Intervista a
Joseph Byrd
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di
Beppe Colli
Aug.
26, 2004
Quella
che segue – e che vede quale interlocutore Joseph Byrd: compositore,
arrangiatore, polistrumentista, sintetista e quant’altro – è
forse l’intervista fonte di maggiore soddisfazione personale per chi
scrive, per i motivi che saranno evidenti tra breve. La qual cosa potrebbe
lasciare del tutto indifferente chi ci legge – non fosse per il fatto
che Byrd è stato la vera (e unica) ragion d’essere di due album
(giustamente) celebrati, anche se (ahimè) da un’esigua minoranza:
il più volte ristampato The United States Of America, emanazione
nominale del gruppo omonimo; e The American Metaphysical Circus. Tanto
basterebbe per consegnare Byrd alle enciclopedie della musica rock "che
conta". E a dire il vero tanto è bastato a dei colleghi
d’oltremanica, che in una di quelle retrospettive che sono tipiche di
quelle terre e che – almeno nelle intenzioni di chi le scrive – si vorrebbero
trendy a tanto si fermarono, anticipando di quasi un decennio la "scomparsa"
di Byrd. In realtà c’erano stati anche due album di sintesi applicata
a materiali in buona parte tradizionali: A Christmas Yet To Come (1975)
e Yankee Transcendoodle (1976), entrambi pubblicati dalla Takoma. E
successivamente un lavoro di coproduzione e arrangiamento su Jazz di
Ry Cooder (1978). Dopo di che Byrd sembrò effettivamente scomparire.
Per molti
anni ci chiedemmo che fine avesse fatto. Dato il suo background accademico
non era difficile immaginarlo intento a insegnare musica in qualche
college, magari in California. Tentammo, ma era come cercare il classico
ago nel pagliaio. I nostri peggiori presentimenti sembrarono però
trovare conferma il giorno in cui ricevemmo (per errore!) una copia
di Unknown Legends Of Rock ‘n’ Roll, il volume di Richie Unterberger
pubblicato nel 1998: sì, davanti ai nostri occhi c’era un capitolo
dedicato a The United States Of America; però gli unici intervistati
erano Dorothy Moskowitz, la cantante; e David Rubinson, il produttore.
Byrd veniva citato, ma soltanto al passato.
Il lettore
è a questo punto invitato a immaginare la faccia di chi scrive
quando – durante la lettura mattutina dei quotidiani in Rete – ci trovammo
a leggere su Salon un articolo di Damien Cave intitolato Musician To
Napster Judge: Let My Music Go (April 23, 2002). Laddove si diceva di
un musicista degli anni sessanta, Joseph Byrd, adesso professore di
music history al College di Redwoods, in Northern
California. Nel giro di pochi secondi partiva una lettera per Damien
Cave, e poco tempo dopo ci giungeva risposta da parte di Byrd.
La
presente conversazione è avvenuta via e-mail durante la prima
settimana di agosto.
Per
prima cosa vorrei chiederti qual era il modo in cui percepivi la "scena
rock" nel 1967 – il 1967 essendo naturalmente l’anno che è
convenzionalmente considerato quello in cui il rock divenne stilisticamente
più aperto a influenze sia "esterne" che "colte".
Parlando in generale, pensa a Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band
dei Beatles, Frank Zappa, i Cream e a gruppi inglesi "non ortodossi"
quali i Pink Floyd e i Traffic. Anche un gruppo come i Doors integrava
nella sua musica molte componenti stilistiche. Percepivi il tuo lavoro
come (in qualche modo) facente parte di quel paesaggio? Quali erano
i tuoi scopi coscienti nel fondare un gruppo come The United States
Of America?
Sgt.
Pepper ha influenzato assolutamente tutti, e in effetti era uno degli
argomenti che adoperavo per mantenere il gruppo sul binario giusto (il
mio binario, naturalmente). Zappa non era affatto influente in un modo
lontanamente paragonabile, qualunque cosa i suoi fan amino credere.
