Intervista a
Mark Jenkins (2005)
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di Beppe Colli
Sept. 11, 2005
Ricordiamo
perfettamente le circostanze che ci hanno fatto conoscere What Goes
On, la rubrica quindicinale firmata da Mark Jenkins che appare sul sito
del Washington City Paper: quel giorno stavamo effettuando una ricerca
in Rete a proposito di Lost In Translation, il film diretto da Sofia
Coppola che allora era appena uscito negli Stati Uniti. Intitolato Knowing
The Score, il pezzo di Jenkins (estremamente ben scritto) offriva una
percettiva analisi del film, e sosteneva che era stata la sottovalutazione
del ruolo giocato dalla musica – e la scarsa conoscenza della musica
stessa – a costituire il maggiore ostacolo per una corretta interpretazione
del film da parte dei critici. Non è che tutte le argomentazioni
ci vedessero d’accordo, ma è certo che l’articolo offriva una
prospettiva originale.
Non
è difficile immaginare la nostra sorpresa quando scoprimmo che
Knowing The Score era una puntata di una rubrica che non trattava di
cinema, ma di musica. Fu così che ebbe inizio la nostra esplorazione
degli archivi di What Goes On. Ovviamente non mancammo di tenerci aggiornati
visitando il sito a intervalli regolari.
Tutte
le puntate di What Goes On offrono una prosa chiara, meditata. Un punto
di vista personale che non teme l’essere poco popolare ma che non sceglie
mai l’essere impopolare quale suo scopo principale. Dai Television ai
Velvet, dalle bustarelle della payola alla catena Starbucks, da Lollapalooza
a The Hives, la rubrica copre molto terreno.
E
così, ritenendo di aver raggiunto una certa familiarità
con la rubrica, abbiamo deciso di rivolgere alcune domande a Mark Jenkins.
Jenkins ha acconsentito, e il testo della nostra recente conversazione,
avvenuta tramite e-mail, compare qui di seguito.
Per prima cosa vorrei chiederti del tuo retroterra. Tutto quello
che so di te è quanto hai scritto in una puntata della tua rubrica
(07 21 00, Who Wants Yesterday’s Blurtings?): "Sì, sono
stato un Bangsiano, il che vuol dire che sono stato anche un Meltzeriano".
(…) "Bangs ha pubblicato alcuni miei pezzi su Creem, e io ho
pubblicato outtakes sia di Bangs che di Meltzer in una fanzine che ho
diretto". Vuoi dirmi di più?
Ho iniziato a leggere Creem durante i primi anni settanta, quando
ero al liceo. Ho mandato delle recensioni a Creem e a Fusion (un mensile
rock oggi poco ricordato che aveva sede a Boston) e ambedue i giornali
me ne hanno pubblicate alcune.
A quel tempo c’era davvero poca distanza tra le riviste rock "professionali"
e le "fanzine" amatoriali. Io pubblicavo una fanzine chiamata
Hype ed ero in corrispondenza con un sacco di fanzine e di gente che
scriveva per professione. (In quei giorni ciò avveniva soprattutto
per lettera, sebbene Bangs fosse solito telefonarmi di tanto in tanto.)
A quel tempo sia Bangs che Meltzer erano molto prolifici nello scrivere,
e a volte mi mandavano dei loro outtakes perché venissero pubblicati
su Hype. Tra i pezzi che ho pubblicato ci sono il resoconto di Meltzer
del suo viaggio con il produttore/artista/artista della truffa Kim Fowley
durante un tour promozionale e la proposta di Bangs di rinchiudere le
rock star in campi di concentramento. (Questo è successo molto
tempo prima che il recupero computerizzato delle informazioni diventasse
una cosa comune, ma è possibile che io ne abbia delle copie su
carta da qualche parte.)
Man mano che Hype diventava più grande e ambizioso cominciava
ad apparire meno di frequente. L’ultimo numero fu pubblicato intorno
al 1975. Da allora ho scritto per sacco di pubblicazioni su un mucchio
di argomenti.
Non so quasi nulla del giornale su cui scrivi, il Washington City
Paper. E’ in qualche modo paragonabile al Village Voice?
Sì, somiglia molto al Village Voice. E’ un tabloid settimanale
"alternativo" del tipo che viene pubblicato nella maggior
parte delle grandi città americane e anche in molte delle città
più piccole e più sveglie, in primo luogo quelle che sono
sede di facoltà universitarie. Nel corso degli anni ottanta e
novanta queste pubblicazioni sono diventate sempre più simili
tra loro e hanno cominciato a essere acquistate da due catene, New Times
e Village Voice Media. (Quest’ultima, ovviamente, è la proprietaria
del Voice.) In questo momento ci sono voci che le due catene si fonderanno.
