Joni
Mitchell
Hejira
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di Beppe Colli
Nov. 9, 2014
Album numero otto del
cammino discografico di Joni Mitchell, Hejira – titolo che di fatto costringe
recensori e ascoltatori alla consultazione di un buon dizionario – giunge nei
negozi di dischi nel novembre del 1976. Per lo più positive, le recensioni
sembrano però procedere tra mille cautele e distinguo; mentre non mancano
ovviamente i pareri esplicitamente negativi. Nome di peso del New York Times,
John Rockwell gioisce: "Joni Mitchell Recaptures Her Gift", titola il
prestigioso quotidiano. Sull’altra costa non è altrettanto convinto Robert
Hilburn, principale critico del Los Angeles Times: "Mitchell Misses Her
Own Mark". Ariel Swartley loda il nuovo lavoro sulla rivista musicale che
conta di più, Rolling Stone, sotto il titolo "The Siren And The
Symbolist". Lo status della musicista è comunque ben testimoniato da una
bizzarra stroncatura apparsa sul settimanale newyorkese The Village Voice,
laddove Perry Meisel conduce un’analisi post-moderna di ardua comprensibilità
sotto un titolo trasparente quale "An End To Innocence: How Joni Mitchell
Fails" (e sono ben sedicimila battute, ovvero nove cartelle: quelli erano
i tempi). Le critiche sono quasi sempre le stesse: "album poco
comunicativo e strumentalmente troppo asciutto – e che ne è stato di quelle
belle melodie?". Che a ben vedere è come dire: "Ma perché Joni
Mitchell non torna a essere quella di prima?". Il tacito sottotesto della
discussione su Hejira è infatti: "Meno male che non è un altro The Hissing
Of Summer Lawns! Ma perché se non riesce a fare un altro Court And Spark, Joni
Mitchell non fa almeno un altro Blue?".
Va lestamente ricordato che cinque anni prima Blue era stato
considerato in maniera pressoché unanime un capolavoro della musica moderna
"nella sua forma cantautorale". Mentre appena due anni prima il
gioioso e comunicativo Court And Spark aveva rappresentato il momento in cui
Joni Mitchell e il pubblico americano erano sembrati viaggiare sulla stessa
lunghezza d’onda, con un critico dai gusti notoriamente difficili quali Jon
Landau di Rolling Stone a dichiarare la veste accessibile di quell’album non in
contrasto con uno spessore autorale in una recensione intitolata "A
Delicate Balance". L’anno precedente l’apparizione di Hejira la musicista
aveva però pubblicato un lavoro meno facile e dai testi tematicamente molto
diversi dal suo solito: The Hissing Of Summer Lawns, album per nulla difficile
o di ardua frequentabilità sol che ci si curasse di accostarlo a cose come Pretzel
Logic degli Steely Dan piuttosto che ai lavori più recenti di nomi quali Carole
King, Linda Ronstadt, Carly Simon o… Joni Mitchell. Ed era stata proprio la
"cantabilità" delle canzoni di quell’album a essere messa in
discussione, perfino da un critico solitamente acuto come Stephen Holden, che
in una recensione apparsa su Rolling Stone aveva scritto: "Se è vero che
The Hissing Of Summer Lawns offre narrativa di sostanza, questa è accoppiata a
musica di nessun peso. Non ci sono neppure melodie degne di questo nome."
Per una serie concomitante di motivi, Hejira fu quindi letto
come un ritorno, per quanto imperfetto, alla dimensione che veniva giudicata
quella più consona alla Mitchell "autodidatta un po’ pasticciona":
quella di "ragazza con chitarra". E quando l’anno successivo la
musicista dichiarò nei fatti la sua volontà di continuare con la
sperimentazione pubblicando un album alquanto rischioso quale Don Juan’s
Reckless Daughter, allora non ci fu pietà: qui basta consultare la recensione
scritta da Janet Maslin per Rolling Stone e apparsa sotto l’eloquente titolo di
"Joni Mitchell’s Reckless And Shapeless ‘Daughter’". Due anni dopo,
la collaborazione con Charles Mingus fu rubricata alla voce "jazz" (e
anche lì, non è che gente come Leonard Feather fosse tanto incline a prendere
sul serio una "volenterosa autodidatta"…).
