Cinque
Concerti "Jazz"
Anfiteatro
Le Ciminiere, Catania
July
13-27, 2004
In
un panorama concertistico più vuoto e desolante che mai spuntano
due notizie decisamente gradite: la prima concerne la rassegna denominata
Summer Festival, con nomi che è giocoforza definire di tutto
rispetto: Bill Frisell in duo con Petra Haden, il trio di Marc Ribot,
il sestetto di Dave Douglas, il trio di Uri Caine. A lato, l’arrivo
di un quartetto – come usa dire – d’eccezione: sotto la sigla dal sapore
poco promettente di Superband si celano infatti i nomi di Herbie Hancock,
Wayne Shorter, Dave Holland e Brian Blade. La decisione di andare è
subito presa, anche grazie al concorso di fattori tutt’altro che trascurabili:
posto all’aperto ampio e arioso dall’acustica accettabile; biglietti
in prevendita con possibilità di prenotare il settore anche se
non il singolo posto; inizio concerti a un orario ottimale (le 21.30)
e, quel che è più importante, non solo supposto.
Al
di là della tenuta dei singoli nomi e della nostra curiosità/interesse
per gli artisti in programma (possiamo comunque anticipare che si sono
avute un paio di sorprese), eravamo curiosi di verificare quantità
e tipologia di spettatori per questo tipo di musica in un momento dell’anno
in cui la città tradizionalmente si svuota.
Quale
sia "questo tipo di musica" è senz’altro una domanda
interessante. Se alcuni tra i gruppi in questione sono senz’altro da
ascrivere alla categoria "jazz", è pur vero che tra
contaminazioni stilistiche e ingresso in formazione di DJ sarebbe senz’altro
azzardato collocare tutto quanto si è ascoltato sotto la parola-ombrello
"jazz". Il pubblico non è certo sembrato porsi alcun
problema di coerenza stilistica. Ma – almeno per una volta – il problema
definitorio non sembra di lana caprina: l’etichetta di "rassegna
jazz" sembra assumere sempre più il valore di "rassegna
non-rock", laddove per concerto "rock" si intende qualcosa
che: a) ha inizio a un orario impossibile; b) è rigorosamente
in piedi; c) prevede l’esibizione di gruppi che il più delle
volte si rivelano delle semi-nullità che la "stampa specializzata"
ha miracolato per i motivi più vari.
Bill
Frisell/Petra Haden
Il
primo concerto è quello del duo formato da Bill Frisell e Petra
Haden. E se Frisell non ha certo bisogno di presentazione, la Haden
è ancora citata esclusivamente come "la figlia di";
la qual cosa illustra senza bisogno di ulteriori particolari il malcelato
disappunto dei molti accorsi per godere delle raffinatezze pluristilistiche
del chitarrista nel momento in cui si accorgono che l’ordine d’importanza
dei partecipanti è stato invertito senza preavviso alcuno, con
la Haden a dominare scena e repertorio e Frisell ordinatamente disposto
a fungere da (raffinato e sottile) accompagnatore della tanto più
giovane partner. Pubblico numericamente un po’ scarso (diremmo appena
sotto i duecento), forse a causa di una pubblicizzazione dell’evento
poco presente. La previsione di una serata al fresco è rispettata,
ma con gli interessi: tira infatti un vento gelido che mette a dura
prova l’abbigliamento (e l’attenzione) di pubblico e artisti. La Haden
rimedia un giubbino e maledice con grazia la decisione di indossare
la gonna, Frisell fa buon viso a cattivo gioco. Nonostante i numerosi
handicap è decisamente un buon concerto. La Haden ha una vocalità
tipica di chi ha studiato canto, e una discreta espressività
rigorosamente priva di vibrato e melisma, adattissima quindi a rileggere
cose quali Moon River (che apre il concerto), vecchi standard, cose
di Tom Waits e canzoni country & western. Frisell fa un ottimo lavoro
di cesello, incoraggia la voce, costruisce sontuosi tappeti e moderni
loop con una normalissima e modesta Telecaster. In un paio di brani
la Haden imbraccia il violino, ovviamente senza aggiungere molto. Un
concerto dove la (cosciente, e palese) modestia delle pretese ha giocato
a favore del successo della proposta.
