Intervista
a
Emily
Bezar (1995)
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di Beppe
Colli
Nov.
24, 2004
Una recensione
estremamente positiva di Grandmother’s Tea Leaves (’93) scritta da Robert
L. Doerschuck e apparsa sul mensile statunitense Keyboard ci rivelò
l’esistenza di Emily Bezar. Decidemmo di ascoltare l’album – il suo
esordio da solista – ed essendone rimasti favorevolmente impressionati
procedemmo a recensirlo sul # 17, December 1994, del periodico anglosassone
Rubberneck. Con la sua miscela di musica elettronica, soprano lirico
e reminiscenze di certa canzone d’autore degli anni settanta, su tutto
Joni Mitchell, l’album metteva subito voglia di saperne di più.
Decidemmo quindi di rivolgere alcune domande a Emily Bezar, che accettò
di buon grado di effettuare quella che con nostra sorpresa si rivelò
essere la sua prima intervista scritta.
L’intervista
fu condotta via posta durante il marzo 1995 per poi apparire in lingua
inglese su Rubberneck # 18, June 1995. Un articolo intitolato Il ritorno
della canzone – su Blow Up # 11, aprile 1999 – ci fornì l’occasione
di presentare al pubblico italiano Emily Bezar e Amy X Neuburg. In quell’occasione
traducemmo alcune parti della nostra intervista con la Bezar, che appare
qui integralmente in lingua italiana per la prima volta.
Grandmother’s
Tea Leaves mi sembra un’affascinante miscela di musica classica ed elettronica
– con un’eco di cantautrici degli anni Sessanta. Le tue influenze?
Le influenze
sul mio canto e sulle mie composizioni sono alquanto diverse… Questo
può spiegare molto della mia musica. Da ragazza cantavo insieme
ai dischi di Ella Fitzgerald, Barbra Streisand e Joni Mitchell, e cercavo
le melodie sul piano. Al contempo suonavo le rapsodie di Brahms, gli
etudes di Chopin e Mikrokosmos di Bartok. Non ho saputo il nome di una
cantante classica finché non ho avuto… diciamo diciannove anni.
Per un po’ mi è stata insegnata la tecnica senza il contesto.
Compositori per voce che per primi mi hanno impressionato? Debussy,
le Ariettes Oublieés. Wolf, Mignon Lieder… Il senso del colore
nei lavori per voce di George Crumb è stupefacente. Le sinfonie
di Scriabrin. Le miracolose conversazioni di Bill Evans. Kurt Weill
è un’influenza più recente. Sono affascinata dalla storia
delle esecuzioni del suo lavoro… sembra che una tradizione si stia
ancora evolvendo. Le mie influenze elettroniche sono più difficili
da definire… forse una via di mezzo tra i Pink Floyd e Stockhausen?
Se dovessi
descrivere il tuo disco in poche parole direi: "L’estasi raggiunta
per mezzo della razionalità" – il che sembra andare controcorrente
rispetto all’odierno clima musicale…
Eccellente…
Non avresti potuto dirlo meglio. Penso spessissimo a questa dualità.
Sono sempre cosciente della battaglia interiore tra la mia ragione e
la mia intuizione. Tutti lo siamo, più o meno, credo… forse
io passo più tempo a preoccuparmene. Dici controcorrente… sì,
molto è solo pura catarsi, pura ironia o puro processo. Ho un
amico che studia neurobiologia. Pare accertato che tutti i segnali passino
attraverso la parte analitica del cervello prima di raggiungere il centro
dei controlli emotivi. Non è il percorso che avrei immaginato,
considerata la nostra natura generalmente volatile, ma ciò mi
prova che abbiamo davvero bisogno di nutrire questa connessione tra
fede e razionalità. Ripenso sempre a quegli incredibili mottetti
del Rinascimento, dalle caratteristiche così architettoniche
ma così trascendenti.
Quanto
della parte strumentale ha fatto uso di sequencer?
Tutte le
parti elettroniche sono state suonate dentro – e poi editate con – un
sequencer, ma non ci sono loop né materiale generato dal computer.
Madame’s Reverie, ad esempio, è un pezzo composto in maniera
interattiva. Ho organizzato il mio ambiente in un grande blocco per
appunti elettronico: ho ammassato un sacco di idee, gesti sonori, e
poi li ho triggerati e modificati in tempo reale con una tastiera, mentre
al contempo registravo tutti i movimenti che facevo. Dal vivo uso molto
una Korg Wavestation. E’ uno strumento incredibilmente flessibile. Hai
un controllo completo, se lo vuoi, su ogni parametro di una sequenza
triggerata da una nota. Credo di avere appena iniziato a scoprire cosa
è possibile fare con questo strumento.
