letto l’intervista che avete fatto insieme su
Guitar World di febbraio – niente male…)
Quello che mi è passato per la testa durante gli ultimi due giorni
mentre guardavo Steve alle prove è stato (grossa sorpresa) vedere
che incredibile chitarrista sia… è capace di cose che la maggior
parte della gente nemmeno immagina, distratta com’è dalla parte
superficiale della musica di Steve, che è molto scorrevole, levigata,
e orientata sull’hard rock. Lunedì scorso, alle prove, durante
una canzone ha suonato un assolo meravigliosamente sconvolgente per
minuti e minuti, VERA improvvisazione, con un’infinita varietà,
scantonamenti ed esplorazioni affascinanti e coinvolgenti – tutto questo
suonato a una velocità abbagliante, certo, ma non per questo
la cosa risultava minimamente scostante né contraddistinta da
un eccesso di spacconeria. E’ stato semplicemente una meraviglia. Quando
ha finito io l’ho applaudito, lui mi ha guardato con un sorriso imbarazzato
e mi ha detto: "Perché non riesco a farlo sul palco?"
Il mio lavoro con Steve è un compito di sideman; quello che io
ricavo da ciò (oltre all’amicizia di alcune persone meravigliose,
e una paga) è una costante prossimità a distanza ravvicinata
a un chitarrista che mi è di grande ispirazione, e la disciplina
personale che è necessaria per eseguire la sua musica con precisione
– ci sono certe tecniche che sono necessarie per suonare la musica di
Vai (arpeggi ad alta velocità, strani effetti con la leva e con
la manipolazione di dita, corde ecc. – praticamente l’intero repertorio
dell’assalto rock, spesso al massimo dell’intensità) che di solito
non sono necessarie nella mia musica, che abitualmente utilizza tecniche
di esecuzione convenzionali al servizio di una musica che è estremamente
non convenzionale. Ma mi accorgo che suonare la musica di Steve mi rende
capace di suonare le altre musiche con una maggiore sensibilità
e con un profondo rispetto per l’articolazione di ciascuna nota, il
che è in definitiva ciò che rende espressiva la musica.
Steve mi ha fatto un sacco di bene in molti modi. E’ stata anche una
grande sfida, finora forse la più ardua della mia carriera, quella
di prendere undici sue composizioni e arrangiarle e suonarle per solo
piano, per un album che sarà pubblicato in un suo box set al
quale sta lavorando. Il mio primo strumento è stato l’organo,
non il piano, e dar vita a una musica che pensavo rendesse ugualmente
giustizia alla musica di Steve, alla mia visione di come trasformarla,
e alle potenzialità orchestrali del solo piano (cosa che non
mi viene naturale – la mia mano sinistra non è la più
brillante al mondo, e da essa ci si aspetta TANTO in una situazione
di solo piano) ha prodotto mesi e mesi di straziante autoesame al piano.
Non ho ancora ascoltato la versione definitiva, ma sento che sarà
una cosa della quale sarò estremamente orgoglioso – sono già
fiero del lavoro che le ho dedicato.
Se non ti spiace vorrei chiederti dei Mistakes: cosa è successo
al gruppo?
"Il gruppo" non doveva avere un’esistenza che andasse al di
là della registrazione dell’album – gli ostacoli che abbiamo
dovuto superare per coordinare i rispettivi impegni in modo che l’album
potesse essere registrato sono stati inauditi, ma, vivaddio, ne è
veramente valsa la pena. Sono davvero orgoglioso di quell’album, lo
vedo come uno dei picchi della mia carriera. Abbiamo fatto un paio di
concerti nella California settentrionale (Buckethead si è unito
a noi) ma non abbiamo mai visto la cosa con l’occhio rivolto a una carriera
– siamo stati allettati dall’idea di metterci insieme per un periodo
di tempo molto breve e di creare qualcosa quasi dal nulla – avevamo
alcuni pezzi pronti (io ne avevo quattro, Andy due, Henry uno o due
– anche se tutti sono stati trasformati dal lavoro fatto durante le
prove, e io ho messo molto "me" durante il lavoro di sovraincisione)
ma abbiamo anche creato delle cose molto spontaneamente. E’ stato un
esperimento che è venuto veramente bene! Sono sempre contento
quando qualcuno dice che ama quel disco, e non vedo l’ora che più
gente lo scopra negli anni a venire. Sono fiero di avere riportato Andy
all’attenzione di alcuni che non l’avevano sentito per un po’ di tempo.
