Intervista
a
Emily
Bezar (2004)
—————-
di Beppe
Colli
Nov.
24, 2004
E’ stato
con grande piacere che abbiamo appreso dell’imminente pubblicazione
di un nuovo album di Emily Bezar – il suo ultimo lavoro, Four Walls
Bending, risaliva infatti al 1999. E se nei dischi precedenti la qualità
non aveva certo fatto difetto, possiamo dire che Angels’ Abacus ci ha
riservato la sorpresa aggiuntiva di un’accentuata scioltezza dell’ascolto;
un fattore che in sede di recensione ci ha semi-scherzosamente indotto
a definire Angels’ Abacus il "commercial album" della Bezar.
Certamente
un’occasione ideale per una chiacchierata. Abbiamo inviato le nostre
domande via e-mail. Nonostante fosse piuttosto occupata, e sul punto
di partire, la Bezar ci ha gentilmente risposto.
L’ultima
volta che abbiamo avuto occasione di dialogare il tuo terzo album, Four
Walls Bending, era appena stato pubblicato. Retrospettivamente, sei
contenta di come è venuto?
Naturalmente
il tempo ti fornisce una nuova prospettiva, e i difetti che senti subito
dopo aver completato qualcosa sbiadiscono e sembrano meno significativi.
Ma sono ancora adesso nella condizione di poter dire che di tutti i
miei album Four Walls può essere considerato la mia "registrazione"
più riuscita, dato che è venuto fuori quasi esattamente
nel modo in cui lo sentivo nella mia testa mentre lo stavo scrivendo
e producendo. Con il che intendo dire che è stato un suono estremamente
scolpito e premeditato, e che ho diretto il gruppo con estrema precisione
allo scopo di ottenere la tavolozza sonora che volevo. Credo di aver
raggiunto la grandeur, il tipo di obiettivo e di robustezza monolitici
di cui la struttura delle canzoni aveva bisogno al fine di essere dinamicamente
coinvolgente su nastro. So che sarebbe stato un album molto diverso,
forse un disco di jazz, non un disco di rock, se avessi permesso una
maggiore libertà nell’esecuzione e uno spazio più aperto,
più esplorativo, invece della consistente densità di tessitura
che l’album possiede. Mi sono divertita un mondo a creare i suoni di
tastiera per quell’album e sono orgogliosa del fatto che non credo che
essi suoneranno mai "datati" o del loro periodo… Ritengo
che essi non diventino mai solo "zucchero filato per le orecchie"
e che siano sempre necessari negli arrangiamenti.
In
passato tra un album e l’altro erano trascorsi tre anni. Stavolta ne
sono passati cinque. Mi sono interrogato sul tuo silenzio – e sulle
sue possibili cause: troppo indaffarata? blocco creativo? fattori logistici?
mancanza di un desiderio bruciante di esprimerti?
Beh,
suppongo soprattutto per motivi logistici. Ai primi del 2001 mi sono
trasferita dalla California in Francia, e naturalmente il cambiamento
radicale di un trasferimento internazionale, per non parlare del fatto
di trasportare e risistemare il mio piccolo studio di registrazione,
mi ha tenuto occupata per parecchi mesi. Quando sono arrivata in Francia
avevo già scritto materiale sufficiente per fare mezzo album,
roba che avevo fatto subito dopo che Four Walls era uscito, ma che ha
languito per un po’ e che ha perso la sua rilevanza per me man mano
che mi stabilivo in una nuova vita, in nuovi ritmi. (In effetti solo
una canzone di quel primo gruppo che ho scritto, Metronome, alla fine
ha trovato posto sull’album!) Ma poi nuove canzoni hanno cominciato
a venir fuori molto rapidamente e sono passata attraverso parecchi scenari
per ciò che concerne la produzione dell’album. C’è stato
un momento in cui ero certa che sarebbe stata una registrazione veloce
ed economica per trio di piano più voce, e ho fatto dei progetti
per farlo velocemente in uno studio di lì, in Francia, ma le
canzoni continuavano a venire fuori e gli arrangiamenti mi riempivano
la testa e le mie ambizioni crescevano sempre di più. Anche se
sapevo che non ero affatto in grado di permettermi di fare un altro
album dal suono "grosso" come il precedente!! E sì,
i soldi hanno decisamente avuto a che fare con il ritardo… dover riempire
i forzieri molte volte per riuscire a permettermi i migliori studi e
musicisti che potevo. Piuttosto, sono stata senz’altro troppo prolifica
durante quel periodo, e anche molto indecisa nel cercare di decidere
quali canzoni registrare… facendo demo e provando idee per arrangiamenti
al computer per canzoni che poi non sono mai arrivate a essere finite.
