Intervista a
Chris Cutler (1999)
—————-
di Beppe
Colli
July
28, 2005
Il 1973
fu l’anno in cui incontrammo per la prima volta il personalissimo approccio
batteristico di Chris Cutler: fu in quell’anno, infatti, che la Virgin
pubblicò Legend (o Leg End), l’album di debutto degli Henry Cow.
Cutler ha poi continuato a sviluppare quello stile così originale
su innumerevoli album (nostra stima personale: 100 e qualcosa) e in
molte collaborazioni, dagli Art Bears ai Pere Ubu, dai Cassiber ai News
From Babel, dal duo con Fred Frith ai Quatre Guitaristes de l’Apocalypso-Bar
e, ultimamente, all’album intitolato Solo. Cutler è anche il
fondatore – nonché l’eminenza grigia – della Recommended Records,
etichetta che ha pubblicato e distribuito innumerevoli album di musica
del tipo "sotto il radar" e che ha tenuto vivo il nome dei
Faust quando a pochi importava. E’ anche un formidabile teorico, polemista
e storico della musica: ne fanno fede il libro intitolato File Under
Popular, i numerosi articoli e saggi da lui scritti e la rivista (troppo
ottimisticamente) denominata ReR Quarterly.
Com’è
ovvio, dato il clima di vuoto sensazionalismo imperante – e il fatto
di non avere quasi nulla da spendere in pubblicità – è
molto improbabile che il suo nome venga menzionato, e che la sua musica
venga ascoltata. Fu quindi con grande piacere che gli inviammo le domande
per quella che si rivelò essere la sua prima intervista italiana.
(L’intervista fu condotta via e-mail, e durò alcuni giorni a
partire dalla fine di aprile 1999; apparve in italiano sul # 13, giugno
1999, del mensile Blow Up.) Partendo dall’assunto della scarsa notorietà
da lui goduta cercammo di coprire quanto più terreno possibile.
Innanzitutto
vorrei che tu mi parlassi degli inizi della Recommended – come etichetta
e distribuzione; ciò avviene grosso modo contemporaneamente allo
scioglimento degli Henry Cow e dopo la cosiddetta "esplosione punk"…
Alla fine
del ’77 gli Henry Cow avevano deciso di sciogliersi, e così decidemmo
di fare un ultimo tour di sei mesi in tutte le nazioni che avevano sostenuto
il gruppo nei suoi sei anni di vita; e forse in ragione dello scioglimento
cominciai a riflettere sul nostro lavoro in un modo più generale;
volevo cercare di aiutare quelli il cui lavoro era simile al nostro
a trovare il loro pubblico – e raccomandare al nostro pubblico i molti
gruppi interessanti che a causa del predominio delle case discografiche
inglesi e americane non avevano alcuna distribuzione – e quindi nessuna
visibilità – al di fuori dei loro immediati confini geografici.
Inoltre, questo era il periodo in cui il punk aveva portato una ventata
d’aria fresca nell’ambiente stantio del rock mainstream, gettando le
basi per una grande esplosione di autonomia, per una sperimentazione
musicale e per l’esistenza di dischi indipendenti e autoprodotti – e
tuttavia, per le musiche come le nostre, non esisteva ancora alcun network
di distribuzione. Quando fondai la mia etichetta – la Re – per pubblicare
il primo lp degli Art Bears la mia necessità di avere una distribuzione
combaciò a perfezione col bisogno di un luogo centralizzato che
fungesse da collettore/distributore di queste musiche. In quanto Henry
Cow ci eravamo trovati in una posizione privilegiata che ci aveva consentito
di osservare ciò che accadeva, dato che avevamo viaggiato in
tutta Europa e avevamo incontrato molti gruppi interessanti e validi
che erano sconosciuti persino l’uno all’altro. Fu per questo motivo
che fondammo Rock In Opposition: per unire queste persone, per creare
una presenza, una visibilità, una comunità – per non dover
lavorare ognuno per conto proprio. Così la Recommended non solo
scoprì, ma in un certo senso creò, un genere – di musica
"consigliata".
In senso
operativo la Recommended fu fondata nella primavera del I978, contemporaneamente
al RIO Festival tenutosi a Londra. All’inizio il braccio distributivo
fu chiamato Recommended – dato che ero io personalmente a "raccomandare"
tutti i titoli che distribuivamo. Contemporaneamente misi su un’etichetta
per i miei progetti e la chiamai Re. Subito dopo, nel 1979, fondai la
Recommended Label per uscite discografiche diverse dalle mie. Nel 1987
la parte distributiva diventò una cooperativa e io ne uscii per
concentrarmi sulla gestione delle mie etichette (Re, Recommended e Points
East) e scrivere il catalogo di vendita per corrispondenza. Riunii poi
la Re e la Recommended sotto la sigla ReR. Le cose andarono lisce per
un po’ finché, alla fine del 1989, a causa dell’enorme debito
accumulato dalla distribuzione (ormai autonoma) nei miei confronti fui
costretto a rimettere in piedi una mia distribuzione; a quel punto la
vecchia distribuzione diventò la THESE Records – e io la ReR/Recommended.
Quindi
il 1999 vede il 21° compleanno della Recommended Records; so che
c’è qualcosa in preparazione – un doppio CD – che dovrebbe festeggiare l’avvenimento. Vuoi
parlarne?
Beh, sono
successe tante cose in 21 anni. Proprio adesso sto preparando un doppio
CD con rielaborazioni, rimissaggi e materiale nuovo basato direttamente
su registrazioni degli Art Bears, con la partecipazione di numerosi
compositori che nel corso degli anni hanno avuto rapporti con l’etichetta.