A quei tempi gli piaceva soprattutto essere volgare e offensivo, e così
il gruppo (durante il breve periodo in cui era ancora un "gruppo",
a differenza dalle cose successive che vedevano la presenza di diversi
ensemble di musicisti) non aveva molta voce in capitolo. D’altra parte,
il suo tipo di satira, più ampio, era più accessibile
del mio, che era più insidioso (o almeno così mi piace
pensare).
Non
ho mai incontrato nessuna di queste persone, sebbene ovviamente ne ascoltassi
la musica. Se mi hanno influenzato, è stato in modo inconscio.
Mi è già capitato di fare i nomi dei gruppi che ero cosciente
di emulare: gli Airplane, i Fish (Country Joe) e i Blue Cheer; c’è
stato un gruppo interessante anche se poco conosciuto chiamato The Great
Society (Grace Slick con il suo allora marito Darby) che mi ha influenzato,
e mi piacevano molto i Red Crayola, sebbene non cercassi davvero di
prendere roba da loro.
Quello
di esplorare nuovi territori era un mio obiettivo intenzionale. No,
non c’era una "scuola" della quale pensavamo di fare parte.
Come mi è già capitato di dire altrove, quello che consideravo
essere il mio gruppo di pari era la comunità artistica avant-garde.
Mi
piacerebbe farti una domanda a proposito di The American Metaphysical
Circus, il brano che apre l’album – e dato che non ho un’eccessiva familiarità
con il patrimonio musicale americano temo che ci saranno altre domande
come questa. Ti dispiacerebbe identificare i motivi musicali presenti
all’inizio e alla fine del pezzo? Come gesto compositivo le "orchestre
in movimento" mi ricordano Charles Ives. Ma perché proprio
questi pezzi?
Senza
andarlo a riascoltare, credo che le fonti siano (più o meno in
quest’ordine) National Emblem (una marcia degli inizi del XX secolo,
che ho suonato sulla calliope), At A Georgia Camp Meeting (una "coon
song", e uno dei primi pezzi di ragtime), The Red, White, and Blue
(una canzone patriottica conosciuta anche come Columbia, the Gem of
the Ocean), e Marching Through Georgia (una canzone del dopo Guerra
Civile composta da Henry Clay Work). Sono quattro. Se trovi un altro
pezzo fammelo sapere, me lo vado a risentire e ti faccio sapere.
Sì,
certo, il tributo a Ives, ma anche per dichiarare che eravamo fermamente
nel solco della tradizione americana di radicalismo artistico e politico
mescolato a patriottismo, e per rendere così evidente una "distanza"
psichica dai Beatles.
Perché
proprio questi pezzi? Beh, avevo fatto un album sulla Guerra Civile
per Time-Life, e mi sentivo molto a mio agio a lavorare nello stile
delle bande e dei circhi e della musica da saloon… A parte ciò,
sono state delle scelte del tutto personali. Ho arrangiato e diretto
in prima persona tutti i pezzi per banda, e ho fatto il piano ragtime
in due tentativi, dato che come suonatore di fisarmonica non avevo mai
avuto molta possibilità di suonare tanta sinistra sul piano.
La calliope risulta facile per un fisarmonicista (ce n’è una
nella Humboldt County che suono un paio di volte l’anno), così
me la sono cavata con una parte semplice per la mano sinistra, un’ottava
che fa toot-toot.
Mi è sempre piaciuto il fatto che – nonostante sia spesso
stratificato – il materiale registrato non suona mai "confuso"
– in questo senso specifico l’album mi ricorda molto i Beatles o Strange
Days, il secondo album dei Doors (e il loro primo su otto piste). Do
per scontato che hai dovuto fare un sacco di premissaggi. Ne vorresti
parlare?
Apprezzo
il fatto che citi la qualità non "confusa", dato che
per me era qualcosa di decisamente intenzionale. Per prima cosa, avevo
studiato con (e diretto) Cage e Feldman (e anche Mauricio Kagel and
Sylvano Bussotti). Poi, ritenevo che l’approccio in stile "wall
of sound" fosse orribile, destinato a produrre una poltiglia che
non aveva né maestosità né un fuoco. Che è
proprio dove i Beach Boys erano diretti. In effetti è dove i
Beatles sarebbero potuti finire senza la mano ferma di George Martin.