Forse un giorno riappariranno in una nuova veste! E poi, come puoi immaginare,
ho così comodamente esplorato quella che mi piace chiamare la
"santa trinità" della Francia – il vino, il formaggio
e il pane – che probabilmente ho perso un sacco di tempo produttivo
in terrazza al tramonto!!
Sebbene
sia stato registrato in due diverse occasioni e in due diversi luoghi,
Angels’ Abacus mi suona come un tutt’uno. Il che immagino abbia molto
a che vedere con il processo compositivo. Sbagliato?
No,
hai perfettamente ragione. In contrasto con Four Walls, per il quale
nella fase di composizione ho fatto avanti e indietro fra il gruppo,
il piano e il computer, questo album ha davvero avuto origine al piano,
e il mio vocabolario armonico e melodico è stato davvero coerente,
e in molti sensi limitato a quello che mi suonava bene nelle dita. Sebbene
io pensi che le canzoni varino molto per quanto riguarda la complessità,
esse però condividono un sacco di sonorità verso le quali
tendo a gravitare. E dato che molte di loro hanno preso vita come improvvisazioni
per piano, credo che esse siano arrivate da un luogo molto intuitivo,
elementare – non c’è stata molta premeditazione. In effetti,
stranamente, molte di queste canzoni mi si sono presentate di mattina
presto dopo una notte in cui avevo dormito male! Sono certa che il mio
subconscio stava ribollendo, aspettando di esplodere non appena il sole
si fosse alzato! Soprattutto ritengo che ci possa essere meno confusione
di "generi" su questo album – intendo dire che non c’è
nessuna canzone "quasi jazz" o "quasi folk" che
fa capolino dalla struttura. Forse è quello che accade quando
rifinisci e distilli il tuo linguaggio personale, e sviluppi il tuo
personale idioma? Cominci a "suonare" più come te stesso
e meno come un cuoco che prova un nuovo ingrediente che non si è
ancora del tutto amalgamato.
Per
quanto riguarda il fatto che il "suono" dell’album sia unitario
nonostante la varietà dei luoghi di registrazione, sono stata
molto attenta a essere stabile nella scelta dei microfoni, specialmente
quelli per la voce, e naturalmente molto è dovuto agli eccellenti
musicisti che hanno usato ottimi strumenti che suonano bene indipendentemente
dalla nazione in cui sono registrati!! Però il suono dominante
è quello degli arrangiamenti di tastiere, che sono state tutte
registrate nel mio piccolo home studio. Man mano che ho distribuito
le idee di piano originali in un’orchestrazione elettronica per tutta
la band mi sono ritrovata spesso a ri-usare i suoni, o a modificarli
un po’ per una nuova canzone, così che c’è davvero una
buona continuità in tutto l’album. Ciò nonostante credo
che ciascuna canzone possegga il proprio carattere sonoro e la sua personale
atmosfera.
Sebbene
per molti versi mi ricordi molto il tuo primo album, Grandmother’s Tea
Leaves, credo che Angels’ Abacus sia a oggi il tuo disco più
accessibile – o forse dovrei dire quello dal suono più accessibile?
Dato che sei stata tu a produrlo ritengo che il modo in cui l’album
suona sia un risultato cui hai coscientemente mirato. Ma mi chiedo se
le altre personalità coinvolte – Tim Pettit and Jon Evans – abbiano
fornito un apporto distintivo per quanto riguarda i suoni (per esempio,
i riverberi sui cori).
Certamente
lo stile di missaggio e di registrazione che scegli ha moltissimo a
che fare con l’"accessibilità" del suono, oltre alla
costruzione e agli arrangiamenti delle canzoni. Jon e Tim sono stati
per me degli stupefacenti "controllori" e dei preziosissimi
"attestatori di fatti", una cosa che non avevo davvero mai
avuto finora. Ma non credo assolutamente di avere compromesso le mie
idee o diluito l’essenza delle canzoni cercando di ottenere un suono
più commerciale. Tim è venuto negli stadi iniziali del
processo di produzione e ho amato poter dire "questo arrangiamento
funziona per la canzone, o forse dovrei portarla più in questa
direzione…?" ed essere in grado di anticipare il missaggio e
cominciare a raschiare via cose che erano solo d’ingombro. Ha un perfetto
istinto pop, dato che viene da quel background, e mi ha davvero aperto
gli occhi sul modo in cui molta gente ascolta la musica… quello che
spesso riescono o non riescono a sentire. Oltre a essere un bassista
eccellente e pieno di gusto, Jon ha delle orecchie incredibili ed è
stato in grado di eliminare frequenze estranee e di disturbo negli arrangiamenti
durante il missaggio – frequenze che nemmeno sapevo ci fossero. E la
divisione dei compiti durante il missaggio è così fluida,
abbiamo tutti lavorato insieme, sperimentando con i riverberi, gli effetti
finché non suonava davvero rispondente al vero e "giusto"
per tutti quelli che erano nella stanza.