Come dici, stavo anche pensando a una raccolta celebrativa con materiale
raro e inedito. Ma non ne sono ancora sicuro. 21 anni sono un periodo
lungo in questo campo per una piccola etichetta – non commerciale e
che non riceve sovvenzioni; ho visto molte sue coetanee scomparire,
una dopo l’altra. Inoltre non siamo un’etichetta di nicchia, cioè
a dire non ci occupiamo di un solo genere – come il progressive rock
o il death metal – e quindi la nostra immagine musicale cambia di continuo;
il che, credimi, rende la sopravvivenza più difficile. Credo
sarebbe appropriato, adesso, fare il punto, guardare indietro e ricapitolare.
Ma non so se avrò il tempo per farlo. E guardare avanti è
senza dubbio più interessante.
Vorrei
chiederti di una musicista con la quale hai condiviso molte esperienze
– Henry Cow, Art Bears, News From Babel, gli album con David Thomas,
il tour di Oh Moscow: Lindsay Cooper. Potresti dirmi qualcosa del progetto
al quale prenderai parte durante la prossima edizione del Festival di
Angelica, tra pochi giorni?
Ho incontrato
Lindsay quando lavorava coi Comus, e poi nuovamente quando era nel Ritual Theatre, prima che si unisse agli
Henry Cow. Era, ed è, una persona speciale e un’ottima musicista,
una delle poche persone che si trovano ugualmente a proprio agio nell’improvvisare
e nel comporre – anche se questa sembra essere la caratteristica di
tutti gli ex Henry Cow. Nell’ultimo periodo di vita del gruppo, mentre
ne era uno dei compositori principali, Lindsay organizzò anche
il FIG (il Feminist Improvising Group). Nel periodo immediatamente successivo
allo scioglimento degli Henry Cow lei ed io realizzammo due album di
canzoni insieme all’arpista Zeena Parkins – col nome di News From Babel
– e in seguito partecipai al suo Film Music Group (con Sally Potter,
Phil Minton, Georgie Born e Vicky Aspinall) e a parecchie sue registrazioni.
Continuammo a lavorare insieme, in special modo nel corso di cinque
anni in diverse cose organizzate da David Thomas, e in seguito divenni
uno dei batteristi nel progetto di Lindsay e Sally chiamato Oh Moscow.
Ed è un estratto da Oh Moscow, riarrangiato per orchestra da
Veryan Weston, ciò cui io parteciperò al Festival. Lindsay
ha la sclerosi multipla, e attualmente non è in condizione di
suonare in pubblico, ma Veryan lavora con un ensemble che suona le sue
composizioni. E anche lei sarà presente ad Angelica.
Visto che parliamo del Festival: hai appena finito un tour italiano
con Fred Frith, e parteciperai al suo prossimo progetto proprio lì…
Fred e
io abbiamo lavorato insieme in un numero enorme di contesti nell’arco
degli ultimi 28 anni – dopo gli Henry Cow e gli Art Bears abbiamo proseguito
la nostra conversazione in un duo dalla vita intermittente ma continua.
E ovviamente io ho suonato in molti dei suoi progetti (la Graphic Score
Orchestra, Tense Serenity) e lui nei miei (Domestic Stories, The Science
Group, Timescales) – ci sono state anche cose cui abbiamo partecipato entrambi (Aqsak Maboul, Duck And
Cover, The Man In The Elevator di Heiner Goebbels, oltre a innumerevoli
contesti improvvisativi). Ho un rispetto immenso per Fred – ha una voce
musicale del tutto originale, come compositore e strumentista.
A proposito
del gruppo che suona ad Angelica, Tense Serenity: è uno dei pochi
progetti cui ho partecipato che riesce a combinare con successo composizione
e improvvisazione. L’improvvisazione, come io la pratico, è qualcosa
che richiede il massimo di apertura. Ciò vuol dire una mente
sgombra prima di suonare e nessun piano, nessuna traiettoria, nessuna
teleologia. La composizione richiede invece precisione e il seguire
un cammino già tracciato. Com’è ovvio, se alterni i due
approcci – a parte il fatto che ciò ti richiede una certa schizofrenia,
cosa in sé non troppo difficile da mettere in pratica – si pone
immediatamente il problema che ogni improvvisazione è drasticamente
limitata dal fatto di dover necessariamente partire da un punto determinato
– cioè a dire la fine di una composizione – e che, il che è
ancora peggio, essa è costretta ad arrivare in un luogo predeterminato,
ad una destinazione prefissata: il successivo brano composto. In questo
modo l’improvvisazione è tutt’altro che libera di seguire la
propria logica. E naturalmente le composizioni in tali "confezioni"
non sono realmente preparate ma "gettate dentro" – e non hanno
una fine naturale, in modo da contenere se stesse, ma si perdono nel
cominciare di un’altra cosa. Quindi è ovvio che mescolare le
due forme richiede seri compromessi, e devo dire che di solito trovo
la miscela tutt’altro che soddisfacente. Ma Fred ha una soluzione ingegnosa:
le sue parti composte sono altamente modulari, e sono state scritte
per emergere e integrarsi in diversi paesaggi musicali. Non c’è
un ordine fisso dei pezzi – Fred chiamerà ciò che vuole,
quando vuole – così non si è mai diretti in un posto preciso.
E infine, dato che Fred improvvisa le sue chiamate in risposta a ciò
che ascolta, e dato che i musicisti possono rispondere o meno, o iniziare
più tardi, o considerare la parte composta come un elemento della
dimensione improvvisata "esterna", e reagire ad essa piuttosto
che unirvisi, lo svolgimento del concerto diventa estremamente organico
– e ogni volta diverso.
Cos’è
una "dimensione improvvisata esterna"?
Sì,
non è molto chiaro; intendo il campo, l’ambiente – per così
dire – del suono: quello che gli altri stanno suonando e al cui interno
ciascuno deve fornire il proprio contributo e il risultato delle proprie
scelte.