Il che non vuol dire che io ritenga che noi fossimo migliori di questi
due gruppi.
La
cosa interessante è che nell’album successivo mi sono messo a
"produrre in eccesso", con molte tessiture che suonano troppo
dense perché la musica possa cantare. Un esempio molto chiaro
di ciò è dato dalla versione inedita di You Can’t Ever
Come Down fatta dagli United States Of America paragonata a quella che
ho poi fatto sull’album per la Columbia Masterworks. La prima è
pulita e tersa, la seconda densa e fiacca. Qui ho imparato delle dure
lezioni, una delle quali è che autoprodursi è di solito
un errore. Ovviamente, dopo aver lavorato a una mezza dozzina di album
fu impossibile trovare qualcuno che avesse sufficiente esperienza, così
ho prodotto tutto io. Un buon esempio di produzione nitida è
l’album che ho scritto e prodotto per Ry Cooder – puoi vedere che avevo
imparato la lezione.
Alcune
cose sull’album – la prima parte di I Won’t Leave My Wooden Wife For
You, Sugar è un ovvio esempio – mi ricordano non poco Frank Zappa.
Sbaglio?
Molte
persone hanno fatto quel paragone, quindi non sbagli. Ma in termini
di averlo copiato, sì, è del tutto erroneo. Non mi piaceva
affatto quello che faceva – a mio parere suonava sciatto e messo assieme
alla meno peggio, e i sentimenti espressi erano immaturi, sciocchi ed
eccessivamente semplici. Ritenevo che Zappa scegliesse bersagli facili;
mentre io affrontavo tutta la cultura. Ovviamente questo non è
un esame critico di tutto il suo lavoro, solo quel che ho visto a quel
tempo. Devo dire che neppure lui aveva un’alta opinione di me.
A
proposito: com’è che la nuova edizione non ha i testi? Eppure
erano stati inclusi nella precedente ristampa su CD…
Il
mio input nella riedizione della Sundazed è stato meno dell’1%,
che è più di quanto prendo in diritti! Mi hanno mandato
un’e-mail chiedendomi se fossi interessato a scrivere delle note di
copertina, e ho ritenuto che questa fosse una possibilità di
fare sentire la mia voce – sia Dorothy che Rubinson avevano fatto delle
lunghe interviste nelle quali mi tiravano in ballo in modo poco piacevole
(immagino come giustificazione per il loro "colpo di stato").
Ho chiesto – e ottenuto – $300. Ti ho già scritto di come la
Sundazed abbia eliminato tutti i riferimenti che ha ritenuto controversi,
compreso uno su Bill Graham.
Ma
non sono stato interpellato a proposito di quello che hanno fatto, e
neppure avevo visto prima molte di quelle foto.
Ancora
a proposito di I Won’t Leave My Wooden Wife For You, Sugar: c’è
una sezione fiati non accreditata alla fine del pezzo, che suona…
Precious
Lord è come l’ho intitolato. Anni dopo mi sono imbattuto in un
pezzo assolutamente uguale in un libro metodista giapponese di inni
religiosi. Proprio quello che ogni compositore teme! Ed è la
stessa melodia di Gospel Music For Abraham Ruddell Byrd, sull’album
seguente. Così l’ho copiato due volte!
Riascoltando
l’album ho pensato che qualcosa del pezzo Coming Down ricordava la "musica
californiana" di quel periodo – la combinazione batteria/tamburello
mi ricorda qualcosa che Hal Blaine avrebbe suonato a quei tempi. La
tua opinione?
Mi
fa molto piacere che tu l’abbia notato. In seguito ho lavorato con Hal
Blaine (e in effetti ho una registrazione molto interessante con Blaine
sulla West Coast e Bernard Purdie sulla East), ma lui era il vero e
proprio metro di paragone della batteria rock, e ho lavorato con Craig
Woodson per catturare quell’effetto. Craig è il tipo che UNCUT
ha creduto fossi io.
Nelle
tue note di copertina ho letto che quando suonava dal vivo il gruppo
usava partiture su leggii. Perché non memorizzare le parti? (E’
solo una semplice curiosità personale.)