Sono
sempre stata certa che l’elemento ritmico ha molto a che fare con l’accessibilità.
Se c’è qualcosa su quest’album che va verso il mainstream forse
è il fatto che ho usato il computer per alcune parti di batteria
e di percussioni. Non sto dicendo che trovo i groove più rigidi,
è solo che essi possono suonare più contemporanei, dato
il software che ho usato per crearli. E dal punto di vista melodico?
Non credo proprio che direi che le melodie sono più accessibili…
E’ certo che trovo queste melodie alquanto difficili da eseguire dal
vivo! Credo di stare usando tutto lo spettro della mia voce in senso
operistico in un modo che non ho fatto dai tempi di Grandmother’s Tea
Leaves. Credo di aver finalmente smesso di cercare di essere una cantante
pop!
Il
tuo ultimo album era stato registrato in analogico, questo su…? (immagino
su una piattaforma digitale come Pro Tools?) Mi piacerebbe sapere di
più sulle diverse sfide tecniche, e sui problemi e i vantaggi
di questa nuova situazione, rapportati ai tuoi scopi artistici.
Beh,
l’analogico è stato una sfida esilarante e che valeva la pena
di alcuni mal di testa, ma non ci tornerò più!! Sì,
questo nuovo album è stato registrato nel computer, usando un
certo numero di programmi, e abbiamo missato in Pro Tools. Credo che
il vantaggio principale sia stato la portatilità del work-in-progress.
Mi ha fatto risparmiare vagonate di danaro e mi ha permesso di registrare
dovunque io volessi. Andare da casa allo studio, dalla Francia a Londra
e ritorno con solo alcuni dischi e un hard drive è stato stupefacente!
Ho perfino fatto registrare al mio chitarrista le sue parti nel suo
soggiorno a New York, e poi me le ha inviate per posta. Ma a prescindere
dai vantaggi logistici il computer è un quaderno di schizzi enorme
e infinitamente malleabile. Il processo di esplorare un’idea musicale
è così immediato – la porti dall’ideazione attraverso
variazioni multiple e crei questo processo circolare di fare/ascoltare
che può diventare il motore del processo compositivo… o almeno
per me su questo album, del processo di orchestrare una canzone. Suppongo
che la sfida consista nel riuscire a focalizzarsi sul perfezionare un’idea,
date le infinite opzioni di sperimentare che sono a tua disposizione.
Sono una che crede fortemente negli errori belli e fortuiti, ma credo
anche che il potere del computer sia più stupefacente quando
riesci a sfruttarlo per creare il mondo che senti già dentro
la tua testa. Comunque, sebbene io abbia tratto molto beneficio dal
campo del digitale non credo di aver ancora fatto un brano di musica
"idiomaticamente" digitale. Credo di essere ancora un’autrice
di canzoni molto conservatrice, che lavora in modo per lo più
lineare, che costruisce in senso verticale dal piccolo al grande. C’è
tanta di quella musica interessante adesso in giro, soprattutto nella
musica dance e nei suoi sottogeneri, che non potrebbe essere concepita
in nessun altro luogo che nel computer. Musica che possiede la splendida
casualità e le precisissime variazioni di timbro che puoi creare
solamente nella scatola.
In
qualche modo il pezzo Walk That Blade mi ha ricordato Bacharach: ho
le allucinazioni?
Ritengo
in realtà che Heaven To Pay abbia un po’ più di quell’atmosfera
alla Bacharach!! Ma sì, riesco a vedere quel che stai dicendo
a proposito di Walk That Blade. Forse è da attribuire alla tromba,
ma sospetto che abbia qualcosa a che fare con le parti vocali a incastro
del ritornello. Naturalmente ha un feel jazz-pop che è in un
certo qual modo retro. Sono sempre stata una grande fan di Bacharach
ma devo ammettere di non conoscere le sue cose in modo molto approfondito,
quindi non posso annoverarlo tra le mie influenze fondamentali. Adoro
le complessità degli arrangiamenti del pop degli anni sessanta
e settanta. Non vedo l’ora di mettere le mani su Smile di Brian Wilson!
Sei
un’artista indipendente. L’ultima volta che abbiamo conversato Napster
era di là da venire, e così pure tutto il fenomeno del
downloading. Capisco che è un argomento molto complicato – e
che accende gli animi – ma: qual è la tua opinione sul tipo di
impatto che tutto questo ha avuto per gli artisti indipendenti?