Hejira è l’album che segna l’arresto definitivo delle
vendite degli album di Joni Mitchell. Pur aspramente criticato, The Hissing Of
Summer Lawns aveva infatti venduto sulla scia di Court And Spark. Mentre
Hejira, pur accolto benevolmente dalla stampa, era apparso quando l’entusiasmo
"a scatola chiusa" del grosso pubblico era ormai scemato.
L’esordio discografico
di Joni Mitchell, Joni Mitchell (1968), arriva quando nel piccolo circuito
delle "folk-house" la musicista è già una piccola celebrità prima
ancora di avere inciso alcunché, grazie alle versioni che artisti di discreta
fama – da George Hamilton a Tom Rush a, soprattutto, Judy Collins – avevano
fatto di brani quali Chelsea Morning, The Circle Game e, soprattutto, Both
Sides, Now. La musicista manifesta subito uno spirito indipendente: un
contratto che le consente di mantenere il pieno possesso dei diritti d’autore e
un’autoproduzione discografica che per tutti gli anni settanta si avvale del
prezioso contributo di qualcuno che non è stato certo un semplice
"tecnico" del suono: Henry Lewy. Un’indipendenza delle scelte
discografiche mai messa in discussione da quando David Crosby le aveva fatto un
regalo di portata inestimabile producendone l’album di esordio, sì da evitare
che le canzoni della Mitchell venissero "plasmate" secondo i dettami
di quel "folk-rock" allora imperante e che da lì a poco sarebbe
suonato irrimediabilmente datato.
La musicista aveva poi inciso un acclamato secondo lavoro,
Clouds (1969), per poi giungere con Ladies Of The Canyon (1970) alla piena maturità;
l’album contiene tra l’altro il piccolo classico Big Yellow Taxi – brano che
per il suo valore ecologico ante litteram appare oggi sovente anche sui libri
di scuola – e soprattutto quella Woodstock che, singolo di enorme successo
nella versione elettrica fatta da Crosby, Stills, Nash & Young, rimane
ancora oggi vibrante simbolo di tutto un periodo.
Se Ladies Of The Canyon vede gli orizzonti allargarsi, Blue
(1971) è l’indiscusso classico. E qui bisogna ricordare che "un tipo alla
Joni Mitchell" è espressione dotata di senso nella cornice statunitense di
quegli anni. For The Roses (1972) amplia e approfondisce la tavolozza tematica
e strumentale, portando a compimento quel processo di frequentazione del
pianoforte iniziato anni prima. Con i suoi grandi successi Help Me e Free Man
In Paris, Court And Spark (1974) è il botto commerciale, e l’album che Jimmy
Page e Robert Plant, stelle di prima grandezza nei Led Zeppelin, non si
stancavano di lodare pubblicamente.
Con i suoi quasi
cinquantadue minuti di lunghezza Hejira era un album fatalmente costretto dal
formato in vinile in cui fu originariamente pubblicato, anche se l’ascolto di
una copia originale masterizzata da Bernie Grundman conferma l’intelligente
lavoro effettuato dal tecnico. Posto in fine di facciata, il brano che dà il
titolo al lavoro non può non soffrire della temibile "distorsione inerente
alla porzione di solco vicina al centro del disco" ("inner groove distortion"),
e il rumore di fondo dovuto al mezzo non potrà mancare di guastare l’ascolto di
chi, cresciuto in epoca digitale, ha difficoltà ad accettare che fruscii e
scricchiolii insiti nel mezzo turbino la fruizione della musica.
La masterizzazione digitale effettuata da Stephen Innocenzi
negli studi Atlantic alla fine degli anni ottanta – che diremmo essere la
stessa di tutte le versioni digitali da noi ascoltate prima della comparsa del
cofanetto di un paio di anni fa – ci è sempre parsa un ottimo compromesso tra
le diverse esigenze. L’assenza del rumore di fondo del vinile e delle
costrizioni su dinamica e pulizia del suono sono ovvi vantaggi. Tra l’altro
proprio la lunghezza implica inevitabilmente un basso livello sonoro della
copia in vinile, con le prevedibili conseguenze.