Non
c’era tempo, non c’era tempo! Avevamo già memorizzato discretamente
le parti quando abbiamo fatto il "tour" della East Coast,
ma in effetti nel nostro primo concerto a The Ash Grove avevamo suonato
della roba che avevamo provato per la prima volta quel pomeriggio, così
dovevamo per forza avere dei leggii.
In
tutto l’album è presente un forte elemento collagistico. Credi
che questa strategia compositiva abbia oggi lo stesso "significato"?
Era
mia intenzione integrare l’elettronica e i nastri nelle performance
dal vivo. (E se leggi la recensione sul gruppo fatta da Barry Hansen
vedrai che eravamo in grado di suonare dal vivo tutto quello che c’era
sull’album.) Era parte del mio concetto il fatto che non fossimo solo
un gruppo, ma un evento avant-garde. Nelle nostre performance c’erano
anche altri aspetti di arte performativa che cambiavano con il mutare
dei posti dove suonavamo.
Ciò
detto, non trovo molto collage nella musica americana, ma sembra avere
preso piede nelle band inglesi che ho citato – i Portishead, i Broadcast
e i Radiohead, e se quella è la mia influenza mi fa molto piacere.
Se
non vado errato hai studiato sia musica elettronica che concreta. Ritieni
che – sebbene ci siano stati notevoli avanzamenti pratici e teorici
nella sintesi (per esempio la "physical modeling") – il campionamento
sia oggi l’unica tecnica praticata?
Credo
che moltissimo venga perso nel campionamento. Per quei rari casi in
cui vuoi un effetto speciale che suona accordato, o per ridurre trentaquattro
secondi a trenta, è una benedizione, ma sembra produrre una "confusione
sonora", e questo non va bene.
Credo anche che molto sia andato perso con la scomparsa della sintesi
analogica: per esempio, non molto tempo fa ero in uno studio e il compositore
ha prodotto un suono, e io gli ho detto: "Questo potrebbe essere
davvero notevole se tu modulassi le armoniche superiori con un’onda
a dente di sega rovesciata", e lui… non lo poteva fare (ed è
una cosa davvero elementare). Così il digitale ha avuto quale
conseguenza quella di cedere il controllo delle decisioni artistiche
a conglomerati come la Yamaha. A questo punto della storia dovremmo
avere un numero infinito di opzioni, invece ne abbiamo di meno!
Bravo!
Sei riuscito a lanciarmi un’esca, e così faccio la figura di
un vecchio all’antica. Spero che adesso tu sia contento.
Reputi
che oggi esista ancora un’avanguardia?
Da
qualche parte ci sarà sempre qualcuno che fa qualcosa che sfida
il modo prevalente di pensare. Però uscire fuori dal seminato
è rischioso. Così perché esistano artisti che possono
continuare a lavorare sul limite, a produrre arte che non è in
grado di sostenerli materialmente, bisogna che essi siano o ricchi come
Yoko o asceti come Cage. Questo tende a cambiare l’equazione. Ho lasciato
quel mondo perché avevo trent’anni, ed era venuto il momento
che io mi guadagnassi da vivere. (Ciò detto, ho vissuto in povertà
per più di un decennio.)
Se
non ti dispiace vorrei farti qualche domanda sul tuo secondo album,
The American Metaphysical Circus. Prima che io lo dimentichi: chi è
il bassista non accreditato?
Harvey
Newmark. Non so perché non sia accreditato. E’ diventato un musicista
brillante, e ha registrato, con l’ensemble di David Sherr, musica tra
la più stimolante che mi sia capitato di sentire di recente.
Devo
confessare che anche se l’album degli United States Of America mi piace
molto il secondo album mi piace altrettanto, se non di più. Credo
che il non avere una tavolozza fissa – uno specifico gruppo di persone
– ti abbia reso possibile avere una maggiore varietà timbrica.
(Ma sospetto che tu non sia d’accordo.)