Lui è incredibile. E sull’album ci sono le mie parti batteristiche
preferite di Praire Prince in assoluto. Henry è semplicemente
fenomenale – il modo in cui i suoi effetti "commentano" quello
che sta loro intorno è veramente originale e tutto da godere.
Un uccellino mi ha detto che c’è l’intenzione di fare un altro
disco – con una formazione diversa. Vero?
E’ stato discusso spesso, ed è qualcosa che spero accadrà.
Vedo Henry abbastanza spesso, e riesco a vedere Andy all’incirca una
volta ogni 18 mesi. Prairie lo vedo meno – credo sia sempre in giro!
Un paio di mesi fa ci siamo incontrati nel backstage a un concerto di
Todd Rundgren ed è stato bello rivederlo. Henry e io abbiamo
pensato di invitare Chris Cutler per il prossimo album (e mi sono tenuto
in contatto con lui, ma i suoi numerosi impegni sono un’altra cosa che
è parecchio difficile da far quadrare!; adoro la concezione di
Chris e la sua musicalità) e di chiamare il gruppo con un altro
nome che non sia The Mistakes. E’ anche nostra intenzione che il prossimo
album sia "grazioso."
Il tuo recente lavoro con Henry Kaiser (cosa della quale non so assolutamente
nulla) ha qualcosa a che fare con ciò?
No, è un altro progetto. Ma è ECCELLENTE. Sull’album ci
sono Henry e Raoul Bjorkenheim (un fenomeno finlandese) alle chitarre,
Michael Manring al basso, Alex Cline alla batteria e io al pianoforte
(e alla chitarra in tre canzoni). La natura del materiale ha a che fare
con l’improvvisazione, anche se Raoul, Michael, Alex e io abbiamo portato
alle session almeno una canzone ciascuno, e abbiamo usato delle cover
quali punti di partenza: un paio di brani di Coltrane, un paio di Miles
e un paio di Zappa. E ovviamente sono stato molto contento di partecipare
alla cosa! E’ stato Henry che ha dato il via al progetto, io ho accettato
molto volentieri di farne parte e credo che sia il mio miglior lavoro
al piano fino ad oggi. Henry ha partecipato a molte cose, e dei problemi
con le attrezzature di studio gli hanno impedito di completare il missaggio
dell’album agli inizi dell’anno, così il disco uscirà
l’anno prossimo. Vale la pena di aspettare; è davvero buono.
Questa, forse, è una domanda un po’ troppo personale; se preferisci,
non rispondermi.
Ti risponderò, ma in breve!
Qualcosa che mi ha colpito sul CD di Nonkertalk è quando Scott
parla di una tua "rinascita creativa che è avvenuta negli
ultimi 18 mesi-2 anni" (spero di aver capito bene quello che dice).
Credo proprio di sì.
Prima mi hai detto che agli inizi aderivi al motto zappiano "Compongo
per me stesso; se agli altri piace, bene" mentre ora quando lavori
hai in mente il tuo pubblico. Cos’è che ti ha fatto cambiare
idea sul rapporto tra il processo compositivo e il pubblico?
I semi del cambiamento furono piantati nel 1996, quando ho iniziato
ad ascoltare molto di più Coltrane. Il processo ha subito un’accelerazione
agli inizi del 1998 quando ho incontrato delle persone che mi hanno
spinto a sviluppare un nuovo atteggiamento nei confronti della vita
e delle emozioni, e contemporaneamente c’è stata una fase di
ascolto molto intenso dei Radiohead, e una abbastanza intensa di Trent
Reznor. La cosa ha fatto nascere in me il desiderio di esprimere nel
mio lavoro pensieri più profondi e universali e mi ha mostrato
dei modi di comunicare più profondamente col mio pubblico. Il
processo è ancora in pieno svolgimento!
Mi rendo conto che è un argomento molto complesso ma, dato
che comunicare "qualcosa" vuol dire comunicare attraverso
una forma, in che modo, ad esempio, il lavoro di Trent Reznor può
far nascere "il desiderio di esprimere pensieri più profondi
e universali" nel proprio lavoro e mostrare "modi di comunicare
più profondamente" col proprio pubblico? E’ una faccenda
di "forme", "modo di presentazione" o cosa?