Il Washington City Paper è posseduto dal Chicago Reader, uno
dei più grossi settimanali alternativi, che non fa parte delle
due catene più grandi.
Il Voice ha iniziato negli anni cinquanta ed è il giornale
più anziano in questo tipo di pubblicazioni. Negli anni sessanta
è stato seguito dai cosiddetti giornali "underground",
che erano collegati al movimento contro la guerra nel Vietnam, alla
cultura delle droghe, alla liberazione sessuale e, ovviamente, al rock
psichedelico. (A Washington DC c’erano il Washington Free Press e il
Quicksilver Times.) Nei primi anni settanta queste pubblicazioni divennero
più professionali e meno ideologizzate, e vennero ribattezzate
con il nome di "alternative". Dopo che molti settimanali alternativi
di DC aprirono e chiusero, il Washington City Paper fu fondato nel 1981,
e in seguito diventò solido e profittevole.
Se non vado errato, What Goes On, la tua rubrica quindicinale,
ha avuto inizio nel 1996. Si trova solo online? Vuoi dirmi qualcosa
in proposito? Pubblichi anche altre cose sul Washington City Paper?
Ha avuto inizio come rubrica online quando il City Paper ha deciso
di mettere materiali originali sul suo sito. Come notavi, questo è
avvenuto nel 1996. Per un periodo di circa un anno all’inizio di questo
decennio è stata pubblicata anche sul giornale, ma poi è
tornata a essere solo online.
Scrivo settimanalmente recensioni di film per il City Paper. Meno
frequentemente scrivo per il giornale anche di musica, arte, libri e
altri argomenti. Una volta scrivevo molto anche a proposito di argomenti
che riguardavano lo sviluppo urbano e il design, ma ora non più
(sebbene mi piacerebbe scrivere ancora di quelle cose).
La mia rubrica in Rete è un diverso tipo di scrittura rispetto
alle recensioni su carta, e mi capita di frequente di non essere davvero
pronto per scrivere la puntata successiva – perché non ho abbastanza
informazioni o perché non ho riflettuto a sufficienza sull’argomento.
Questo è il motivo principale per cui la cadenza quindicinale
spesso slitta.
E’ sempre mia intenzione aggiungere brevi recensioni di CD, cosa
che non riesco a fare quasi mai. L’ho fatto diligentemente per un po’,
e ho visto che ci voleva un tempo incredibilmente lungo.
Al momento collabori ad altri giornali e riviste?
Scrivo regolarmente per il Washington Post, il più importante
quotidiano della città, principalmente ma non esclusivamente
di musica, e di tanto in tanto recensisco musica per Blender (un mensile
musicale nazionale) e per Time Out New York (un settimanale di New York).
Recensisco CD di artisti locali per WAMU-FM, una stazione radio "pubblica"
di Washington DC. Molta di questa roba è disponibile sui rispettivi
siti Web: www.washingtoncitypaper.com; www.washingtonpost.com; e www.wamu.org.
Purtroppo sia il City Paper che il Post fanno pagare l’accesso ai loro
archivi. (Questo vuol dire tutto quanto è più vecchio
di due settimane per ciò che riguarda il Post, un mese per il
City Paper.)
Visto che abbiamo nominato sia Bangs che Meltzer: qual è
stata la tua impressione di Almost Famous?
Spero che non ti dispiaccia se riciclo qui la mia recensione apparsa
sul City Paper. Potrei parafrasarla o rivederla, ma ritengo che la recensione
originale presenti meglio la mia opinione:
Almost Famous di Cameron Crowe dovrebbe sconcertare solo due gruppi:
quelli a cui non piace la musica rock; e quelli a cui piace.
Il film più solare mai girato a proposito di abuso di droghe,
degradazione sessuale e suicidio rock’n’roll, Almost Famous è
il racconto un po’ frutto di fantasia e in buona parte comico del primo
viaggio di Crowe quale corrispondente quindicenne per Rolling Stone.
E’ ambientato nel 1973, anno che il film dipinge sia come spartiacque
personale che come delizia musicale. E tuttavia lo scrittore-regista
è abbastanza insicuro della sua storia culturale da introdurre
l’anti-Crowe, il critico rock "gonzo" Lester Bangs, quale
irritante coscienza della storia.