Poc’anzi
abbiamo nominato David Thomas, e vorrei quindi chiederti di un evento
di cui mi è capitato di leggere e al quale tu hai preso parte
– un festival o qualcosa del genere, a Londra; non ho capito granché,
devo dire; so solo che c’era Peter Hammill e parecchia altra gente…
E’ stato
un festival di tre giorni, realizzato da David al Southbank Centre a
Londra. L’evento principale era uno spettacolo chiamato Mirror Man (ora
disponibile su CD). L’idea è ambiziosa. C’è una "band"
– Keith Moline ed Andy Diagram (i Pale Boys), Peter Hammill, Jack Kidney
ed io – a volte anche David. Ci sono poi 5 cantanti e speaker, seduti
su una fila di sedie sul palco, che si alzano e vengono avanti, l’uno
dopo l’altro, a "testify" e raccontare le loro storie. I cantanti
sono Linda Thompson, Bob Kidney, Jackie Leven, David Hild e Jane Bom-Bane.
E per tutto il tempo sentiamo i commenti, le descrizioni e il lavoro
assimilabile al Coro Greco del poeta newyorkese Bob Holman, che lavora
fuori scena. David è il Maestro di Cerimonie. Le storie raccontate
sono tutte di un’America perduta, di piccole città desolate dove
le vite sono polverizzate o sprecate senza lasciare traccia; dove la
gente sparisce e le speranze sono infrante; e parlano della geografia
di una certa misteriosa zona di confine che può darsi esista
– o forse no – in un qualche punto tra il presente e il passato. E’
difficile da descrivere. Ma credo che questi siano alcuni tra i migliori
testi che David abbia scritto da molto tempo – e penso che egli abbia
trovato una forma unica in cui presentarli: non un concerto, non propriamente
teatro, ma un territorio ambiguo tra la poesia, la tenda dell’affabulatore
e la canzone.
I Pere
Ubu sono stati – e sono tuttora – un gruppo molto popolare in Italia;
ci fu chi rimase sorpreso a proposito della tua collaborazione con loro,
dato che l’idea che aveva di te forse fece sembrare la cosa un po’ strana.
Vuoi dirmi qualcosa di questo rapporto?
Il mio
rapporto con i Pere Ubu cominciò tanto tempo fa. La prima cosa
che sentii del gruppo fu il singolo 30 Seconds Over Tokyo, che i Residents
mi fecero ascoltare. All’incirca una settimana dopo mi capitò
di trovarmi a Washington, dove gli Ubu suonavano. Li andai a vedere,
li conobbi, recensii il concerto per Sounds (fu la prima recensione
sul gruppo apparsa in Inghilterra) e poi ci tenemmo in contatto. Alcuni
anni più tardi, quando gli Ubu si sciolsero e David lavorava
da solo, mi unii al suo duo con Lindsay e lavorammo in trio per parecchi
anni, aggiungendo gradualmente altri musicisti. Ad uno ad uno tutti
gli ex membri del gruppo ritornarono, e Lindsay se ne andò. A
quel punto ci chiamavamo The Wooden Birds – che erano, di fatto, i Pere
Ubu con un altro nome. Invitammo Scott Krauss, il vecchio batterista
del gruppo, a suonare con noi quando fummo a Cleveland, e rimase. Fu
a quel punto che il manager degli Ubu disse "Se vi chiamerete Pere
Ubu potrò ottenere più soldi, un contratto discografico
come si deve e un sacco di concerti in più, perché gli
Ubu sono un gruppo famoso, ed è il nome quello che vendo, non
le persone." Accettammo. Non c’è motivo di rimanere sorpresi.
Io ho iniziato in gruppi rock e sono sempre stato interessato al rock
e alle canzoni. Ubu è una buona rock band e scrive buone canzoni
rock. Ho spesso partecipato a progetti simili: Art Bears, Hail, Kalahari
Surfers, The (ec) Nudes, il Blegvad Trio e, direi, Cassiber – tutti
gruppi di canzoni, che avevano tutti una base rock. Non so quale idea
alcuni avessero di me – forse è come la storia dei sette Bramini
ciechi e dell’elefante: tocchi la proboscide e pensi sia un serpente,
tocchi una gamba e pensi sia un albero, tocchi una zanna e non ti sembra
più neanche un animale. Ma è ad ogni modo un elefante,
e tutte le parti del corpo gli appartengono.
Dato
che fai tante cose potrebbe sembrare strano che io ti chieda di una
cosa che non stai facendo; mi riferisco al Quarterly, una tua iniziativa
che mi piaceva molto: si ascoltavano artisti che altrimenti non si sarebbero
mai nemmeno sentiti nominare e si leggevano articoli sul fare musica
ricchi di informazioni e al contempo chiari. Com’è il Quarterly
al momento, "in sonno" o cosa?
Ho iniziato
a fare il Quarterly nel 1984 perché mi sembrava che ci fosse
bisogno di una cosa di quel genere. Innanzitutto un sound magazine –
non un sampler o una compilation, ma una finestra su ciò che
accadeva, saggi sulle possibilità del suono, presentazione di
nomi nuovi. In secondo luogo, un giornale stampato senza le solite interviste
e recensioni, evitando il linguaggio e il modo di vedere le cose della
stampa musicale più insulsa, che al posto del ragionamento e
del contenuto mette liste di aggettivi, paragoni e associazioni verbali
soggettive con l’aggiunta di un po’ di materiale promozionale. E’ sempre
stato difficile trovare materiale di qualità in quantità
sufficiente per il Quarterly, e così ci voleva un sacco di tempo
per preparare ogni numero. Inoltre io non sono un direttore a tempo
pieno e il giornale paga pochissimo
chi collabora, e in più ha una tiratura molto piccola. Quindi
il rapporto tra sforzi e risultati è sfavorevole. Inoltre non
ricevo contributi di alcun genere, e ogni numero è in perdita,
o a stento va in pari. Ma c’è dell’altro: non ricevo quasi nulla
che non sia stato commissionato, e quindi ogni numero rappresenta una
quantità di lavoro enorme. Lo faccio quando posso. Finché
la situazione rimane questa ne farò un numero ogni due anni.