Beh,
mi piacerebbe aver avuto più soldi, migliori risorse con cui
lavorare (mi dispiace aver usato quei cantanti solisti, me compreso),
più tempo per scrivere le canzoni e un collaboratore con cui
scriverle. Come ho avuto modo di dire altrove, Dorothy non era innovativa
ma aveva senso dello stile e una musa fluente, cosicché coglieva
immediatamente il senso di una canzone e suggeriva la direzione nella
quale poteva andare.
Credo
che la diversa tavolozza sarebbe stata più efficace se il gruppo
avesse avuto un polo coerente. Intendo un centro a partire dal quale
suonare. A dire il vero non c’era alcun gruppo, solo Harvey, Pot, Ted
Greene e alcuni musicisti di studio.
No,
non mi dispiace aver scritto quello che ho scritto, ma se mi fossi potuto
permettere dei veri cantanti di studio per The Sing-Along Song… In
teoria doveva suonare come il Roger Wagner Chorale.
Cos’è
"Pelog" – il nome di una scala?
Sì,
è una delle due scale base del gamelan.
Di
nuovo a proposito della mia mancanza di conoscenza di quelle fonti:
nella canzone intitolata Patriot’s Lullaby a un certo punto sembra ci
sia un disco che suona in sottofondo – come un coro che canta… cosa?
(America The Beautiful?)
Buon
orecchio, Beppe! E’ quello che cantano, solo che l’ho leggermente modificato
per adattarlo all’armonia della canzone. E’ possibile che io abbia anche
cambiato un po’ le parole.
L’album
era dedicato a Ruddell Byrd – ma nella ristampa su CD la dedica è
incompleta. Come mai?
Mio
fratello minore, ora uno stimato medico a Tucson. Era un
contestatore della guerra del Vietnam che ai tempi in cui il disco fu
pubblicato era in prigione. Non ho contatti con la casa discografica,
e loro fanno quello che vogliono.
Potresti
dirmi qualcosa del pezzo chiamato Leisure World? Sospetto sia basato
su un motivo che non ho mai sentito.
Il
jingle della pubblicità è basato sulla melodia di Auld
Lang Syne, la sentimentale canzone folk scozzese che parla del ricordare
i bei tempi. E’ costume cantarla la notte di Capodanno. Leisure World
(http://home.earthlink.net/~jmartin/history.html) (che io consideravo
un orrore) era la prima comunità per pensionati, un posto dove
non era ammesso nessuno che non avesse compiuto cinquantacinque anni.
Adesso di posti così ce ne sono a migliaia, posti che all’età
di sessantasei anni considero altrettanto orribili di allora: una nave
da crociera per gente che ha abbandonato la vita reale.
Vogliamo
parlare di affari? Com’è che dopo quel secondo album non ce ne
sono stati altri?
Beh,
sicuramente non c’è stata alcuna richiesta da parte della Columbia!
Chi pensi avrebbe potuto pubblicarmi un album? Il mio "angelo"
per quel secondo disco fu John McClure, un tipo molto intelligente e
gentile che mi offrì di farlo uscire per la sua divisione, la
Masterworks, la divisione di musica classica della Columbia. Fatto interessante,
vendette molto bene per un album di "classica", ed è
l’unico album "rock" che abbiano mai pubblicato. E’ rimasto
in catalogo per più di quindici anni!
Ho
letto da qualche parte che hai avuto a che fare con i giocattoli parlanti
della Mattel e con la creazione di effetti sonori per qualche personaggio
di Star Wars.
Ho
fatto qualunque cosa pagasse, e la Mattel era uno dei miei clienti.
La storia di Star Wars è troppo lunga per essere raccontata qui.
Ho
comprato i tuoi due album per la Takoma al tempo in cui sono stati pubblicati.
Ti spiacerebbe chiarirmi quali erano le tue intenzioni musicali quando
hai registrato questo materiale?
A
dire il vero ce ne sono stati tre, l’ultimo era un album contenente
canzoni sentimentali della metà del XIX secolo.