Sia Bangs che Crowe crebbero nell’area di San Diego, e in effetti
si conobbero. Ma Bangs (impersonato energicamente anche se in modo poco
convincente da Philip Seymour Hoffman) andò a Est, prima a Detroit
e al giornale "anti-corporate-rock" Creem e poi a New York
e al radical-chic Village Voice. Mentre Bangs diventava un brontolone
pieno di passione, Crowe rimaneva in California a fare una carriera
di cortigiano del rock. Nel film Bangs appare periodicamente per avvertire
il giovane William Miller (Patrick Fugit) che le ambiziose rock star
"non sono i tuoi amici". Ma ovviamente la carriera di Crowe
nel giornalismo rock dipendeva dalla finzione che lo fossero.
Durante il loro primo incontro, Bangs informa Miller che il ragazzo
ha iniziato a scrivere di rock giusto in tempo per il suo "rantolo
dell’agonia”. E però Crowe ha detto che una delle motivazioni
del film era di rintuzzare i detrattori della musica pop dei primi anni
settanta. Il film ha quasi altrettanti stacchi musicali di High Fidelity,
da The Chipmunk Song e Oogum Boogum di Brenton Wood a Paranoid dei Black
Sabbath e a Feel Flows dei Beach Boys senza Brian. Alcuni di questi
pezzi sono usati ironicamente, ma molti di più dovrebbero esserlo.
Forse il momento maggiormente ridicolo del film ha luogo sull’autobus
del tour, quando William si unisce ad affabili roadies, a groupies dal
volto fresco e ai membri del quartetto heavy-rock Stillwater nel cantare
dietro alla sdolcinata Tiny Dancer di Elton John. Crowe deve sapere
la verità, ma insiste nel dipingere il pop dei primi anni settanta
come una grande e felice famiglia, come se il rock in FM non avesse
già permanentemente frantumato il consenso.
Stillwater è un composto dei gruppi di cui Crowe era l’ombra
nei suoi primi anni a Rolling Stone, inclusi gli Eagles, gli Allman
Brothers e i Led Zeppelin. La band è essenzialmente ridotta al
carismatico chitarrista Russell Hammond (Billy Crudup), con il litigioso
cantante Jeff Bebe (Jason Lee) a fornire un lato leggero. Crowe ha detto
che il film parla di fama e dell’adulazione dei fan, ma non si direbbe
mai guardando gli Stillwater o Miller. Il gruppo è dipinto come
davvero "quasi famoso", degno solo di appena un po’ più
rispetto degli Spinal Tap, e se Miller è un fan non lo fa mai
capire. E’ contento di essere parte del circo viaggiante, ma non sembra
veramente curarsi di chi è nel riflettore.
Infatti, William adora non gli Stillwater ma Penny Lane (Kate Hudson),
la groupie straordinariamente benevola che ama Russell quando la moglie
del chitarrista non c’è. Questa premessa mette il regista su
un terreno familiare. Come Say Anything, Singles e Jerry Maguire, Almost
Famous presenta la storia di un giovane serio che è follemente
affascinato da una donna di cui è in qualche modo non degno.
(Nella vita reale, un Crowe dall’aspetto medio è sposato alla
bellezza hard-rock Nancy Wilson, chitarrista del gruppo Heart.) William
è così incantato che una scena in cui osserva Penny ricevere
una lavanda gastrica in seguito a un tentato suicidio è presentata
come un momento di rapimento romantico
Il che è sia divertente che dolce, le due emozioni più
forti che questo film gioviale può mostrare. Almost Famous sembra
quasi disinteressato al rock’n’roll, eccetto che come sfondo che il
regista può rendere con qualche accuratezza, ma il giornalismo
servile è un’altra storia: Crowe offre non solo Bangs ma la propria
madre quali nemici del sensazionalismo del corporate-rock; la sinistrorsa
e puritana Elaine Miller (Frances McDormand, stridula persino per gli
standard del suo lavoro precedente) combatte furiosamente per proteggere
suo figlio dalla grande truffa del rock’n’roll. A dispetto di questi
omaggi, però, la vera musa di Crowe è Jann Wenner, l’editore
di Rolling Stone che appare in un breve cammeo a offrire una silente
benedizione alla versione edulcorata che il film presenta della depressione
pre-punk del rock.
Mi piacerebbe rivolgerti alcune domande di carattere generale
usando quale punto di partenza alcune citazioni tratte dalla tua rubrica.
