Henry Cow
Vol. 6 Stockholm & Göteborg
(ReR)
"(…)
e non appena quello che in origine era stato un giudizio critico (sebbene
di indubbia superficialità) si fu solidificato in un sapere di sfondo –
per definizione accettato in modo irriflesso – anche i King Crimson si
trovarono gettati nel calderone del (cosiddetto) "Prog", bersaglio
di disprezzo e ridicolo al pari dei ben più ricchi Yes ed Emerson, Lake & Palmer
e dei tanto più derivativi Genesis. Ma un bel giorno del 1992 la comparsa
di un cofanetto di 4 CD intitolato The Great Deceiver – Live 1973 – ’74,
completo di foto, libretto ed esaustive note di copertina di Robert Fripp,
costrinse molti a rivedere quel pigro (pre)giudizio rivelando la ben diversa
natura improvvisativa del quartetto, tanto lontana dall’irrisa precisione
degli album di studio. Fu così che una generazione di giovani ascoltatori,
troppo giovani anche per aver avuto accesso a dei bootleg fruscianti, si
trovò a valutare ex novo quella musica. E fu probabilmente a partire da
quel momento che quel rock trovò diritto di cittadinanza nei linguaggi
moderni che si andavano elaborando negli Stati Uniti, dando così ai King
Crimson la chance di una seconda giovinezza."
Dobbiamo
confessare che è stata proprio questa la storia che ci è venuta in mente
un pomeriggio dello scorso luglio quando abbiamo trovato nella posta un
messaggio collettivo che annunciava la pubblicazione di un "Henry
Cow 40th Anniversary Box Set Volumes 1 & 2 – 9 CDs and 1 DVD with 2
substantial books – in two solid Boxes." (Pubblicazione prevista:
sotto Natale – com’è noto, da tempo la ReR è un indiscusso "Campione
di Tempismo".)
"Messa insieme nel
corso di quindici anni, questa collezione fornisce per la prima volta un’idea
dell’ampiezza e della profondità del lavoro degli Henry Cow". (…) "Sempre
soprattutto una live band, la performance era il loro forte" (ma qui
si usava il ben più elegante métier) "e un concerto poteva presentare
un’ampia gamma di situazioni – sempre guidato da un intenso dialogo tra composizioni
strettamente strutturate e improvvisazioni radicalmente aperte. Gli LP ufficialmente
pubblicati raccontano al più solo metà della storia".
Dobbiamo
confessare che la notizia ci ha lasciato non poco perplessi. I primi tre
album di studio degli Henry Cow sono indubbiamente delle pietre miliari
del
"rock" moderno, e l’indiscusso punto di partenza per chi non avesse
mai ascoltato il gruppo. Ma abbiamo anche il doppio Concerts – tra l’altro
degnamente ristampato appena due anni fa – a raccontare con discreta completezza "il
resto della storia". Ovvio quindi che il destinatario primo di un simile
box debba essere il nocciolo duro dei fan, con un possibile coinvolgimento "per
cerchi concentrici" di nuovi ascoltatori. Ma avrebbero i fan – che ovviamente
grazie alla Rete posseggono già tutto – sborsato danaro per ottenere quelle
che sostanzialmente si annunciano come delle copie ripulite? (L’annunciato
DVD-V è ovviamente inedito – e tale rimarrà finché il primo "volenteroso" non
l’avrà messo in Rete.)
I tempi,
va da sé, sono molto meno propizi a questo tipo di imprese coraggiose di
quanto non fossero al momento dell’apparizione di The Great Deceiver. E
ovviamente la musica degli Henry Cow non potrà mai aspirare a un "effetto
imitativo" lontanamente vicino a quella suonata dai King Crimson in
quel cofanetto. Insomma, buio pesto. Ragion per cui abbiamo immediatamente
prenotato il box.
Inutile
nascondersi dietro un dito: posto che è ragionevole attendersi che la musica
contenuta nel box sia di buona qualità, anche se di resa sonora comprensibilmente
variabile, la decisione di ordinare questo box ha in sé molto di ideologico.
Cioè a dire, essa ha anche a che fare con: se vogliamo
"premiare" i sacrifici che al tempo resero possibile l’esistenza
di questa musica; e se vogliamo propiziare l’opportunità che questa bizzarra
etichetta resti a galla. Ma è parimenti ovvio che è con la propria carta
di credito che il critico – se è tale – ha da propiziare questo esito. Perché
per tutto il resto c’è l’obbligo di un esame obiettivo.
