Lou Reed’s Berlin
(1998)
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di Beppe Colli
June 15, 2007
Problema: come iniziare un dialogo con i lettori – che si
supponeva fossero alquanto giovani – di un giornale musicale nuovo di zecca?
Assolutamente per caso, il Fato ci fornì quella che ai nostri occhi parve
allora la soluzione perfetta, il 1998 essendo l’anno che segnava il venticinquesimo
anniversario della pubblicazione dell’album di Lou Reed intitolato Berlin.
Non è ozioso notare che a differenza dell’Europa – dove la versione in CD
era comparsa almeno una decina d’anni prima – quella del venticinquennale
era la prima edizione digitale a essere pubblicata negli Stati Uniti!
Il pezzo che segue è apparso sul #7, Settembre/Ottobre 1998,
del periodico italiano Blow Up.
E’ strano, ma capita
di incontrare sfegatati rocchettari, grandi estimatori di Lou Reed, che non
hanno mai sentito nominare l’album Berlin ("Cos’è, una raccolta?").
Strano e paradossale, dato che – oltre a costituire il primo caso di (inconsapevole?)
autoaffondamento commerciale, un anno dopo il successo di Transformer (1972)
e dell’unico hit di Reed, Walk On The Wild Side, e due anni prima della pubblicazione
del rumoristico e ancor più controverso Metal Machine Music – Berlin si presenta
quale lavoro paradigmatico di tutte le caratteristiche che rendono unico
l’artista.
Disco bello e perfettamente compiuto, dunque, in termini
di musiche, performance vocale, rapporto musica/testi, arrangiamenti, contributo
dei musicisti coinvolti nonché originalità del concetto e nitore della sua
realizzazione. "It was an adult album meant for adults – by adults for
adults": così l’autore, ed è un giudizio che non si può non sottoscrivere.
In Berlin il protagonista-narratore,
a ceneri ormai fredde, scandaglia il ricordo del suo tormentato ménage con
la moglie Caroline, morta suicida in seguito alla sottrazione dei figli per
motivi di "morale pubblica"; rapporto caratterizzato da forti ambivalenze,
mix sessuali dei più vari, consumo di droghe stratosferico, violenze fisiche.
Una facile suggestione (Berlino…) ha voluto vedere nella protagonista femminile
il ritratto della tedesca Nico, cantante dei Velvet Underground sul primo
album (quello con la banana). Come osservato da Michael Hill nelle note di
copertina presenti sulla ristampa, Caroline è verosimilmente un mix di varie
persone – fermo restando, aggiungeremmo, la trasformazione artistica della
materia. Hill cita tra le altre l’allora moglie di Lou Reed, presto scaricata,
senza peraltro nominarla.
Sposata nel febbraio del ’73 – anno di pubblicazione dell’album
– Bettye Kronstadt, aspirante attrice di statura coincidente al millimetro
con quella di Caroline, soprannominata Krista (vero nome di Nico) era indubbiamente
assai distante tipologicamente dalla protagonista di Berlin; varie testimonianze
concordano però nel caratterizzare il Lou Reed del periodo come marito violento
– e notiamo che il rapporto tra un personaggio letto sbrigativamente come
gay e le varie mogli e compagne è ancora tutto da scrivere.
Un critico statunitense, Ellen Willis, ha acutamente parlato
di "guerra tra i sessi" e di "metafora della città separata".
E’ infatti pacifico che "il muro" abbia carattere essenzialmente
metaforico – al di là dell’effetto straniante che fa collocare in un "altrove" una
vicenda che potrebbe in realtà aver luogo ovunque (come per un tedesco dire: "Tampa,
Florida").
Il tempo di Berlin è quello in cui è già avvenuta – freudianamente
– l’elaborazione del lutto; assenti, quindi, per citare brani grosso modo
contemporanei, l’urlo licantropico di Jay Ferguson degli Spirit in When I
Touch You (su The Twelve Dreams Of Doctor Sardonicus, 1970) o la labirintica
esplorazione del dolore operata a carne viva da Peter Hammill in Lost (su
H To He – Who Am The Only One dei Van Der Graaf Generator, stesso anno).
Siamo forse più dalle parti della seconda facciata dell’album del divorzio
di John Martyn, Grace And Danger (1980); ma se lì, prima della catarsi, il
dolore assume il gusto di quantità oceaniche di alcol, in Berlin, nonostante
l’armadietto delle medicine risulti ben fornito, il tono rimane sempre sorprendentemente
chiaro.