Parlando della serie The Beatles Anthology e del cofanetto dei Velvet
Underground hai scritto: "Molto del contenuto di questi dischi
non è essenziale, ma non certo il loro messaggio fondamentale:
che ascoltare musica pop e ragionarci sopra sono attività complementari".
(02 21 97, Know Too Much About History) Ritieni che oggi questo sia
un atteggiamento comune da parte degli ascoltatori?
La risposta sincera è che non lo so. I miei amici non-critici
che sono molto coinvolti dalla popular music ci ragionano su davvero
tanto, ma probabilmente non sono persone tipiche. Sospetto che molti
appassionati di musica si interessino solo ad aspetti della musica che
io troverei superficiali. La musica pop è oggi show-biz in quantità
maggiore di quanto essa non sia stata dagli anni cinquanta, e la sensibilità
critica che si era sviluppata insieme al rock degli anni sessanta è
certamente diminuita. Ma è anche vero che la maggior parte dei
consumatori di musica pop non ha mai provato molto interesse per la
teoria e la storia, e la percentuale di persone che si interessano di
queste cose probabilmente non è cambiata. Quello che è
accaduto – almeno negli Stati Uniti – è che la macchina del marketing
è diventata molto più efficiente, perfino spietata. E
così la critica rock è stata a tutti gli effetti marginalizzata.
Alla fine degli anni sessanta e nei settanta perfino combinaguai come
Bangs e Meltzer venivano accettati quale parte del processo. Oggi i
giornali americani mainstream (sia musicali che di interesse generale)
evitano quel tipo di scrittura, e la critica rock che è considerata
troppo irriverente o troppo intellettuale è confinata alle fanzine
o ai siti web. Ci sono più voci critiche che mai, ma è
molto poco probabile che esse possano raggiungere il mainstream.
Credo che non poche persone – per non parlare di quelli che scrivono
di musica – sarebbero in disaccordo con quanto hai scritto qui: "Come
gli scrittori successivi all’incredibilmente inventivo inizio del XX
secolo, i rocker di oggi procedono non tanto come se nulla fosse mai
accaduto ma come se nulla dovesse mai più accadere. A volte funziona.
Ma non è certamente un buon punto di partenza per una saga eccitante".
(11 28 00, What’s the Story, Modern Rock?) Vuoi parlarmi di questo?
Nel corso del XX secolo molte forme d’arte sono arrivate a un punto
di crisi: la pittura è divenuta pura astrazione e si è
poi totalmente dissolta nell’arte concettuale; la musica del conservatorio
è stata dettata da teorie arcane che gli ascoltatori non iniziati
non erano assolutamente in grado di comprendere; i romanzi sono diventati
densi e illeggibili – più codici da decifrare che storie da godere.
In un suo modo meno rigoroso anche il rock ha fatto la stessa cosa:
partendo da canzoni semplici che avevano le loro radici nel blues, nel
country e nel pop è pervenuto a forme sperimentali che attingevano
dalla musica classica, dal jazz, dall’avanguardia e dal rumore puro.
Questo tipo di roba radicale esiste ancora, ma non è riuscita
a cambiare quello che la maggior parte delle persone ascolta – proprio
come James Joyce non ha ucciso il romanzo o Marcel Duchamp distrutto
la pittura di paesaggi. E quindi i gruppi di "modern rock"
di oggi fanno musica che suona quasi esattamente uguale a quella che
i loro predecessori suonavano negli anni sessanta e settanta. I musicisti
che suonano "emo", punk-funk, nu-metal, o perfino electro-lounge-worldbeat-trip-hop
possono usare la tecnologia in un modo leggermente diverso, ma non stanno
ridefinendo la musica pop, o allargando i suoi confini. Oggi
lo scopo del mainstream è quello di scrivere canzoni accattivanti,
non di espandere, evitare o distruggere la forma. L’idea che il rock
possa diventare qualcosa che non ha precedenti è essenzialmente
dimenticata.
Forse ho solo ascoltato troppa musica. E’ possibile che i fan che
non ricordano gli anni sessanta e settanta possano percepire un senso
di "progresso” nella popular music di oggi che io non riesco a
sentire.
Credo che questa sia un’idea con la quale è impossibile
essere in disaccordo: "Al giorno d’oggi l’idea di un "artista
fiore all’occhiello" è quasi bizzarra. (…) Pubblicare
album che potrebbero coinvolgere un pubblico mainstream (ma che non
lo coinvolgono) sembra nel migliore dei casi una forma obsoleta di filantropia".