La
Takoma mi contattò proponendomi di fare un album natalizio di
sintesi imitativa nel 1974, dicendo che non erano in condizioni di pagarmi
ma che mi avrebbero dato i diritti. Avevo delle attrezzature alquanto
primitive, ma a quei tempi lavoravo con Don Buchla, e ricorderai che
ho dato a Tom Oberheim la spinta per partire nel campo del suono elettronico,
così presi in prestito alcuni moduli e registrai quell’album,
cui fece seguito nel 1976 un album di canzoni patriottiche. Ai tempi
del secondo LP ero molto migliorato al riguardo, ma non avrei mai avuto
il tipo di attrezzature che aveva Walter Carlos, né avrei avuto
più di un registratore a quattro piste a 1/4".
Prima
hai fatto riferimento a una registrazione con Hal Blaine e Bernard Purdie.
Ti dispiacerebbe dirmi di più?
Nei
miei primi lavori per la radio avevo ancora un atteggiamento avant-garde;
in effetti alcune delle mie cose più interessanti sono state
le pubblicità per la radio. Almeno finché non ho incominciato
ad avere la fama di essere un anticonformista, il che non è esattamente
quello che le agenzie chiedono ai loro fornitori.
A
quei tempi mi muovevo su ambedue le coste, e capii subito che avrei
potuto ingaggiare musicisti di grosso nome per la stessa somma di danaro,
dato che le pubblicità – che pagano "diritti differiti"
– erano meglio degli LP. Così quando avevo bisogno di un batterista
prendevo Hal Blaine a Los Angeles e Bernard Purdie a New York. Il pezzo
di cui sto parlando era qualcosa che ho fatto come una "trovata"
per The Great American Radio Show, un convegno di gente che trasmetteva
che si tenne a Manhattan per festeggiare i cinquant’anni di pubblicità
radiofonica. Una cosa per cui ho fatto un certo numero di pezzi strani,
tra cui la mia "Radio Cantata," una omofonia nello stile di Handel su
Glory
to the unseen voice
That
changed the world in fifty years,
That
makes the Great Unclean rejoice,
And
sells them soap to wash their ears.
seguito
da una fuga su
Glory
be to radio!
Ma
torniamo alla mia storia. Ho scritto una parte di batteria per un inesistente
brano rock strumentale, poi ho fatto una click track. Il che non era
tanto raro, dato che quelli erano i primi tempi del multitracce a otto
piste su nastro da 1". La parte aveva delle pause, una rullata
in solo, e una conclusione. Allora ho fatto ascoltare la click track
a tutti e due i batteristi separatamente e ho fatto registrare loro
le rispettive parti senza che nessuno sentisse l’altro. E’ un eccellente
contrasto tra lo stile "loose" della West Coast in perfetto
sincrono con lo stile "tight" di New York. A dispetto di ciò,
è davvero eccellente. Hal e Pretty non le hanno mai ascoltate
suonate insieme.
Se
non sbaglio tieni un corso universitario sullo scrivere canzoni. Qual
è la tua prospettiva sul modo in cui melodie personali ed elaborate
e progressioni di accordi intricate sembrano aver lasciato il posto
al minimo comun denominatore quale ideale consciamente perseguito? Vedi
delle tendenze chiare in proposito? (A mio parere Paul Zollo ha scritto
cose molto interessanti nella sua antologia intitolata Songwriters On
Songwriting.)
Personalmente
non mi mancano "il personale, l’elaborato e l’intricato".
Laura Nyro e Stevie Wonder non erano i miei eroi. Non mi è piaciuta
la maggior parte della gente degli anni settanta, anche se la mia ex
mi ha fatto apprezzare l’abilità dei testi di Cat Stevens, che
ho ritenuto accattivante, molto accessibile. Ho molto rispetto per Paul
Simon e Joni Mitchell, ma sono due autori di canzoni molto atipici,
e certamente non credo che altri autori di canzoni debbano imparare
da quello che hanno fatto. Anche Elliott Smith proveniva da quello stampo.
E’ un loop solipsista. In qualità di narcisista in remissione
riconosco la sindrome, e credo che non sia per niente romantica.
Permettimi
di citare alcuni autori di oggi, e forse questo ci condurrà a
quello che trovo fonte di speranza e – all’opposto – scoraggiante nelle
canzoni di oggi. I miei preferiti di questo mese sono Tom Waits, Eleni
Mandell e Nellie McKay, nessuno dei quali è nel solco di Simon/Mitchell.