Chi non avesse mai
ascoltato Berlin è invitato a non ricavare da quanto detto finora l’impressione
di un disco in cui testi chilometrici e voce "avanti" si accoppiano
a scarna e poco fantasiosa strumentazione. Sebbene altamente unitario, Berlin
– grazie a un’accurata produzione – è lavoro ricco di policromia, che beneficia
della ricchezza dell’apporto dei musicisti presenti; se sugli arrangiamenti
orchestrali ognuno avrà la sua opinione – ma è azzeccato quello di Lady Day,
in stile Kurt Weill – molti sono i momenti strumentali imperdibili: il piano
quasi monkiano della title-track; l’Hammond con Leslie del Traffic Steve
Winwood su Lady Day; il gioco della dinamica e inventiva coppia Jack Bruce
(uno dei giganti del basso elettrico)/Aynsley Dunbar (batterista del tipo "un
cervello per arto") un po’ dappertutto; il piano e il mellotron del
produttore Bob Ezrin su Caroline Says II; le acustiche col bottleneck in
The Kids; e, tutti su The Bed, il coro finale, che risente delle suggestioni
di Lux Aeterna di György Ligeti (contenuto nella colonna sonora del kubrickiano
2001: Odissea nello spazio); lo sfondo di harmonium (ancora Winwood); e gli
armonici sulla chitarra acustica di Gene Martynec: uno di quegli "effetti
speciali" che sono – letteralmente – "a portata di mano".
Una citazione a parte per il sottile e percettivo lavoro batteristico del
compianto e misconosciuto B.J. Wilson dei Procol Harum, presente in due brani.
Da sempre discordi
i pareri sulla voce di Lou Reed; se è falso, come vorrebbe certa critica,
che la sua vocalità si situi pressappoco dalle parti di Kermit la Rana, è
indubbiamente vero che, per citare solo due degli artisti il cui cammino
ha incrociato, Lou Reed non possiede né il baritono di un John Cale – oltretutto
meglio servito da una mente musicale più complessa – né la duttilità di un
David Bowie (nelle due versioni: quella naso-e-gola di Ziggy Stardust e quella
post reimpostazione diaframmatica, da Young Americans in poi). L’abuso di
anfetamine, poi, com’è noto, non è un toccasana per le corde vocali. Reed
è al suo meglio quando, in assenza di un sovraccarico di concerti, riesce
a portare nella canzone inflessioni e ritmi della musicalità propria del
parlato. (Gli interessati possono fare riferimento a un "Interview Picture
Disc" della Baktabak riportante un’intervista del ’72.)
Escludendo per ovvi motivi gli album post "palestra
& arti marziali" – New York, Songs For Drella e Magic & Loss
– Reed ha centrato il bersaglio quando si è affidato a un produttore forte
che ha saputo lavorargli "attorno": la coppia Bowie/Ronson su Transformer,
che ne ha esaltato il carattere più ironico e corrosivo; l’asciutto Godfrey
Diamond su Coney Island Baby (1976); mentre non tutte le colpe possono essere
addossate a Steve Katz per Sally Can’t Dance (1974), peraltro album di clamoroso
e indisponente successo.
Ma è proprio la produzione di Bob Ezrin su Berlin a costituire
l’esempio migliore di valorizzazione della voce di Reed, grazie a un accurato
e millimetrico lavoro sugli echi e a una musicalissima disposizione spaziale
– le suggestioni suscitate dalla parola "Paradise" non sono certo
frutto del caso! E vogliamo tener presente che in un disco di rock è importante
il suono, e che il suono di un disco è sempre un lavoro collettivo?
E’ tutta la ex facciata due – gli ultimi quattro brani –
a costituire in questo senso l’apice del disco. L’eco sulle sibilanti in
The Bed e la collocazione dei suoni nello spazio ci forniscono esattamente
la cubatura dell’ambiente vuoto e raggelato che il protagonista adesso occupa.
(Scelta autonoma o suggerita da necessità? Chissà. Confrontare l’elegante
soluzione adottata sulle sibilanti dal produttore Tony Visconti sulla title-track
del bowiano Scary Monsters – essendo notoriamente Bowie dotato di un apparato
dentario non proprio esente da pecche!).