La risposta alla tua domanda è quindi, credo, che dopo 15 anni
il Quarterly esiste se io lo faccio esistere, e il responso è
stato così piccolo – non ricordo di aver mai ricevuto una lettera, né ci
sono state recensioni degne di questo nome – che non è più
una priorità. Gli ho dedicato un impegno notevole. Ora ci sono
i "Sourcebooks", che appariranno, o no, quando avrò
materiale a sufficienza o quando mi sentirò incoraggiato a impegnarmi
di più, o in risposta a un entusiasmo maggiore. No, non è
"in sonno". Credo ancora che questa sia una risorsa dotata
di valore, e continuerò a produrli. Ma nel tempo appropriato.
Dato
che abbiamo parlato del Quarterly: sei stato sempre interessato al discorso
teorico sulla musica (tra parentesi: il tuo libro, File Under Popular,
è ancora in stampa?); ricordo che una dozzina d’anni fa hai dato
un’intervista alla statunitense Sound Choice in cui, parlando dell’ascolto
"informato e attivo", hai citato quale esempio un film di
Hitchcock, Rope, e come il sapere "com’è fatto" cambi
il nostro modo di vederlo. Come vedi la situazione in rapporto alla
stampa musicale, considerato il modo in cui parla dei dischi – tuoi
o di chiunque altro – e l’approccio che essa "suggerisce"
all’ascoltatore?
Innanzitutto
il mio libro è ancora in catalogo – qui, negli Stati Uniti, e
anche in giapponese, tedesco e polacco. Sto pensando di pubblicarne
un altro. Mi chiedi il mio parere sulla situazione attuale per ciò
che riguarda la stampa musicale? Se mi importasse molto sarei depresso
per il fatto che dopo 35 anni non esista nessun discorso critico serio
sui campi musicali in cui mi trovo a operare che sia paragonabile a
ciò che è stato elaborato a proposito della musica "seria",
del cinema, del teatro o della letteratura. Non ho niente contro l’entusiasmo,
ma vorrei qualcosa di più – almeno in un giornale. Quindi posso
dire che i miei interessi rimangono ancora non soddisfatti. E’ per questo
che ho fatto il Quarterly. Il livello generale dei giornali musicali
inglesi che conosco è insignificante e superficiale. Senza eccezioni.
Poi si salta immediatamente a cose quali Popular Music, un giornale
scritto in un linguaggio accademico stretto, niente affatto rivolto
al lettore comune che fosse interessato. Finché non c’è
alcun discorso teorico-critico serio questo campo rimarrà in
ombra. Forse dovremo aspettare altri 10/15 anni. Ma accadrà.
Vorrei
tornare un momento all’argomento "canzoni", dato che mi pare
ci sia un album in uscita – The Science Group – che, dai nomi che ho
visto, si preannuncia interessante…
Per alcuni
anni ho lavorato a testi che trattano di argomenti di fisica teorica,
cosmologia e altre scienze "dure". Li ho poi dati a Stevan
Tickmayer, assieme al quale stavo preparando delle musiche per il coreografo
ungherese Josef Nadj. Conosco Stevan da anni – ci siamo incontrati per
la prima volta a Novi Sad nei primi anni ottanta. Poi lui si è
trasferito in Olanda e ha studiato con Louis Andriessen. Le canzoni
sono estremamente complesse, composte in modo denso, ma risultano dirette,
e potrebbero perfino essere chiamate rock – di un certo tipo. Ma potrebbero
anche essere chiamate in un altro modo; infatti spero che si avvicinino
ad essere qualcosa di nuovo. Amy Denio e Bob Drake cantano, Fred suona
il grosso delle parti di chitarra, Claudio Puntin il clarinetto e il
clarinetto basso, Stevan le tastiere, campionamenti e manipolazioni
elettroacustiche e Bob il basso, un po’ di chitarra e di batteria, oltre
a curare la parte tecnica e il missaggio. Non somiglia a niente che
io abbia fatto o ascoltato. E forse ci vorranno molti ascolti prima
di farci l’orecchio. Ci sono un sacco di informazioni che ti arrivano
addosso come un’inondazione.
Dato che
ho nominato Novi Sad vorrei dire che considero ciascun civile ucciso
in Yugoslavia un assassinio e un crimine di guerra. E intendo tanto
i leader della Nato quanto il governo della Yugoslavia. Nessuno ricorda
il perché abbiamo fondato le Nazioni Unite? Se questo è
il modo in cui andrà il nuovo millennio spero che gli scarafaggi
facciano un lavoro migliore del nostro quando ci estingueremo per colpa
di noi stessi.
Parli
del modo tragico in cui vanno le cose in quella parte d’Europa, e oggi
è il primo maggio – una data simbolica per i lavoratori di tutto
il mondo. Tu hai sempre avuto una posizione politica esplicita – ricordo
quando hai pubblicato quel disco per aiutare i minatori allora in lotta
col governo Thatcher – e il modo in cui fai le cose, siano tour o l’etichetta,
è sempre stato coerente con i tuoi ideali…
E’ difficile
non avere una posizione politica: siamo esseri umani inevitabilmente
socializzati in una comunità con un linguaggio, dei valori, una
cultura, e quindi è impossibile non avere una posizione etica,
che ad un certo punto si cristallizzerà in una posizione politica.
Il punto è quanto sia informata, ragionata, coerente e conscia
tale posizione. Le persone che affermano di non avere nessuna posizione
politica sono o non consce della posizione che assumono o credono che
conformarsi in maniera acritica allo status quo sia qualcosa di neutrale,
come se i pregiudizi di un qualsivoglia gruppo siano scevri di valore.
E quindi, sì, credo di poter dire che la mia posizione è
sempre stata chiara, cioè a dire conscia, dichiarata e le mie
azioni coerenti con essa.
Iancu
Dumitrescu è un nome che ho conosciuto grazie al tuo lavoro di
distributore. Vuoi dirmi qualcosa di lui? Tra l’altro, se non sbaglio,
lo hai anche conosciuto personalmente.