Sta
avendo un grosso impatto, ma gli artisti indipendenti che vogliono una
maggiore esposizione per la loro musica devono ancora competere con
la macchina dell’industria musicale online, che adesso ha messo le mani
dentro molti dei siti legittimi, e underground, che si occupano di downloading.
Per gli artisti indipendenti senza una casa discografica rendere la
propria musica disponibile su molti dei grossi siti di vendita per download
come iTunes o Musicmatch è una cosa ancora lenta e difficile…
la conduttura è decisamente ingorgata. Per quanto riguarda lo
scarico gratis, certo è eccitante avere le mie canzoni che circolano
in giro in modo che la gente possa ascoltarle, dato che io non ho un
vero canale di distribuzione eccetto Internet, e certamente la maggior
parte delle radio oggigiorno è inaccessibile per qualsiasi cosa
fuori dall’ordinario. Però se a un certo momento io o altri artisti
indipendenti come me vogliamo permetterci di fare un altro disco dobbiamo
avere una certa quantità di vendite e far valere la proprietà
del nostro lavoro, e quindi ho delle idee molto confliggenti a proposito
della faccenda della condivisione dei file. Una cosa che mi stimola
molto è questa nuova organizzazione/sito web che sta per essere
lanciata da Peter Gabriel (www.mudda.org), che propone un concetto del
tutto nuovo della diffusione della musica via Internet. La sua intenzione
è quella di decostruire tutta l’estetica dell’"album",
con gli artisti in grado di mostrare il loro processo, di pensare a
Internet come a uno "studio aperto" in continua evoluzione
dove il lavoro è rivelato "in progress" e senza le
costrizioni commerciali di una casa discografica o le limitazioni di
un metodo di distribuzione fisico. Vedremo se ce la farà a farlo
partire!! Come forse ho detto l’ultima volta che abbiamo parlato di
questa faccenda, non ritengo che il "copyright" sia diventato
arcaico, che l’epoca del possesso di un’idea sia finita, come è
stato suggerito in certi ambienti. Sì, il "copyright"
può evolversi, ma nutro ancora la convinzione romantica e forse
troppo ingenua che la storia è sospinta dal commercio che erompe
al seguito delle grandi idee di grandi pensatori.
Una
domanda più generale: quale sarà il futuro dell’eccellenza?
Voglio dire, una volta gli artisti erano il tipo di persone che ti facevano
dire "non potrei mai riuscire a farlo", così ti sforzavi
davvero di raggiungere quei picchi. Invece oggi credo che la reazione
più comune sia "ma certo che riuscirei a farlo!". Cosa
che superficialmente sembra più egalitaria, ma che mi fa chiedere…
Un
giorno dobbiamo sederci di fronte a un LUNGO pasto francese (oppure
italiano, naturalmente!) a discutere di questo! Credo proprio che ci
sarà sempre un futuro per l’eccellenza e un pubblico per essa…
è solo che sembra essere sempre più piccolo, e i media
della pubblicità oggi sono arrivati a perfezionare le arti magiche
del travestire la banalità da Grande Arte. Sì, credo abbia
a che fare con il predominio di un’estetica populista nel mondo moderno.
Ci sentiamo ancora colpevoli a proposito delle separazioni di classe
dei secoli passati e rigettiamo tutti i residui delle monarchie, le
classi superiori che sono così strettamente associate all’opulenza,
all’istruzione avanzata e al canone culturale occidentale dell’arte
e delle idee. E credo che ci sia ancora una generale diffidenza nei
confronti della storia (naturalmente ci sono un sacco di orrori da ricordare!),
una credenza che le idee contemporanee sono sempre le più progressive
e rilevanti, non importa quanto esse siano ponderate. Se tu definisci
l’"eccellenza" nell’arte come il potere di muovere la
coscienza di massa, di influenzare e unire molte persone per qualche
buon motivo sociale, allora forse non è necessario che un artista
possegga capacità esclusive, o che sia inimitabile, ma solo che
sia comprensibile. Sforzarsi per raggiungere l’"eccellenza"
in un senso più astratto, che credo sia quello che tu intendi,
spinge gli artisti a cercare la perfettibilità dello spirito
umano attraverso l’auto-espressione, a prescindere dal suo effetto sulla
società. Quello che mi sforzo di raggiungere? Non lo so… solo
rendere la mia musica tanto bella quanto posso, dato che non riesco
proprio a pensare di dedicare così tanto tempo a qualcosa che
non mi ha appassionato.
©
Beppe Colli 2004
CloudsandClocks.net
| Nov. 24, 2004