Lou Reed viene giustamente
citato per aver introdotto nell’ambito della musica rock – con i Velvet prima,
e poi nel proprio lavoro solistico – tematiche concernenti modi di vita e
rapporti interpersonali fuori dagli schemi usuali; una dimensione chiamata
molto frettolosamente "poesia urbana". In realtà è più esatto dire
che Reed ha esplorato un aspetto della realtà urbana. Ricordiamo intanto
che siamo già nel post Dylan e che contemporaneamente operano – per citare
solo i tre arcinemici – Frank Zappa, i Jefferson Airplane e i Doors. La semplificazione
risulta ancora più evidente quando consideriamo ciò che scriveva una diciannovenne
Laura Nyro ai tempi del suo primo album (1966):
"Cocaine and quiet beers…" Se poi volessimo intendere
"urbano" quale contrapposto a "rurale" allora è ovvio
che tutta la musica di quegli anni è musica urbana – e sono poeti urbani
a pienissimo titolo anche Paul Simon o John Sebastian dei Lovin’ Spoonful
(Summer In The City!) che pure tratteggiano ben diversi scenari.
Se questo è pacifico, l’errore più grave sta a nostro avviso
nel non capire che tutti i luoghi visitati da Lou Reed durante gli anni scapestrati
sono stati da lui visitati in veste di narratore – pur se il narratore divideva
(precariamente) il corpo con un junkie (concetto la cui palmare evidenza
era ben nota a un William Burroughs). La mancata comprensione di ciò porta
al classico sillogismo zoppo "Lou Reed è il coatto a 18 carati – dunque
ogni coatto ha in sé un po’ di Lou Reed", col fischio! In questo senso
il "Rock ‘n’ Roll Animal" costituisce una caricatura che non rispecchia
quanto di più riuscito e duraturo esiste nel lavoro di Reed.
E torniamo a Berlin,
"album deprimente e senza Bowie" per incidere il quale – è circostanza
poco nota – Reed dovette impegnarsi con la casa discografica a realizzare
un album live e uno nello stile di Transformer; particolare che potrebbe
sembrare di interesse solo per i lavoratori degli studi legali, non fosse
che la successione degli album di un artista viene di solito vista come libera
da presupposti. In Berlin, dicevamo, la narrativa asciutta e priva di orpelli
è impietosa – tanto più in quanto priva di un esplicito giudizio morale –
nel mostrare un mondo in cui la dose è il metro dei rapporti umani e in cui
la solidarietà è merce rara – chi può dimenticare la crudeltà degli amici
di Caroline i quali, quando lei si fa di anfetamine, ridono e le chiedono
cosa le passi per la testa?
Enorme è sempre la
distanza che separa un artista adulto dalle opere degli anni giovanili, tanto
più quando, oltre al normale processo di crescita musicale e umana, l’abbandono
di pratiche farmacologiche, pane quotidiano in gioventù, rende necessario
uno spostamento prospettico di tale portata da far sì che l’artista non riconosca
più quelle "cose" quali proprie. E’ problema comune a molti, Cale
o Bowie, Laura Nyro o Rickie Lee Jones. Lou Reed ha però la possibilità di
considerare le proprie opere giovanili per quello che in realtà sono sempre
state – narrativa, esattamente come il Walk On The Wild Side di Nelson Agren.
L’effetto distanza può a volte avere effetti paradossali – chi ricorda il
nerovestito Lou a cavallo di una Honda Motor Scooter con in sottofondo Walk
On The Wild Side? Sperando di non dover ritrovarci a vedere un commercial
del Viagra con dietro How Do You Think It Feels? (… "to always make
love by proxy").
Il Lou Reed più recente sembra comunque maggiormente interessato
a esplorare le capacità tecniche di intervento sul suono dei dischi e degli
strumenti – confrontare la sostanziale inutilità della conversazione avuta
con un intervistatore pur attento e non banale quale Barney Hoskyns a proposito
di Set The Twilight Reeling (apparsa sul n.28 della rivista anglosassone
Mojo, March ’96) con l’entusiastica conversazione avuta con il tecnico specializzato
in masterizzazioni Bob Ludwig a proposito del medesimo disco (vedi EQ, vol.7,
n.4, April ’96). Oltre, naturalmente, a non disdegnare di rivisitare qualche
hit della gioventù – e non faceva tenerezza vedere un notorio "culo
di pietra" dividere la scena con Sam Moore (metà del Duo Dinamite della
Stax, Sam & Dave) per eseguire uno dei più celebri hit della musica soul
degli anni sessanta, Soul Man? A qualunque età, un fan è sempre un fan.
© Beppe Colli 1998 – 2007
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