Però la versione originale ha una sua coloritura che – a
parità di condizioni, e qui sappiamo di chiedere l’impossibile – fornisce
all’album una dimensione estetica assai gradevole. Ovviamente chi provasse
piacere a indagare le molte preziosità strumentali di cui l’album è ricco dovrà
giocoforza optare per il CD (anche se stranamente – misteri del suono
registrato – il piatto ride suonato con le spazzole su Song For Sharon ha una
maggiore tridimensionalità nella versione originale in vinile). Ma per chi
considera Hejira album freddo e di difficile accessibilità l’ascolto in CD
potrebbe costituire una triste conferma: la voce della Mitchell si staglia in
primo piano su uno sfondo strumentale maggiormente diviso sull’asse destra-sinistra,
diminuendo quel fascino d’insieme proprio dell’originale. Epperò se Hejira è
album "on the road" che vive in spazi aperti è giocoforza affermare
che la versione in CD è quella "ideale" per l’estetica di fondo del
lavoro.
Ci sentiamo di dire
che se Hejira fosse stato l’album di grande successo di un gruppo affermato –
cosa che in termini commerciali non è poi tanto lontana dalla verità: sempre di
disco d’oro si tratta, e di disco che viene dopo gli ottimi piazzamenti in
classifica dei due album precedenti e di due singoli d’alta classifica – oggi
esisterebbe un DVD-V della serie Classic Albums a narrarci la vicenda con
dovizia di particolari, o quanto meno un servizio esteso di un mensile
specializzato. Però non c’è, e a volte ci viene da pensare che forse è meglio
così, tanto è il timore che le turbolente vicende sentimentali della musicista
finirebbero per costituire l’argomento principale della narrazione.
Hejira è album di grandi contributi strumentali, tutti
esposti con chiarezza. Ovviamente le chitarre della Mitchell, che ne
costituiscono la propulsione principale: logico supporre che la narrazione si
troverebbe costretta da una scansione ritmica "tipica" da parte di
una ritmica ortodossa, da cui il ruolo di coloritura qui affidato alla percussionista
Bobbye Hall. La coppia costituita da Max Bennett e John Guerin, a quel tempo
ritmica abituale della Mitchell, compare solo in due brani: scontando l’ovvio
uso della compressione, l’accompagnamento del basso di Bennett – si ascoltino
gli attacchi e i rilasci delle note – è un manuale su come costruire un fattore
di movimento e varietà in un pezzo che, come altri sull’album, ha un forte
carattere ciclico quale Furry Sings The Blues, brano che vede la presenza di
Neil Young all’armonica; si presti particolare attenzione alla sottolineatura
di cassa e hi-hat con cui John Guerin anima la musica sotto il verso
"Dancing it up and making deals". E si apprezzi il lavoro della
ritmica sulla lunghissima, e un tempo celeberrima, Song For Sharon.
L’album evidenzia un millimetrico lavoro di orchestrazione:
si ascolti il breve intervento – solo pochi secondi! – del clarinetto di Abe
Most su Hejira, e i fiati di Chuck Findley e Tom Scott – rispettivamente,
tromba e sassofono – su Refuge Of The Roads. Ma il lavoro strumentale che più
colpisce è quello di Larry Carlton. E’ un lavoro molto diverso da quello che
nello stesso anno il chitarrista svolge su The Royal Scam degli Steely Dan,
nonché da quello di intelligente coloritura da lui svolto sui due album precedenti
della Mitchell. Qui l’impianto strumentale scarno affida al musicista un
compito potenzialmente assai rischioso di colore e commento, e "Mr.
335" (dal nome del modello Gibson da lui prediletto a quel
tempo)/"Bendo" (dalla sua predilezione per le "stirature"
delle corde) risponde alla sfida con un contributo entusiasmante. Due soli
esempi. Su Amelia, il "bending" corrispondente a "A ghost of
aviation" e gli arpeggi di armonici alla fine del pezzo, a creare un ponte
con il vibrafono di Victor Feldman. Su Strange Boy, la "stiratura"
dopo "We got high on alcohol" e la quasi-steel (qui come altrove,
magistrale l’uso del pedale di volume) in risposta a "See how that feeling
comes and goes/Like the pull of moon on tides".
La novità strumentale di Hejira è però indiscutibilmente il
basso elettrico "fretless" di Jaco Pastorius, già in procinto di
diventare una stella con i Weather Report e con la protratta collaborazione con
Joni Mitchell, dal vivo e su disco. Qui i pareri sono fatalmente difformi. Chi
considera i contributi di Pastorius validi "sempre e comunque"
tenderà a non considerare "distruttivi" i momenti in cui il bassista
si muove come il proverbiale "elefante nella cristalleria". Da parte
nostra consideriamo più accettabili le situazioni in cui Pastorius fornisce una
propulsione: l’iniziale Coyote, e la svelta Black Crow, quasi un "Bo
Diddley beat" con Larry Carlton a una solista più usuale. Mentre dobbiamo
confessare che a distanza di quasi quarant’anni non ci siamo ancora abituati ai
brani dove il basso funge da contrappunto melodico e armonico, vera seconda
voce al pari di un sassofono: Hejira e Refuge Of The Roads.