Ma cosa intendi dire esattamente quando dici: "La maggior parte
dei critici di oggi sta cercando o di escogitare dei buoni motivi per
riuscire a trovare di proprio gusto la pappetta per giovani che vende
molto e il thug-hop o di scovare le più oscure specie di "pop"
che non vende"? (01 16 01, Last of the Prestige Rock Stars)
Ritengo che la critica rock, almeno negli Stati Uniti e in Gran Bretagna,
si sia divisa tra gli oscurantisti e i populisti-sociologi. Il desiderio
più acceso dei primi, che popolano prevalentemente le fanzine
e i siti web, è di essere davanti a tutti, perfino se questo
vuol dire abbracciare musica la cui unica attrattiva è la sua
mancanza di attrattiva. L’altro campo, i cui appartenenti vanno dai
molto cinici ai davvero sinceri, insiste nel trovare di proprio gusto
tutto quello che vende in grandi quantità, dato che essi credono
in un certo qual modo che il gusto popolare sia infallibile. (Anche
se la musica non è buona il fatto che alla gente piaccia fornisce
a essa valore.)
Una cosa interessante dello scrivere di popular music (e delle forme
di pop-art, specialmente il cinema) è che uno può passare
dall’artistico al sociologico – o mescolare i due. Puoi scrivere solo
delle qualità formali di una canzone, o solo del suo significato
sociale, o di tutt’e due. Non respingo automaticamente nessuno dei due
approcci. Cerco di trattare tanto il poco comune che il sovraesposto,
ma oggi c’è così tanta musica in giro che non è
possibile occuparsi adeguatamente né dell’uno né dell’altro.
Ma credo fermamente che musica che vende in grandi quantità
può essere insignificante. Per prima cosa, il gusto popolare
viene facilmente manipolato. (Negli Stati Uniti c’è appena stato
un altro giro di casi di corruzione.) Inoltre, la pop music che non
ha venduto ai suoi tempi può rimanere influente – l’esempio ovvio
è quello dei Velvet Underground – mentre la roba che va in testa
alle classifiche può svanire nel nulla. Nel lungo periodo, sospetto
che Britney Spears (per esempio) non conterà nulla. Ma non ho
mai capito il motivo per cui tutti quegli accademici fossero interessati
a Madonna.
Parlando di un disco di Angus MacLise – il primo batterista dei
Velvet Underground – hai scritto: "Si rischia poco a dire che una
registrazione perduta per tanto tempo, per esempio, del primo batterista
dei Franz Ferdinand non avrà lo stesso impatto nel 2040".
(Non credo che qui molti sarebbero in disaccordo.) Poi scrivi: "Ma
è anche vero che il rock degli anni sessanta e settanta – e in
special modo il rock sotterraneo degli anni sessanta e settanta – possiede
delle qualità di cui i suoi predecessori sono privi: l’urgenza
di inventare qualcosa da zero, la tensione di combattere una società
ostile, la forza di andare in luoghi dove nessun altro gruppo era andato
prima". (10 01 04, A Night to Reconsider) E poi, che cosa è
successo? E qual è la tua opinione dei Franz Ferdinand?
La risposta alla domanda #7 più o meno può andar bene
anche qui. Ritengo che il rock degli anni sessanta e settanta abbia
potuto godere di un contesto unico. I musicisti stavano definendo lo
stile per la prima volta, espandendolo in modo esponenziale rispetto
alle sue fonti e aggiungendo un ampio raggio di influenze esterne. (Un
esempio: prima dei Beatles e dei Byrds pochi americani o britannici
avevano mai ascoltato musica indiana.) Inoltre, stavano trasformando
lo studio di registrazione da apparecchio per documentare a un tipo
di strumento musicale. E questa è stata l’epoca in cui la generazione
del dopoguerra detta baby-boom generation divenne adulta, e fu formata
in modo significativo dai fermenti studenteschi, dalla sperimentazione
sessuale, dalle droghe psichedeliche e (specialmente negli Stati Uniti)
dal movimento per i diritti civili e da quello contro la guerra. Questa
combinazione di cambiamento musicale e sociale ha dato alla musica una
qualità febbrile che i rocker contemporanei hanno molta difficoltà
a raggiungere.
Ho recentemente intervistato Andy Gill dei Gang of Four, e abbiamo
discusso di quanti gruppi di oggi siano influenzati dallo stile dei
Gof4, ma nessuno dalla loro visione politica. Non è che ogni
gruppo dovrebbe cantare "fuck Bush," ma i revivalisti punk-funk
e new-wave mancano del senso di impegno della musica che imitano.