Se mi vengono offerte queste precise alternative direi "modo di
presentazione", ma non è una cosa che ho intellettualmente
formalizzato tanto in profondità… è stata una reazione
viscerale e molto personale che ho avuto a un doppio set video chiamato
Closure che Trent ha pubblicato l’anno scorso (per essere preciso, il
nastro contiene una serie di video concettuali dei Nine Inch Nails,
non il video live anch’esso presente, anche se è stato divertente
vedere Trent che cantava Broken Hearts Are For Assholes nel backstage
sul video live). I Nine Inch Nails sono ovviamente un’industria di grande
successo, e per molto tempo la popolarità del lavoro di Trent
mi ha impedito di farmelo piacere (per gran parte della mia vita ho
avuto una tendenza istintiva a diffidare di qualunque cosa del mondo
dello spettacolo che piacesse molto alla maggior parte dei consumatori
– una tendenza che ho abbandonato negli anni più recenti). Una
certa sera del gennaio 1998 ho guardato quella serie di video e ho sentito
una sintonia con l’artista che era sicuramente lo stesso feeling che
avevo quando ascoltavo John Coltrane in cuffia. Era quel brivido preciso
che deriva dal sentire gli intenti di un artista superiore, sentire
chiaramente quella voce originale, presentata con chiarezza e senza
sforzo apparente. Nel caso di Trent il messaggio è semplice,
ripetitivo e nichilista (anche se The Fragile ha dei rinfrescanti barlumi
di speranza che fanno capolino tra la rabbia), e per un po’ sono stato
ipnotizzato dall’oscurità della sua visione – ero un grosso fan
dei Crass negli anni 80, e da allora ho spesso trovato affascinante
la rabbia intensa nell’arte (più di recente, il video di Aphex
Twin per Come To Daddy ha avuto un grosso impatto). L’espressione di
quel tipo di rabbia nella MIA arte non mi viene affatto naturale – il
mio modo naturale di espressione è inerentemente più leggero,
anche nei miei momenti più oscuri (per esempio Own su Sluggo!)
– e di questi giorni trovo la rabbia meno sexy di quanto non fosse un
anno fa (non sto diventando come John Zorn). Non credo che sia mio compito
fare un’arte arrabbiata, ma la forza del lavoro di Reznor è stata
una grande ispirazione quando ne avevo bisogno. Mi è stato di
ispirazione il fatto che lui usasse musica e immagini incredibilmente
complesse e vivide per raggiungere emotivamente il suo pubblico, il
che ha rinforzato il mio desiderio di fare la stessa cosa, ma senza
premere i suoi stessi bottoni. E’ troppo facile e logorante per lo spirito
limitarsi a dire in molti modi soltanto "la vita fa schifo"
– cercare di presentare delle alternative creative al negativismo è
un uso migliore della mia energia.
Mentre riflettevo sulla tua posizione ho riletto una cosa che mi
hai detto prima, e ho notato questo passaggio: "La mia arma in
questa lotta è la passione e l’intensità che provo durante
tutti i momenti della creazione del mio lavoro, il mio credere che la
musica sia estremamente valida, e non solo la forma." Credo di
capirlo così: che c’è un "intangibile" (sono
molto esitante ad usare la parola "spirito")…
Io non esito ad usarla!
… "incorporato"… (va bene questa parola?)
Assolutamente.
… nella musica, anche se le due cose sono separabili solo analiticamente
– va bene?
Hmm. Personalmente definisco la forma, in maniera piuttosto elastica,
come "genere". Qual E’ la forma della mia musica? E’ "rock",
forse una sorta di "fusion", alcuni insistono a chiamarmi
"progressive." Non bado mai alla forma del mio lavoro mentre
è in via di creazione. A volte può essere divertente pensare
alla forma che prende il lavoro quando è terminato, ma non è
davvero un mio problema. Non credo di avere una buona risposta a questa
domanda. Credo che ci sia qualcosa di buono e bello e salubre nella
mia musica, e voglio presentarla a quanta più gente è
possibile.
Ma tu credi che le "forme" di Zappa venissero rese "differenti"
dal suo (chiamiamolo) "vedere il pubblico come una parte non-così-necessaria
del processo estetico"?
Sfortunatamente il fatto che io sia in tour (come tu sai bene) sta gravemente
limitando le mie possibilità di dare il mio contributo a questa
intervista estremamente stimolante (che ti ringrazio molto di avere
iniziato), e l’argomento che mi hai appena presentato richiede TANTISSIMA
concentrazione e tempo, nessuna delle quali cose, purtroppo, posseggo
in abbondanza al momento. Se ci dovesse essere un altro scambio di opinioni
tra noi (e spero caldamente che ci sarà) suggerisco questo quale
argomento di apertura.
Ti ringrazio per questa intervista!
© Beppe Colli 1999 – 2003
CloudsandClocks.net | March 30, 2003