Con tutta evidenza frutto di una sovraincisione successiva,
il contributo di Pastorius si inserisce in quella "nebbia produttiva"
che a dispetto della chiarezza del risultato finale aleggia ancora sulla fase
progettuale di Hejira (ma qui dobbiamo ammettere che la nostra conoscenza dei
vari volumi scritti a proposito di Pastorius è scarsa assai). Certo è che non
siamo mai riusciti a sentire la "chitarra solista" di Carlton su
Coyote, laddove le note di copertina la vogliono invece presente (gli armonici
ci sembrano quelli del basso elettrico), mentre essa ci pare perfettamente
udibile su Hejira, sia dopo il verso "Between the forceps and the
stone" che sul finale.
Della Mitchell cantante è inutile dire, tanto è palese la
sua maestria. Solo un esempio: il modo in cui su Song For Sharon canta la
parola "dreams" nel verso "Chasing dreams", con la
"i" allungata di "dreams" a significare a un tempo
l’ampiezza dei sogni e la consapevolezza (ex post) tinta di rammarico della
loro inconsistenza. Ma già dal verso successivo si cambia, con l’aria birichina
con la quale i "cowgirl jeans" concludono il verso "Mama’s
nylons underneath my cowgirl jeans".
Difficile negare che
l’attributo di "altamente analitico" si attagli a perfezione
all’atteggiamento di Joni Mitchell quando si tratta di musica e testi, nonché
al suo modo di porsi nei confronti della realtà e dei suoi rapporti con il
mondo. Ed è una passione per l’indagine "obiettiva" che sarebbe stata
in grado di affondare più di una personalità, non fosse che la musicista ha
sempre accoppiato alla passione per l’indagine un forte appetito per la vita
che con tutta evidenza ha funzionato da contrappeso. (Se il lettore lo
consente, indulgeremo a un uso della psicologia spicciola che ci consente di
rintracciare le origini di quell’appetito nella grave forma di poliomielite che
costrinse a letto la Mitchell bambina e che per un momento sembrò prometterle solo
la negazione di una vita vissuta con pienezza.)
Difficile però negare che quell’appetito per la vita portò
la Mitchell anche su sentieri che non sarebbe certo facile definire
"comodi". Tra questi, la partecipazione alla Rolling Thunder Revue di
Bob Dylan, tour di metà anni settanta che tanto materiale offrì al film
intitolato Renaldo and Clara. Ma in questo film la Mitchell – per sua esplicita
volontà – non compare.
E quindi il "viaggio", la
"peregrinazione" condotta dalla Mitchell per gli Stati Uniti che è
alla base di Hejira – nel duplice senso dei temi trattati e delle circostanze
della composizione – può anche essere visto come un bisogno di aria pulita e di
solitudine, parola da intendersi nel senso di "non essere
riconosciuti", e non necessariamente in quello di isolamento esistenziale.
Ovviamente fatti e riflessioni sugli stessi vanno di pari
passo. Coyote è l’incontro casuale tra due mondi diversi, Amelia una
meditazione sulla solitudine che si riallaccia alla pioniera dell’aviazione
Amelia Earhart, Furry Sings the Blues il confronto duro con una dimensione di
povertà e decadenza, A Strange Boy l’esame di una personalità, Hejira il fare
il punto su una condizione, Song For Sharon la buffa e amara ponderazione di
due traiettorie giunte all’opposto di quanto ragionevolmente prevedibile, Black
Crow l’amarezza di una dimensione di vita. Quasi un "inserto"
filmico, Blue Motel Room – brano che ha da sempre diviso gli estimatori della
Mitchell – porge le stesse tematiche in una luce più lieve, mentre la conclusiva
Refuge Of The Roads trova a suo modo una pace provvisoria nella cornice quasi
Zen nella quale inserisce la dimensione del singolo.
© Beppe Colli 2014
CloudsandClocks.net | Nov. 9, 2014