Diane Birch
Speak A Little Louder
(S-Curve)
Prima sorpresa, troviamo nella cassetta delle lettere il
nuovo album di Diane Birch (proprio quando, essendo
trascorsi quattro anni dall’esordio di Bible Belt, stavamo per perdere ogni residua speranza di poter
ascoltare un nuovo lavoro di lunga durata). Seconda sorpresa, vediamo che si
tratta della Deluxe Edition: sedici brani invece di undici (evviva!). Terza
sorpresa, il CD non funziona: sarà qualcosa nella TOC, sarà lo scherzo di un
sistema di protezione copia (il nostro esemplare giunge dagli Stati Uniti), ma
il nostro (nuovo) CD player non riesce a caricarlo; sul nostro (vecchio)
computer invece suona. Importiamo i file sul computer, masterizziamo una copia
e procediamo all’ascolto sul CD player: funziona (phew…).
Quarta sorpresa, non solo Speak A Little Louder non somiglia affatto all’amatissimo Bible Belt (e ce lo aspettavamo,
e non è detto che ciò debba necessariamente essere un male) ma la prima
impressione è di trovarci di fronte a qualcosa senza capo né coda, con una
decisa svolta verso climi per noi tutt’altro che graditi: "Birch Goes Disco"?
Rileggiamo la chiusa della nostra recensione dell’album di esordio, dove in un (impossibile) esercizio di futurologia mettevamo a confronto Diane Birch
con Fiona Apple e Nellie McKay (a proposito…):
"Ovvio interrogarsi sul domani. (…) A prima vista
la Birch pare un’artista disciplinata e con meno problemi delle sue due colleghe; impossibile dire al momento se il futuro la condurrà verso climi diversi ma altrettanto stimolanti o in una confortevole routine."
Va detto che nel dicembre del 2010 Diane Birch aveva pubblicato un nuovo lavoro, un EP disponibile
solo come digital download in formato MP3 intitolato
The Velveteen Age. Un lavoro per certi versi
bizzarro, dove la musicista si era cimentata in rifacimenti di brani di gruppi
quali Sisters Of Mercy, Siouxie And The Banshees, Echo & The Bunnymen, Joy Division, The Cure e This Mortal Coil. Colta in Rete,
un’esecuzione per solo voce e piano di Bring On The
Dancing Horses rendeva il pezzo indistinguibile da
uno della stessa Birch. Mentre una bizzarra versione
in stile "Soul Revue" – anche nello stile
sartoriale sfoggiato dal gruppo di accompagnamento nel corso di un’apparizione
televisiva – di This Corrosion lanciava un ponte in direzione degli Eurythmics "soul con gruppo" di Be Yourself Tonight.
Molte le interviste dove Diane Birch aveva dichiarato il suo amore da teenager per artisti "Goth"
(crediamo che il nome corrispondente in italiano all’epoca dei fatti fosse
"Dark"), era proprio la tempistica di The Velveteen Age a lasciarci perplessi. (Approfittiamo del momento: ma davvero siamo gli
unici a trovare una somiglianza tra la Birch della
copertina di Bible Belt e
il ritratto di Nico di The Marble Index?)
Nonostante la spinta propulsiva di molte apparizioni
televisive potenzialmente in grado di dare una buona esposizione, la vita
commerciale di Bible Belt sembrava a questo punto esaurita. Un’occhiata ai nudi fatti: #87 negli USA, #77
in UK, #26 in Italy (!). Copie vendute negli USA (la
nostra fonte è Tony Gervino sul New York Times):
72.000. Non poche, dati i tempi, ma senz’altro non pari allo sforzo produttivo.
Un’occhiata in Rete ci rivelava qualche mese fa
l’esistenza di tre video contenenti nuovi brani della Birch:
una tesa e misteriosa UNFKD, giocata su voce e piano; la malinconica Superstars, dalla sorprendente interpretazione vocale; e la
a nostro avviso pessima Diamonds In The Dust, ballad "anema & core" che ci ricordava quelle canzoni
scritte da Diane Warren che spuntano sui titoli di coda dei film e poi in
classifica per mesi. A ridosso dell’uscita del nuovo album, il video del nuovo
singolo All The Love You Got rivelava sorprendenti affinità visive con il film Sound Of My Voice di Zal Batmanglj e Brit Marling, con la canzone a mostrare un’aria
innegabilmente "adult contemporary".
La gestazione di Speak A Little Louder (un titolo che alla luce di quanto abbiamo creduto
di capire risulta decisamente programmatico) s’indovina laboriosa e combattuta.