Waits
è progredito moltissimo. Ha iniziato in modo più oscuro
e simile a un poeta, ma con l’età è diventato più
accessibile e "autentico". L’opposto di Dylan, che era l’autore
più importante degli anni sessanta (e quello è un decennio
decisivo) ma che è diventato la caricatura di se stesso. Waits
è come Dylan sarebbe dovuto diventare. Ti ho scelto una delle
sue strofe:
In
a land there’s a town,
and
in that town there’s a house
And
in that house there’s a woman
And
in that woman there’s a heart I love
I’m
gonna take it with me when I go.
Occorre
aver vissuto molto per essere in grado di scrivere un testo così
diretto, di eliminare tutto il mestiere e tutte le cose in più,
e andare al sodo.
Eleni
Mandell è un’autrice che non se la passa bene, a stento riesce
a sbarcare il lunario, deve girare con solo un bassista (non può
permettersi un gruppo), dato che non scrive pezzi di successo, non è
carina e non ha un contratto discografico. Ma anche lei scrive testi
intensi, e a volte pazzi:
When
it rains I throw up my windows
On
a cold, dark day I run in the street
I’m
OK when the howling wind blows
Yes,
it’s alright with me
When
it’s hot like the devil laughing "Ha!"
I
will pull on my hat and coat and see
That
I’m always happy keeping up
With
the man just a step ahead of me
He
thinks he’s in love with this girl
But
I know that he can’t be in love with her
He’s
in love with me
Nellie
McKay è un fenomeno, una ragazza perfetta per i media: diciannove
anni, molto attraente, con una vena sarcastica e una bocca birichina.
Ovviamente la Sony l’ha agguantata e le ha dato Geoff Emerick, il tecnico
dei Beatles, come produttore del suo primo album. Non m’importa. Lei
è brillante. E anche se consiglio a tutti di stare lontani dal
predicare, dai "messaggi", dal mostrare eccessivamente il
proprio credo politico, lei se la cava benissimo:
I
feel bad
not
bad enough really
I
feel angry and upset
I
could write you a small check
look
I wish you luck
and
here’s your buck
it’s
just that I’m a yuppie fuck
yes
indeed I am
really
OK,
se questi sono i segni di ciò che dà speranza nel songwriting,
cos’è che hanno in comune? Innanzitutto sono colloquiali. In
secondo luogo dicono qualcosa, non si preoccupano solo di trovare una
frase da fare diventare un "gancio". Qui di seguito, per contrasto,
ci sono due canzoni pop "fabbricate" (Avril Lavigne e Hilary
Duff):
Is
it enough to love, is it enough to breathe
Somebody
rip my heart out and leave me here to bleed
Is
it enough to die somebody save my life
I’d
rather be anything but ordinary please
e
If
it’s over let it go and
Come
tomorrow it will seem
So
yesterday
So
yesterday
I’m
just a bird
That’s
already flown away
Qui
non c’è niente di "reale", e nulla che duri più
dello zucchero filato. Ma non sono neppure un fan della roba con il
"messaggio", fatta eccezione per Randy Newman. (In verità
è una delle mie influenze, solo che fu prima che qualcuno lo
avesse sentito; un produttore mi fece ascoltare il suo demo di Simon
Smith e So Long, Dad, che non sono tipiche delle sue canzoni successive.)
Quello
che cerco sono canzoni che abbiano risonanza nei confronti del presente
e che suonino come se qualcuno avesse davvero detto quelle parole. Qualcosa
che spinge a riflettere – e ci sono molti modi per arrivarci, ma sempre
la stessa destinazione. Qualcosa di semplice. Qualcosa che sta comoda
nel suo stile, proprio come un buon paio di scarpe. Le scarpe possono
essere stivali da lavoro, o scarpe con il tacco alto o scarpe Spectator
bicolori (i miei tre autori). Lo stile per me è sempre stato
importante. Ritengo sia il furgoncino che porta le ciambelle.
©
Beppe Colli 2004
CloudsandClocks.net
| Aug. 26, 2004