Marc
Ribot Mystery Trio
Eravamo
molto curiosi di ascoltare questa formazione di Marc Ribot, un musicista
che – a partire dall’esibizione quale chitarrista dei Lounge Lizards,
vent’anni or sono – ci è capitato di vedere in concerto varie
volte e con esiti decisamente convincenti: sia in solo, su un repertorio
tipicamente eclettico, che con i Cubanos Postizos, un progetto forse
un po’ esile per poter reggere alla distanza ma che poteva contare su
un’architettura solida e una formazione ben affiatata e dalle ottime
capacità tecniche. Qui il bassista (un contrabbasso elettrico
"a lisca") è il parco e solido Dave Hofstra, il batterista
è Deantoni Parks. La sorpresa viene dalle due aggiunte: DJ Mutamassik
e il chitarrista Morgan Craft. La prima persona della quale facciamo
conoscenza è però una bella bimba nera in carrozzella,
figlia (apprendiamo) della DJ e perciò affidata a un membro dell’organizzazione
("stanno facendo il sound-check"). Poi la bimba incomincia
a perdere la pazienza, ma fortunatamente arriva papà, un nero
sui due metri che decidiamo subito faccia il giocatore di pallacanestro.
Si
entra. Pubblico sui trecentocinquanta, una certa (percepibilissima)
febbrile "attesa dell’evento", c’è anche un piccolo
numero di "presenzialisti". Parte la musica, che – lo diciamo
subito – è quella miscela di mille cose, dal brano blues alla
schitarrata ispida, dalla ballad al momento mediterraneo arricchito
da campionamento vocale, che già ci aspettavamo. Nulla di male,
intendiamoci – non fosse che questo pluristilismo è ormai storico,
e quindi non più idoneo a essere portato quale elemento qualificante
"a prescindere". E’ invece necessario situarsi su quel piano
dell’esibizione che è l’esecuzione, un elemento che forse in
conseguenza di tante scorpacciate televisive i più sembrano ormai
vedere come un non indispensabile corollario dell’"evento".
Ed è proprio qui che i conti non tornano. Se Hofstra fa da perno,
il batterista si spende con molta generosità e pochissima precisione,
ragion per cui il gruppo sembra muoversi come sulle sabbie mobili. A
paragone dei Postizos, qui Ribot sembra procedere per scatti istintuali,
e accostare un momento all’altro, "così". A suo modo
pertinente la DJ, anche se il lavoro è poca cosa. L’elemento
davvero scioccante è l’altro chitarrista, che è poi il
cestista di cui sopra: uno che sembra avere imbracciato la chitarra
(è una Stratocaster suonata "pìng") molto di
recente, tanto appare esitante e timoroso di perdere il tempo (e un
paio di volte succede!), propenso al risolino da palco tipico di uno
che se la fa addosso. Insomma, un vero disastro, non certo un gruppo
in gamba. Aumentano qui le nostre perplessità su Ribot, già
visto piuttosto incartato nel recente concerto zorniano.
Dave
Douglas Freak In
Esiste
nome più cretino? Ovviamente se la musica è buona tutto
è perdonato. E la musica viene presentata così: "un
caleidoscopico ed energetico jazz elettrico, una proiezione di Bitches
Brew e On The Corner". Diciamo subito che le nostre perplessità
su Dave Douglas non sono mai state poche (detto succintamente: insieme
a Uri Caine è uno dei nomi più sopravvalutati degli ultimi
anni). Ricordiamo ancora lo sconcerto provato, qualche anno fa, nell’ascoltare
un CD dove Douglas riprendeva in maniera insipida alcune composizioni
di Joni Mitchell (un CD che avevamo acquistato, e del quale subito ci
disfacemmo). Per quanto riguarda il concerto, non sapremmo dire granché
sul "caleidoscopico", ma "energetico" non lo è
affatto – il tutto ricorda semmai un’ameba fatta di fumo. Miles Davis
è lontanissimo, e per quanto riguarda On The Corner basta ricordare
le pagine scritte su quel tesissimo disco da Lester Bangs per ridere
dell’assurdo paragone. C’è – ovviamente – un po’ di Davis e anche
(trombettisticamente) un po’ di Don Cherry (chissà perché
nessuno lo nomina mai?). La formazione è valida: Gene Lake è
batterista che non si risparmia ma che ha anche cervello, Brad Jones
fa un lavoro contrabbassistico non appariscente ma di qualità,
Marcus Strickland al sax tenore se paragonato al leader appare di malignità
luciferina; lascia nuovamente perplessi il Fender Rhodes trattato di
Jamie Saft, che rifà lo stesso assolo fatto in giugno con John
Zorn (allora tre volte in una sola sera); lavora bene DJ Olive, ma è
roba che qualunque tastierista potrebbe fare con un paio di expander
e meno fatica e teatralità (si può dire che il re è
nudo? e che il DJ nelle formazioni di jazz svolge oggi lo stesso ruolo
cosmetico che era appannaggio dell’elettrificazione gratuita di trentacinque
anni fa?). Il leader è bravo ma esangue, e molte volte il concerto
si siede e invita alla pennichella (altro che Bitches Brew!). Trecento
persone circa per un concerto del quale non solo Miles Davis ma anche
un disco fusion di Herbie Hancock (diciamo: Crossings) avrebbe fatto
carne di porco.