Come Stevan,
anche Iancu fa parte del mondo della musica contemporanea, di cui è
un esponente di assoluto riguardo. Era il protégé del
leggendario Celibidache, e ha sperimentato approfonditamente per trentacinque
anni un approccio al suono e alla sua organizzazione che tiene in speciale
considerazione il suo aspetto fenomenologico e l’analisi spettrale.
Lavora con "l’interno" del suono, chiedendo – e ottenendo
– dai musicisti con cui collabora grande intensità e forza. Ci
sono degli ottimi musicisti in Romania, che lavorano nelle orchestre
ma che sono pronti a impegnarsi per ore ed ore in altre musiche se ispirati
da qualcuno come Iancu, che è un tipo molto esigente, ma per
motivi appropriati e con ottimi risultati. Ho recentemente lavorato
con lui, con Ana Maria Avram, la sua partner e anche lei una grande
compositrice, con Tim Hodgkinson e l’Hyperion Ensemble. Abbiamo fatto
concerti per la Radio Rumena e in Francia. Una grossa esperienza. Inoltre,
su un piano personale, ho suonato percussione "classica" nell’ensemble,
il che è stato una gioia. E’ una grande sensazione essere un
solista in una musica di quel tipo avendo dietro un così bell’ensemble.
Contiamo di proseguire il nostro rapporto.
Mi spiace
dirlo, ma credo di non aver mai sentito nominare Celibidache…
Celibidache
è stato un direttore d’orchestra davvero geniale, che rifiutò
di registrare perché interessato solo alle esperienze reali di
persone vere in tempo reale.
Se non
ti spiace vorrei andare un po’ indietro nel tempo; il primo brano del
secondo album degli Henry Cow, Unrest, "riconosce il suo debito
nei confronti del brano di O. Rasputin Got To Hurry, eseguito dagli
Yardbirds". Stamattina, per motivi non correlati alla nostra conversazione,
ascoltavo Hendrix – Electric Ladyland. Non so se tu abbia mai visto
gli Yardbirds, gli Who, i primi Pink Floyd ecc. dal vivo – te ne sei
occupato nel tuo libro. Ciò che trovo strano è che in
quel periodo musiche creative e di qualità andavano in classifica
e venivano pubblicate dalle grosse case discografiche – pensa a Zappa
o ai Velvet sull’altro lato dell’Atlantico – oltre ad essere viste da
una enorme quantità di persone – pensa ai Cream. Ricordi qualcosa di
quel periodo, e hai idea del perché ad un certo punto le musiche
più creative smisero di interessare le major?
Andavo
a vedere gli Yardbirds quasi ogni settimana, e ho visto la maggior parte
dei concerti dei primi Who, Hendix, Floyd, Soft Machine – e anche di
altri gruppi molto interessanti il cui nome non è sopravvissuto.
E’ stato un periodo dinamico nella storia del rock, e sono stato tanto
fortunato da prendervi parte: il gruppo in cui suonavo a quel tempo
faceva lo stesso tipo di musica negli stessi posti. Allora c’erano solo
le major e le "piccole major": Motown, Stax e così
via – entità indipendenti ma sul palco principale. Era un monopolio.
Solo Sun Ra, che io ricordi, aveva la sua piccola etichetta autogestita;
c’erano anche pochissime indipendenti come la ESP e la Folkways, che offrivano
un catalogo specializzato, per pochi. Quindi, se volevi fare un disco,
dovevi per forza mandare un demo alle major, nella speranza che una
di esse volesse sfruttarti. Non sembrava esserci alcun’altra possibilità.
Avendo tutto il territorio a disposizione le major coprivano tutti i
generi – la classica, il pop, il parlato, l’easy listening, il folk,
il novelty, il jazz. Un aspetto positivo di ciò era che, così
come le case editrici, da parte di frange della committenza c’era spazio
per immaginazione e onestà. Specialmente nei tardi anni ’50,
quando il mercato iniziò a espandersi rapidamente per poi sfociare
nell’era creativa dell’A. & R. (Sta per "Artist and Repertoire",
una figura polifunzionale nell’organigramma delle case discografiche.
Ndi)
Con l’avvento
del punk alla fine degli anni ’70 tutto cambiò. Col punk arrivò
l’etica del fai-da-te e dozzine di etichette indipendenti o possedute
da artisti. Segnò un nuovo modo di operare che da allora non
è più cambiato. Ma facci caso: se un disco di fonte indipendente
vende davvero bene una major l’ assorbirà, e così qualche
disco interessante viene ancora pubblicato in questo modo (alcuni citerebbero
quali esempi Tom Waits o Bjork). Comunque, ora che le indie fanno il
lavoro di base le major non hanno più bisogno di farlo. La vecchia
politica era di lanciare una gran mole di materiale verso il pubblico
e vedere cosa funzionava, per poi sostenere e imitare ciò che
aveva avuto successo. La nuova politica è quella di concentrarsi
sui dischi che vendono in modo enorme e di farli vendere ancora di più,
o creare cose che vendano immediatamente moltissimo – il che vuol dire
spese più grosse per pompare e promuovere e occuparsi meno di
materiale che non si sa quale risposta potrà avere.
Quando
è finita l’egemonia delle major è finita anche la vecchia
idea del mainstream – mentre, e tale era la situazione negli anni sessanta,
sotto un controllo centralizzato era ancora possibile avere un’idea
di tutta la gamma della musica registrata, dato che le grosse case discografiche
erano in grado di assicurare la propria presenza nella maggior parte
dei negozi e alla radio. Inoltre con un numero limitato di etichette
c’era un limite alla quantità di materiale in circolazione. Una
selezione, potremmo dire. In conseguenza dell’espandersi del numero
di etichette indipendenti, o gestite direttamente dagli artisti, ci
fu un’enorme proliferazione di materiale – troppo per seguirlo tutto
– parallelamente alla quale avvenne una rapida crescita di comunità
specializzate e network di distribuzione e di informazione, dato che
molto poco di quanto usciva andava in radio, e il budget che le piccole
etichette avevano a disposizione per la pubblicità era esiguo.