L’ascolto del nuovo lavoro consente retrospettivamente di attribuire in maniera
più aderente al vero la paternità dell’esordio, frutto evidentissimo di un
laborioso lavoro di gruppo. Per dirla in soldoni, il nuovo album ci pare
rappresentare meglio le intenzioni artistiche della Birch,
ma dopo una settimana di ascolti lo diremmo inferiore al precedente. Diamo per
scontato il periodo di tempo necessario ad acclimatarsi. Diamo per scontato che Bible Belt II sarebbe stato
inutile. Quel che manca è la visione d’insieme che consentiva di avere un
lavoro al contempo vario e unitario. Mancano anche quegli apporti strumentali –
riallacciamoci per un istante al Soul "classico" e riascoltiamo Chain
Of Fools di Aretha Franklin
e Respect Yourself degli Staple Singers (in ambedue il
batterista è Roger Hawkins, Tommy Cogbill è al basso sul primo brano) – in grado di creare indimenticabili
"ganci", un buon esempio su Bible Belt essendo i passaggi sui tom di Cindy Blackman su Photograph.
Non abbiamo ancora letto nessun articolo che tratti in
maniera tecnicamente accurata la gestazione di Speak A Little Louder (e forse non lo leggeremo mai, la
stampa specializzata essendo oggi decimata e poco ambiziosa per quanto riguarda
la profondità), ma il cammino non dev’essere stato agevole. La Birch ha detto Nile Rodgers e Giorgio Moroder "team ideale" desiderato per il nuovo album, con David Axelrod a fare
gli arrangiamenti di archi e fiati; cosa che spiegherebbe almeno in parte una
certa (relativa) rigidità dei groove.
Difficile sintetizzare le nostre conclusioni. Diciamo che
chi ritiene che nel corso degli ultimi trent’anni nulla di buono sia andato in
classifica (precisiamo: è quella dei singoli) potrebbe avere difficoltà di
acclimatamento. Per chi scrive sorgono invece problemi di descrizione, l’ascolto
attento del Weekly Top Forty Countdown di Rick Dees della seconda metà degli anni
novanta essendo il nostro ultimo tentativo approfondito di inquadrare il mainstream.
Stante l’estrema eterogeneità degli apporti (la Birch compone buona parte dei pezzi dell’album in
collaborazione, non sempre con risultati positivi), il collante di Speak A Little Louder si rivela
essere Homer Steinweiss: autore, polistrumentista e
produttore già noto quale batterista della stimata formazione di "new soul" denominata Sharon
Jones & The Dap-Kings. Steinweiss ha fatto largo uso dello studio newyorchese Dunham Sound. Steinweiss ha anche fatto ricorso a un buon
bassista a lui familiare, Nick Movshon, e il
risultato sono dei "groove" secchi ma non
meccanici.
Diciamo senza difficoltà che dopo una frequentazione
attenta del nuovo album la stima da noi nutrita nei confronti di Diane Birch è decisamente aumentata. Il che potrà apparire
paradossale alla luce delle nostre perplessità sulla riuscita di questo lavoro.
Il paradosso è però solo apparente: la Birch appare qui
decisamente più versatile di quanto Bible Belt facesse intendere, e anche se non tutto è al meglio
gli orizzonti si indovinano nitidi. Togliere qualche pezzo sarebbe stato
d’aiuto, ma la Birch si muove in una cornice in cui
"l’album" è un concetto "virtuale": difficile credere che
molti, oggi, ascoltino gli album per intero, e con attenzione indivisa, com’è
invece nostra abitudine.
La voce è spettacolare, con una gamma di situazioni e di
approcci che ci dice di un’artista che ha ancora molti spazi per crescere. La
filosofia di Bible Belt –
diciamo quella secondo la quale una voce è a un volume appropriato quando a
occhi chiusi sembra quasi di poter toccare la testa di chi canta – ha lasciato
il posto a un approccio più elastico in grado di meglio relazionarsi con i
diversi stili. Grande cura per i timbri vocali, la molteplicità delle voci e la
loro disposizione spaziale. La novità di Speak A
Little Louder è che questa volta Diane Birch non è assistita da partecipazioni esterne. Quasi
assente il piano elettrico che contraddistingueva l’esordio, sempre ben
presente quello acustico – ora lirico, ora propulsivo – spuntano tastiere in
quantità, adoperate come coloritura con un certo gusto timbrico.
Un’occhiata ai pezzi.
Speak A Little Louder è cadenzata, con voci multiple – una dichiarazione di intenti? – un po’
cantilenante, nello stile anni ottanta dei Roxette.
Bello sviluppo stereo delle voci, con eco.
Lighthouse parte con voci
campionate, voce solista, poi tamburi "grossi" per un pezzo quasi
disco a metà strada tra Annie Lennox e gli Abba. Coretto anni ottanta di gusto
un po’ incerto. Sottolineature del piano. Curioso il riferimento nel testo a un
brano di Bruce Springsteen.
All The Love You Got è un pezzo ad alto tasso drammatico – gli anglosassoni qui parlano di
"bravura". Ricorda non poco Adele, e infatti il coautore è un suo
collaboratore, Eg White. Dovrebbe essere il pezzo
dell’album registrato per primo, cosa che retrospettivamente fa scorgere un
certo numero di possibili "futuri alternativi", non tutti positivi.