Il CD
Stockholm & Göteborg porta la dicitura "Vol. 6", facendo
parte del secondo box che prende in esame gli anni 1976 – 1978. La musica
che qui appare è stata assemblata in un programma coerente che presenta
e fa coesistere brani brevissimi e molto lunghi, composizioni scritte e
improvvisazioni libere, brani cantati e strumentali, quasi tutti inediti
su disco. Ci piacerebbe poter dire che fa coesistere anche i due bassisti
che hanno suonato nel gruppo, ma per tutta una serie di fattori che non
proviamo neanche a riassumere ciò non è avvenuto (crediamo proprio che
il box conterrà una densa serie di
"corrige"). La musica di questo CD è stata tutta editata, e rimissata
o rimasterizzata. La copertina porta la dicitura "non invasively re-mixed",
espressione che sulle prime abbiamo trovato assurda; proveremo ad argomentare
più avanti il modo (che diremmo esteticamente riuscito) in cui questo rimissaggio
ha avuto luogo.
L’album
si apre con un’improvvisazione di media lunghezza, Stockholm 1, densa e
ben riuscita. Parte del tutto, ben figurano l’organo di Tim Hodgkinson,
la chitarra di Fred Frith e il basso e il violoncello di Georgie Born,
mentre ci hanno particolarmente impressionato la batteria di Chris Cutler
e il pianoforte di Lindsay Cooper, che regge sulla distanza in modo molto
più efficace di come ci saremmo aspettati.
La presenza
di Erk Gah – la lunghissima composizione di Tim Hodgkinson spesso eseguita
dal vivo che il gruppo non incise mai – sarà certamente per molti uno dei
punti di forza del CD. Qui la Cooper, dopo un inizio al piano, ritorna
agli abituali oboe e fagotto, Hodgkinson oltre che all’organo è al sax
alto e a un non accreditato clarinetto, Frith aggiunge lo xilofono, Georgie
Born è di nuovo qui e Dagmar Krause canta. Mai come qui "quel che
per un uomo è cibo per un altro è veleno": chi ama voce e modo di
porgere della Krause molto verosimilmente troverà il brano (che peraltro
ha dei lunghi momenti solo strumentali) decisamente di proprio gusto. Chi
scrive lo ha trovato fin troppo simile a un’altra composizione dello stesso
autore, Living In The Heart Of The Beast. In realtà, in senso letterale,
così non è. Ma a distanza di trent’anni quello che ai tempi avremmo probabilmente
volentieri indagato nelle sue differenze e somiglianze con il predecessore
ci ha annoiato in modo mortale, complice la vocalità della Krause: da noi
apprezzata nei climi dei primi Slapp Happy e nelle lunghezze ridotte dei
secondi, apporta una pesantezza mortale al confine del kitsch a un brano
già enfatico di suo.
Ma è
molto bello il lungo momento quasi interamente strumentale che è parte
di Erk Gah e che porta il numero 5. Qui il rimissaggio ha agito in modo
da assecondare la composizione, evidenziando ciò che è essenziale risalti.
E dobbiamo dire che avendo estrapolato il brano dalla composizione di cui
fa parte ci siamo ritrovati ad ascoltarlo molto al di là del nostro compito
di recensori.
A Bridge
To Ruins è un brano per solo organo, con bel contrappunto e un finale dove
quello che ci è parso essere il rumore di un eco a nastro (un Binson Echorec?)
assurge al ruolo di coprotagonista.
La breve
Ottawa Song vede Greaves al basso e alla seconda voce. Funziona bene nell’economia
di un ascolto continuo, ma presa a sé ci è parsa decisamente al di sotto
della versione su Concerts.
I tre
momenti che vanno sotto il nome collettivo di Goteborg 1 ci hanno dato
sulle prime la più cocente delusione: non riuscivamo a capire perché Greaves
se ne stesse tanto in disparte, praticamente assente fino a un curioso
momento in cui si mette a suonare le stesse identiche note (ma proprio
uguali!) che suona nelle nota versione di studio di Deluge. Mistero risolto:
Greaves non c’è, e quella che sentiamo – in sottofondo, proveniente da
un nastro – è proprio Deluge. Si tratta di una rara formazione in quartetto "non
più Greaves e non ancora Born". Stranamente modali, con ampio uso
di nastri (voci umane e altro), Hodgkinson all’organo e a un non accreditato
clarinetto, Cutler anche al pianoforte. Per chi scrive è questo trittico
il momento più alto dell’album, in special modo le strane arie da "cerimonia
pigmea" di 9 e le tessiture dense e misteriose di 10.
Segue
breve versione della No More Songs di Phil Ochs, brano che il gruppo spesso
eseguiva in concerto. Anche qui, pareri difformi. Chi scrive ha sempre
ritenuto gli Henry Cow "in rock" rigidi e assolutamente fuori
dal proprio elemento, come musicisti di musica classica che fanno del loro
meglio. La Krause fa il resto.
Stockholm
2 è una improvvisazione breve e ben riuscita con Frith non accreditato
al piano, strumento che porta il gruppo (e l’ascoltatore) alla ben nota
(ma mai in modo ufficiale) March, la cui melodia dimostra che l’affinità
di Frith per certi climi era ben antecedente a Gravity. Chiude il timpano
di Cutler.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2008
CloudsandClocks.net | Oct. 16, 2008