Di necessità un’intera infrastruttura alternativa cominciò
ad emergere: fanzine, vendite per corrispondenza, negozi specializzati
e via dicendo; era puramente una faccenda di sopravvivenza. Risultato:
una massiccia frammentazione, e la scomparsa di interi generi di musica
dai media. Ma questo non è un fatto specifico dell’ambito musicale;
una tale frammentazione è profondamente presente in tutti gli
aspetti della società moderna, tanto che potresti definirla una
condizione della vita urbana contemporanea. Nella maggior parte dei
casi solo la panna e la schiuma affiorano alla superficie – ciò
che le major vogliono vendere o che i mass media trovano sexy – e di
tanto in tanto qualcos’altro, che nasce nella disattenzione dei media
ma erompe direttamente verso il pubblico in tali quantità da
non poter essere ignorato. Per il resto, ogni sottocultura si prende
cura di sé e solo il tempo separerà ciò che è
importante dal resto. Per un artista operare in buona fede è
l’unica guida; la popolarità o l’accettazione da parte dell’industria
hanno connessioni tenui con la qualità artistica.
Una risposta
semplice potrebbe essere che la musica creativa potrebbe – e di tanto
in tanto lo è – essere ben accolta dalle major, se vende in grandi
quantità. Se andiamo al sodo sono i contabili che dirigono le
società – e a loro non importa se è il Mein Kampf o il
Manifesto: basta che si venda bene. Pensa al rap.
Al momento
in cui parliamo sta per uscire il cofanetto beefheartiano. Tu hai conosciuto
Drumbo (e Beefheart), e di recente ho visto che sul tuo sito ti sei
occupato del libro di Zoot Horn Rollo. Che pensi di tutta la faccenda?
Don e la
prima Magic Band furono autori di sviluppi rivoluzionari nel rock e
nel blues; è un lavoro di tale splendore da farmi credere che
il suo posto nella storia della musica sia assicurato. Si sono guadagnati
l’immortalità. Il resto è pettegolezzo. Non sono contro
il pettegolezzo, e nel lungo periodo credo che un esame delle dinamiche
sociali dello sviluppo e della produzione di un tale lavoro sia importante
ed istruttivo. Ma una risposta in un’intervista non è il luogo
più appropriato; ci vorrebbe un libro.
Un campo
che mi interessa molto è, per usare la definizione varesiana,
quello chiamato "suono organizzato"; e qui hai fatto la tua
parte nel rendere disponibile questa musica, dalla distribuzione di
lavori di Schaeffer e Dockstader alla pubblicazione di artisti che sono
tra i miei preferiti di sempre, dagli ZGA (in particolare The End Of
An Epoch) ai Biota (tutto, ma ho una debolezza per Tumble), alla "feedback
music" di David Myers e, tra i nomi più recenti, gli Ossatura.
Se non vado errato hai scritto una volta che molte uscite "noise/elettroniche"
richiedono l’attenzione dell’ascoltatore ma che spesso tale impegno
non viene ripagato dalle qualità di organizzazione del materiale.
A tuo parere, qual è la situazione attuale per ciò che
riguarda l’uso dei mezzi elettronici negli stili "post-industriali"?
Mentre
trovo interessante il modo in cui i primi esperimenti nel campo della
musica "seria" – la "musica concreta" e la "musica
elettronica" – vennero recepiti in un ambito culturale "basso",
grazie agli Who, i primi Floyd, il "Krautrock" e così
via, credo che non fu che con l’inizio della cosiddetta musica industriale
che il "rumore puro" acquisì un valore iconico quale
tipo di atteggiamento sonoro musicalmente neutrale (gli Who, i Floyd,
i Faust erano tutto fuorché musicalmente neutrali). Ciò
si accompagnò al rifiuto della bravura e della cultura musicale
che caratterizzò una parte del punk/new wave che rappresentò
la generazione post-Who/Floyd/Faust. La differenza principale tra le
generazioni è estetica. E nell’identificarsi con le persone o
con le macchine. E’, dopo tutto, facile produrre "suoni",
specialmente usando le nuove tecnologie (campionatori, computer) anche
se non hai nessuna istruzione musicale. Il che per me non costituisce
un problema; è un fatto liberatorio, può favorire l’evoluzione
di nuove forme musicali prive di pregiudizi e di vecchie abitudini.
Ma ciò rende la questione della qualità più – e
non meno – critica. L’ignoranza può sempre costituire un handicap,
ma non è automaticamente una virtù. Chiunque può
lavorare coi suoni, oggi, trovare buono il risultato e farne un CD.
La domanda per me rimane: perché? Perché fare un disco?
Perché questo tipo di suono e non quell’altro? Per chi e per
quale ragione? Dato che ho un’etichetta mi arrivano un sacco di CD e
cassette. E sempre di più sono basati su drones, loop e "noise".
Alle mie orecchie il 90% di essi risultano tutti uguali in modo noioso
(ovviamente l’America può essere scoperta solo una volta). Noioso
perché non riesco a trovarvi nessuna struttura organizzativa,
nessun contenuto, nessun motivo perché abbiano bisogno di esistere.
Non li capisco (anche se ovviamente migliaia di persone sì).
Per me esiste il suono che ha un significato; che ha un valore estetico
(e quindi non lo chiamerei noise: Dockstader, AMM, ZGA, Biota sono buoni
esempi – direi piuttosto che è una musica fatta con risorse utilizzate
fino in fondo in modo creativo). Poi c’è un suono che è irritante
e informe (in modo tale da continuare ad essere, per me, nient’altro
che rumore – un suono non voluto). Per i miei gusti esiste fin troppo
della seconda categoria e troppo poco della prima. Dopo tutto, fare
una musica nuova con suoni nuovi è un compito difficile, non
facile. Richiede che una quantità di problemi vengano risolti
e che tante domande trovino una risposta. Richiede un tipo di necessità:
una ragione per esistere piuttosto che non esistere. E’ più difficile,
non più facile di altri tipi di musica, perché le convenzioni
non esistono ancora e devono essere proposte in modo convincente. E
se in questa musica io non sento innovazione, un filo musicale, una
storia ben raccontata, una riflessione critica, eliminazione del superfluo,
scelte intelligenti, senso del colore, proporzione, struttura, contenuto
emotivo, sviluppo, tensione, necessità – allora sento solo rumore.