Componi
degli incisi (bridge) lunghi e complessi, il che al giorno d’oggi è
una rarità…
Non sono
sicura di quale sia la funzione dell’inciso in una canzone. Dal punto
di vista del testo è forse la chiave – il piccolo pezzo di saggezza
che rivela l’intera canzone – o forse un completo sotterfugio. Non so.
Credo che i miei bridge siano delle estese sezioni B o C. Just Like
Orestes è il mio tentativo di scrivere una canzone in forma di
sonata; credo che il bridge sia la sezione di sviluppo. Mi piace l’avventura,
piccoli viaggi… un girovagare musicale. Il bridge come inserto filmico
è un’altra idea che amo: far sì che una canzone muti repentinamente
in un nuovo mood o scenario. La parte difficile è tornare al
tema principale… Alcune delle mie composizioni sono quasi composte
dal principio alla fine; di solito rielaboro drasticamente il materiale
delle strofe. Quando senti il bridge hai la sensazione di averlo già
ascoltato in precedenza. Alcune delle mie nuove canzoni, più
brevi, hanno il "bridge" proprio alla fine. Sono le mie canzoni
ellittiche (…). Non c’è chiusura.
Metti
tanta attenzione ai dettagli, dal modo in cui ritardi un accordo alle
relazioni mutevoli tra le voci in, per esempio, Rest Me Here.
Davvero?
Tutti quei densi contrappunti vocali in Rest Me Here sono stati realizzati
come improvvisazioni sul multitraccia. Ho deciso le dissonanze a orecchio
e il lavoro di dettaglio è stato fatto in sede di missaggio,
quando ho alzato e abbassato i volumi delle voci per ottenere una tessitura
che funzionasse. Molte delle canzoni dell’album sono poco ancorate da
un punto di vista ritmico, e quindi credo che le questioni riguardanti
le transizioni in termini di tempo e il rubato fossero molto importanti.
Non mi sono concessa molti groove che mi sostenessero, cosicché
ho sempre dovuto lavorare orizzontalmente per dare il "feel"
al brano.
Con
così tante opzioni elettroniche oggi a nostra disposizione decidere
quando un pezzo è finito è un problema più difficile?
Sì,
oggi più che mai. Ma credo che la creazione artistica si sia
sempre dovuta confrontare con questo. Come puoi davvero sapere quand’è
che hai detto tutto quello che potevi su una tela? Ritengo che la risposta
debba essere quella di lasciare sempre che i fini espressivi dettino
il passo e i limiti. Non ho ancora finito di imparare quante idee sono
in grado di combinare contemporaneamente con successo. Ottieni una cavalcata
esilarante o un’immondizia caotica e a volte decidi di correre il rischio
e butti tutto dentro.
I tuoi
testi sono molto vari, ma tutti condividono una dimensione adulta e
complessa che è poco comune. Come vedi i testi in rapporto alla
musica?
Raramente
ho un’idea in termini di testo prima della musica. Ciò mi squalifica
come cantautrice? A volte come cantante sento un peso – ci si aspetta
che mi esprima con le parole. Mi rapporto a suoni astratti meglio che
ai verbi, credo. I miei soggetti sono di solito evocati da ciò
che sento o suono. Una bella melodia può emergere con vocali
e consonanti sparse, nonsense, e poi cercherò di fornirle un
senso.
Ascolti
correnti?
C’è
un pianista e compositore americano che vive in Giappone, Bruce Stark,
che ha appena pubblicato un disco di musica da camera incredibilmente
bello. Eccellente scrittura per quartetto d’archi. La versione di Elizabeth
Schwarzkopf di Four Last Songs di Strauss è un mio perenne favorito.
Hissing Of Summer Lawns di Joni Mitchell. Harmonium di John Adams. Ira
Mowitz sta scrivendo della splendida computer music.
Progetti
futuri?
Ho un paio
di pezzi più ampi in mente. Un’altra cosa drammatica per voce
e forse un pezzo per chitarra ed elettronica… Non so suonare neppure
una nota sulla chitarra, ma di recente ho sognato che una chitarra ronzasse
tutta la notte dentro il mio orecchio… c’erano anche delle marimba.
Di recente sono anche interessata dalla proliferazione di dischi di
elettronica ambient ispirati da Eno. Sto ancora cercando di trovare
un modo per descrivere quel che faccio… forse potrei collegarlo a
questo genere? La gente sembra trovarsi in imbarazzo, così ho
bisogno di inventarmi una definizione accattivante. Forse ambient-opera-folk?
Ma sembra una colonia di piccole verdi Melisande in Pennsylvania. Chi
lo sa? Spero di registrare il mio nuovo CD questo autunno. Naturalmente
sogno un tour su palchi con luci e suoni che fluiscono dalle pareti
– sai… la mia fantasia operistica… Beh, forse un giorno.
©
Beppe Colli 1995 – 2004
CloudsandClocks.net
| Nov. 24, 2004