Interessanti modulazioni. La Birch è qui solo alla
voce. Ahmir "?uestlove"
Thompson dei Roots è alla batteria.
Tell Me Tomorrow è una ballad pianistica, con intonazione nasale – alla Stevie Nicks? Fresca e trascinante.
Superstars è "spaziale",
con synth. Ballad pianistica con la voce in evidenza. Bello sviluppo melodico, buona batteria e testo
che merita un’indagine.
Fa seguito un trittico "dance":
Pretty In Pain – diremmo con ovvio riferimento alla Pretty In Pink
(dal film con Molly Ringwald) cantata dagli Psychedelic Furs. Ballad disco con l’apporto di Betty Wright. Voce in
evidenza, accompagnamento serrato del piano, bell’inciso.
Love And War è un mid-tempo
disco. Ottima interpretazione vocale. Fa capolino lo spirito di Nile Rodgers. A nostro avviso la
migliore cosa "commerciale" dell’album.
Frozen Over è un mid-tempo
cadenzato. Ogni volta che il brano finisce – "I’m frozen ooover!" – ci
aspettiamo di sentire spuntare Rick Dees che dice
"Diane Birch! She’ssss frozen over!". E’ un potenziale tormentone, ma
si trascina troppo. Quindi Clouds and Clocks mostra
il pollice verso.
Diamonds In The Dust è la "power ballad"
alla Diane Warren di cui si diceva. Bello sviluppo melodico, ma… ricorda
Celine Dion! Chitarra atroce. (E chi è questo Barrett Yeretsian?)
UNFKD è una ballad pianistica
scritta in collaborazione con Matt Hales – meglio conosciuto come Aqualung – che l’ha anche prodotta e missata. Forse la più
"moderna" nel trattamento di voci e suoni. Quasi sinfonica, rimanda
un po’ a Fiona Apple. Sul finale, bel crescendo di una voce sul canale destro,
in parallelo, quasi nascosta: quindi da non perdere.
It Plays On chiude in modo "aperto" la versione "Sparta" del CD. Ballad pianistica alla Stevie Nicks scritta e prodotta dalla stessa Birch. Centro! Una
perfetta "70s pop piano ballad" in grado di
diventare un sempreverde ai matrimoni – nonostante l’argomento! Sfumata.
Walk The Rainbow To The End – anche
questa scritta e prodotta dalla Birch – introduce la
"seconda parte". Apre con un che di Emily Bezar,
voce e piano, operistica, e poi conduce a… Neil Young. Cadenzata, ipnotica.
Tastiere. Bello sviluppo.
Adelaide è una ballad "soul-rock", o almeno così crediamo. Voce in primo piano. Chitarra
dilettantesca. Bruttina.
Staring At You è un riempipista ossessivo e incalzante, a nostro avviso una delle vette
dell’album. Ricorda… Robyn? I Garbage? Ottimo groove, e ottimi momenti melodici, ben assisiti da un synth che suona come un vecchio Roland JX3P. (Atmosfera da
luci stroboscopiche, e un paio di pasticche di ecstasy.)
Hold On A Little Longer,
scritta dalla Birch, è prodotta da Matt Hales, che qui
suona tutti gli strumenti a accezione di Rhodes e
piano. Misteriosa, melodica, ricca e avvolgente. Sinfonica.
Truer Than Blue è una ballad pianistica posta in chiusura quale
"rinfresco per le orecchie". Un classicismo melodico che non può non
ricordare Joni Mitchell.
Ci ha stupito vedere Diane Birch,
colta in concerti estivi, un po’ esitante, lei che al tempo del primo album ci
era parsa di granitica certezza in tante occasioni televisive – le "sette
chiese" USA, Jools Holland e gli studi del Guardian in UK, una radio francese di
cui non ricordiamo il nome. Sicurissima da sola o quando spalleggiata dal quartetto
di qualche anno fa, la Birch ci è parsa stavolta mal
coadiuvata da musicisti che al confronto sono poco più che dilettanti. E Diane Birch non ci pare una "mangiapubblico"
come la Lennox o lo Stevie Wonder dei bei tempi
andati.
Tra le foto poste a corredo del libretto con testi spicca
perché piccolissima una veduta di una postazione tastieristica casalinga. Si scorgono oggetti vari, tra i quali a prezzo di un paio di
diottrie abbiamo creduto di scorgere un primo piano di George Harrison (ci pare
proprio la foto a corredo del "White Album" dei Beatles), un paio di
foto di qualcuno che potrebbe essere la Nico bionda del periodo Chelsea Girl, e
la copertina di una copia in vinile di Something/Anything? di Todd Rundgren.
Vedremo.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2013
CloudsandClocks.net
| Nov. 5, 2013