D’altra parte, nutro un particolare senso di ammirazione per i lavori
in cui percepisco queste qualità.
Dunque:
il meglio che posso fare è spiegare le ragioni dei miei pregiudizi
personali. Sono contento che chiunque possa far uscire qualunque CD
voglia e avere l’opportunità di trovare un pubblico. Ma ciò
non vuol dire che io pensi che ogni proposta sia di uguale valore o
ugualmente priva di valore. Ma dov’è il discorso critico? In
quale linguaggio può essere formulato?
Per
tornare agli Henry Cow, a me piaceva molto la "sezione ritmica"
Cutler/Greaves, e sono un grosso fan del suo lavoro da solista; devo
però dire di avere avuto l’impressione che, dato che i suoi album
da solo sono stati principalmente album di canzoni, il suo lavoro post-Cow
sia stato forse considerato in un certo qual modo "meno valido"
rispetto alla produzione degli altri ex componenti del gruppo. Voi due
avete di nuovo suonato insieme, su disco e in concerto, con Peter Blegvad…
John è
stato, dopo Fred e Tim, un membro fondatore degli Henry Cow; sono stato
nel gruppo con lui per sei anni, e posso dire che egli è stato
una parte essenziale degli sviluppi
del gruppo. E continuiamo a condividere il linguaggio che abbiamo formulato
insieme in quegli anni formativi. Penso ti riferisca al fatto che le
nostre traiettorie post-Cow sono state alquanto differenti. E com’è
noto John se ne andò prima dello scioglimento, quando sentì
che la musica stava diventando troppo complessa e cerebrale. Penso di
poter fare due osservazioni. In primo luogo Tim, Fred, Lindsay e io
non solo continuammo, come John, in progetti di buona visibilità
dopo la fine del gruppo, ma anche sempre di più in contesti che
riguardavano l’improvvisazione, integrandoci a poco a poco nel mondo
mainstream dei festival e delle combinazioni ad hoc – oltre ad operare
in contesti rock e di musica composta. Come ricorderai, John – come
anche Fred e io – lavorò dapprima ad un lp di canzoni (qualcosa
che gli Henry Cow non avevano mai affrontato) e poi continuò
nei National Health, lavorando poi in contesti di gruppo e dedicandosi
alle sue canzoni. Non entrò mai nella comunità degli improvvisatori
propriamente detta (sebbene continuasse a improvvisare – fece anche
parte di una band con Elton Dean e Mark Hewins alla fine degli anni
’70). Direi che John, come Fred, era una persona il cui nucleo musicale
era di tipo espressivo ed emotivo e non principalmente intellettuale.
Non sto esprimendo un giudizio di valore, né privilegiando un
approccio rispetto ad un altro – ambedue sono essenziali e ambedue producono
ottima musica. Ma ciò comportò che il resto degli ex membri
del gruppo venne associato in modo molto più visibile al mondo
della musica composta, della "musica liberamente improvvisata",
della art music e degli esperimenti noise molto più di John –
sebbene, se ci rifletti, lui abbia collaborato con Peter Gordon e Michael
Nyman e abbia fatto parte dei progetti su larga scala di Michael Mantler,
oltre a scrivere musiche per il teatro e a partecipare a cose di David
Cunningham, della Penguin Café Orchestra e ai Pedestrian di David
Thomas. Guardando indietro è possibile che a uno sguardo esterno
i luoghi della nostra visibilità successiva possano rendere molto
improbabile l’idea di una nostra passata comunanza. Ma gli Henry Cow
erano in effetti una miscela eterogenea – il che fu probabilmente la
ragione per cui fu così interessante farne parte e il motivo
che li fece procedere su un cammino così diverso. Fred veniva
dai club folk, John dalla dance band di suo padre a Wrexham, Tim era
ispirato da Coltrane, Lindsay si formò nella National Youth Orchestra
ed io arrivai nel gruppo da una band di rock psichedelico – chi avrebbe
scommesso su una tale chimera?
Come hai
detto, John e io abbiamo ricominciato a lavorare insieme a Peter Blegvad
sei anni fa, e ne sono felice. Primo: lavorare con lui è un piacere. Secondo: chi potrebbe fare
quel lavoro meglio di lui? Va detto infine che quando noi (il Blegvad
Trio) siamo stati di recente in Giappone abbiamo fatto tre spettacoli
diversi (molto conveniente per il promoter – tre serate con tre biglietti
d’aereo): John ha fatto un programma in solo (piano e voce), il Blegvad
Trio ha suonato le canzoni di Peter, io ho fatto un programma in solo,
e tutti e tre abbiamo improvvisato un set insieme – con Peter che leggeva
testi dal suo libro. Tante cose diverse sotto un solo tetto – molto
simile ai vecchi tempi, infatti.
Vorrei
che mi dicessi la tua a proposito dello stato attuale della batteria.
Io continuo a preferire gli stessi groove fluidi della Stax/Motown che
mi piacevano quando avevo i pantaloni corti – "respiravano"
– agli strati di batteria elettronica dei successi di oggi; forse i
miei gusti sono old-fashioned. Ma quello che oggi mi pare carente è
un approccio innovativo in un contesto batteristico di alto livello
inserito in una musica parimenti innovativa – cosa che avvenne negli
anni ’60 (Keith Moon, Ginger Baker, Mitch Mitchell, Robert Wyatt…)
e ’70 (tu, Christian Vander, Daniel Denis…). E’ da tanto che non
mi capita di vedere un "buon batterista" – e non intendo dire
"tecnicamente bravo". Che mi sto perdendo?