Quindi ritengo che i Franz Ferdinand siano bravi, ingegnosi e abbastanza
noiosi. Preferirei che il gruppo prendesse in prestito dai suoi predecessori
meno riff e più atteggiamento mentale.
Credi che in un’epoca in cui tutti sono in grado di scaricare
MP3 di qualsiasi gruppo leggere l’opinione di un critico possa ancora
essere considerata un’occupazione degna di questo nome? E: in un’epoca
fortemente caratterizzata in senso visivo in cui una scarsa padronanza
del linguaggio è detta essere caratteristica sempre più
diffusa, può l’analisi musicale scritta essere ancora considerata
rilevante?
Ovviamente ritengo che la critica rock sia ancora valida e rilevante.
Ma la critica soddisfa due funzioni contemporaneamente, perfino se le
due sono talvolta l’una in contrasto con l’altra: pubblicizzare e descrivere
nuovi lavori – album, film o quel che vuoi – e analizzarli. Sono sicuro
che la maggior parte dei lettori è (ed è sempre stata)
più interessata alla descrizione che all’analisi. Per decenni
la Gran Bretagna ha avuto più (e più influenti) pubblicazioni
musicali degli Stati Uniti dato che aveva una radio molto limitata.
La gente aveva bisogno di leggere di musica che non aveva modo di ascoltare
(a meno di non comprarla). Quando il Regno Unito ha avuto un numero
maggiore di canali radio, e poi di siti musicali Internet, i settimanali
di musica hanno perso rilevanza. La maggior parte di essi, infatti,
è fallita.
La questione della "scarsa alfabetizzazione" – o della
"aliteracy", la crescente tendenza da parte degli alfabetizzati
a non usare le abilità in loro possesso – è troppo grossa
per essere discussa qui. Ma in quanto critico di cinema e di arte non
ritengo che le immagini possano rimpiazzare le parole. La capacità
di costruire argomenti verbali/letterari è essenziale.
Se però vuoi solo sapere come fa una canzone allora dei sound
clip saranno sempre più efficaci delle descrizioni scritte. Forse
le due cose possono funzionare insieme, come si suppone facciano in
webzine come Slate (www.slate.com), per il quale ho scritto di tanto
in tanto. Comunque, finora questa sinergia non si è sviluppata
molto. Forse funziona meglio alla radio. Io faccio delle recensioni
di circa cinque minuti che di solito comprendono cinque spezzoni audio
di durata che va dai venti ai trenta secondi. Il formato non è
perfetto, ma almeno sono sicuro che gli ascoltatori sapranno come suona
la musica.
Chi, a tuo parere, sta facendo oggi del lavoro rilevante se parliamo
di critica musicale?
Ci sono moltissimi critici di pop music intelligenti e informati
oggi al lavoro, ma la maggior parte di loro non è in grado di
mostrare quello che è in grado di fare – almeno sulle testate
che leggo io. Direttori ed editori continuano a spingere perché
i pezzi di critica siano brevi, diretti e non ambigui – il che va bene
solo per gli entusiasmi evidenti o per le stroncature totali (e raramente
queste ultime vengono pubblicate).
Moltissimi critici rock che ero solito leggere con piacere sembrano
non scrivere più, e alcuni che scrivono ancora sembrano essere
andati fuori di testa. Alcuni nomi di scrittori che lavorano oggi il
cui lavoro trovo di solito interessante: Douglas Wolk, David Fricke,
Sasha Frere Jones, RJ Smith, Dennis Lim, Richard Gehr – ma è
davvero difficile capire quello che sanno fare, dato che la maggior
parte di loro è di solito intrappolata in formati che concedono
loro da cinquanta a forse duecento parole. (Perché non ci sono
donne in quella lista? Ha qualcosa a che vedere con il fatto che di
questi tempi ci sono così poche donne che scrivono critica di
pop music, almeno nelle testate statunitensi che vedo.) Ero solito leggere
la stampa musicale britannica, ma è una cosa che oggi faccio
di rado, quindi non so chi stia scrivendo lì.
Quella lista di scrittori non è definitiva, ed è probabile
che ci siano degli ottimi critici pop il cui lavoro non conosco. Ma
è certo che non ce n’è nessuno il cui lavoro io segua
nello stesso modo in cui seguivo quello di Meltzer e Bangs.
© Beppe Colli 2005
CloudsandClocks.net | Sept. 11, 2005
Gli archivi di What Goes On, la rubrica di Mark Jenkins sul Washington City Paper