Superband
Arriva
la sera dell’evento e dei mostri sacri del jazz: 1.200 (o 1.400) i paganti,
l’aria diventa elettrica eccetera. A questo punto succede il bello:
mentre tutti si aspettano un’oretta di divertissement di classe – insiemi,
assolo, tre pezzi mossi e una ballad, poi assolo di batteria – i quattro
tirano fuori quasi due ore di musica sottile, intensa, a tratti molto
tesa, concentratissima, roba da stropicciarsi gli occhi. Già
l’inizio – con Shorter che percuote il metallo del leggio (sì,
ci sono gli spartiti) e Holland che sembra ancora accordarsi – inganna
i più; e un’ora dopo, quando le luci aumentate di intensità
illumineranno il settore centrale sarà per rivelare volti attoniti.
Brian Blade – che dire di un batterista di jazz che annovera tra i propri
musicisti preferiti non solo Joni Mitchell (con la quale ha anche suonato)
ma Laura Nyro? – fa un ottimo concerto: rullante secco e charleston
stridente (quasi un Tony Williams Out To Lunch), scurissimi tamburi
a fare contrasto. Emozionante risentire il timbro tondo di Holland.
Hancock e Shorter a tratti sembrano l’uno l’ombra dell’altro, tanta
è stretta l’intesa di arpeggi e linee melodiche. Shorter suona
moltissimo, e soprattutto il tenore, con a tratti un accartocciarsi
delle frasi su se stesse in grado di risultare più leggibile
agli amanti di Roscoe Mitchell che a quelli del "moderno jazz revival".
Hancock è stato sensibile, e attento a non invadere il campo
di Shorter – e qui va detto di un’amplificazione di resa cristallina
(a fine concerto Hancock citerà accanto ai musicisti anche il
nome dell’addetto al missaggio) in grado di affiancare una batteria
tonante a un sax esile senza che nulla abbia a soffrirne. Piccolo bis
con Cantaloupe Island.
Uri
Caine Trio
Sarà
stato il ricordo della Superband, la sera prima; o il fatto che il concerto
del trio di Uri Caine viene improvvisamente spostato ai Mercati Generali
(posto ben noto a qualche chilometro fuori città); fatto sta
che siamo all’incirca un centinaio. Inizio alle 22.30. Crediamo di poter
dire che l’esibizione del trio non è stata male, presa nei suoi
termini. E’ che sono proprio i termini a lasciarci perplessi. Drew Gress,
basso, e Ben Perowsky, batteria, sono una ritmica affiatata, fantasiosa
e di grosso impatto. Non molto sottile, forse, ma considerato il modo
di suonare del leader, con le note a mitraglia e le mani a entrata belluina,
è forse una scelta obbligata. Il pianoforte è certamente
uno strumento che invoglia all’eccesso, ma spesso la pronuncia strumentale
di Uri Caine sembrava più adatta a enfatizzare gli amati classici
che a poter creare qualcosa di sottile (e allora la ritmica non aveva
altra scelta che quella di suonargli "contro"). La qual cosa
era massimamente evidente quando, in prossimità della mezzanotte,
il pianista affrontava la monkiana Round About Midnight (e poi dicono
che gli americani non hanno senso dello humour…) affondandola sotto
il peso dell’accademia.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2004
CloudsandClocks.net
| Aug. 12, 2004