Sono i
musicisti a fare la musica o è la musica che fa i musicisti?
Potresti dire che Henry Cow ci fece diventare ciò che diventammo.
E naturalmente fummo noi a fare Henry Cow ciò che fu. Il fatto
è che imprese collettive come la nostra evolvono lungo un processo
dinamico reciproco nel quale le identità dei singoli passano
per un continuo processo di adattamento, con le abilità individuali
che si sviluppano in modi specifici. Si impara, si viene ispirati, si
prende e si dà – il risultato finale non dipende da un singolo
elemento. La Magic Band non era solo Un Genio e un gruppo di comprimari
– motivo per cui era un grande gruppo, mentre la band del periodo Virgin
non lo era; e la stessa cosa, direi, vale per le prime Mothers, ottimo
gruppo, mentre le formazioni successive di Zappa, quando faceva tutto
lui, non erano granché. Direi dunque che la domanda potrebbe
essere posta così: che tipo di gruppi abbiamo oggi, e che tipo
di musicisti essi producono? Oppure: se tu fossi un musicista innovativo,
alle condizioni presenti, è il rock il campo in cui decideresti
di lavorare?
Dalla metà
degli anni ’60 fino ai primi anni ’70 il clima generale per quanto riguarda
il rock fu un clima di sperimentazione e innovazione – sia nel mainstream
che per quanto riguarda le frange. Ho citato Beefheart e Zappa, potrei
aggiungere i Beach Boys del secondo periodo, i Beatles, Hendrix, i Pink
Floyd di Syd Barrett – tutti ebbero dei singoli di successo, tutti ampliavano
i limiti del rock. Noel Redding era perfetto per Hendrix e Mitchell,
ma lo sarebbe stato in un altro gruppo? Sarebbe stato Hendrix ugualmente
strepitoso con un altro gruppo? Dubito di tutt’e due le ipotesi. Allora
il rock era giovane, e cercava la propria strada. Ma quei tempi sono
passati da un pezzo. Il punk ha ridicolizzato la tecnica, e ha posto
quali valori essenziali il suono, la ripetizione, la presenza e la personalità
del cantante, respingendo la tecnica nell’altra grossa subcultura, l’heavy
metal, dove si è ossificata e codificata in un set di norme così
opprimenti da cui non è mai riuscita a liberarsi – in ciò
aiutata, devo dire, da un vasto pubblico che era ostile ad ogni cambiamento.
Il punk sparì velocemente e gli anodini successori della new wave continuarono a porre
l’enfasi sui cantanti e sulla produzione. Le qualità insite nel
saper suonare non erano più richieste e la musica pop divenne
MOR (Middle of the Road, cioè a dire musica leggera nel senso
deteriore. Ndi) cessando di essere, per come la vedo io,
un campo di crescita vitale. Il che non vuol dire che non venissero
scritte belle canzoni, o che non venissero pubblicati bei dischi, ma
che né le une né gli altri avevano più niente a
che fare con l’abilità strumentale. La generazione successiva
ricominciò a sperimentare, ma non con i vecchi strumenti, bensì
con campionatori e computer e apparecchiature bell’e fatte, alle quali,
di nuovo, né l’abilità strumentale né un uso espressivo
della tecnica erano applicabili in modo significativo.
Oggi all’innovazione
e alla sperimentazione si attribuisce un valore trascurabile, e i gruppi
non hanno molta spinta a innovare e sperimentare. Ed è poco probabile
che chi vuole innovare si unisca a loro, preferendo oggi cercare altri
sbocchi. E ovviamente i DJ devono osservare le regole, dato che la musica
che fanno non è musica "da concerto", per l’ascolto,
ma una musica funzionale per il ballo. Ad ogni modo devo dire che, per
quanto riguarda le produzioni rivolte al grosso pubblico, la dance è
il luogo dove si producono gli esperimenti e le innovazioni, anche se
queste innovazioni non hanno niente a che vedere col suonare così
come la nostra generazione lo intendeva. Nel mondo del Britpop-MOR la
personalità dei musicisti non è determinante. E per ciò
che riguarda il rap, sebbene la tecnica e le abilità individuali
separino le cose buone da quelle scadenti ciò riguarda solo i
cantanti e i produttori. I musicisti sono invisibili. In generale i
giovani non vanno a vedere un gruppo, come facevamo noi negli anni ’60,
perché ha un buon bassista, un buon batterista o chitarrista
(il che era un fatto importante per chi andava a vedere gli Yardbirds,
gli Who, Hendrix e così via). Se vuoi vedere musicisti oggi vai
a vedere un concerto di jazz, o di musica improvvisata, o di country
o di heavy metal.
Nei giorni
in cui il rock era un genere in crescita gli ascoltatori riconoscevano
e apprezzavano cose quali tecnica, stile, innovazione e tocco. Nel pop
di oggi sono soprattutto le macchine a produrre suoni nuovi, tenere
il tempo e fornire lo sfondo al cantante. La qualità che chiamavamo
"feel", così essenziale, ad esempio, nel suono Motown,
è oggi largamente irrilevante. Al momento attuale i valori della
produzione hanno largamente trionfato nella creazione
del prodotto discografico, e oggi sono questi i valori che il pubblico
riconosce. Gli esseri umani sono bravi nel "feel", ma le macchine
creano meno problemi: sono perfette, non hanno opinioni, e non commettono
errori. Inoltre hanno una personalità neutrale – e lasciano così
il campo libero al cantante e al produttore. Qualcosa di simile sta
accadendo nell’industria cinematografica. Ma devo dire che non credo
che questa situazione durerà molto a lungo. La natura aborre
il vuoto, e ciò che è umano prima a poi prevarrà
©
Beppe Colli 1999 – 2005
CloudsandClocks.net
| July 28, 2005