Intervista a
Beppe Colli (2012)
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di Beppe Colli
Mar. 24, 2012
Ma è proprio vero che la fine è vicina e che il cielo sta
per caderci sulla testa? E che non c’è proprio niente che possiamo fare per
scongiurare questo triste destino?
Dopo aver ascoltato le voci dal tono pacatamente realistico
di due critici quali Mark Jenkins e Barney Hoskyns è giunto il momento di
interrogare Mister Apocalisse in persona. Sette domande, e uno scambio di
vedute condotto via e-mail nel corso di questa settimana.
Se dovessi
sceglierne solo una fra tante, quale la cosa il cui stato ritieni oggi
essere fonte di maggiore preoccupazione?
Il linguaggio.
Capisco che come motivo di preoccupazione non è né nuovo né originale,
e da fan zappiano ricordo bene che la canzone che recita "You can’t
even speak your own fucking language/You can’t read it anymore/You can’t
write it anymore", The Blue Light, fa parte di un album, Tinsel Town
Rebellion, uscito più di trent’anni fa. Ma credo che come tutte le derive
anche questa sia progressiva (mi vengono adesso in mente gli sfottò sui "teorici
della crisi", accetterò il rischio), e vada in ogni caso misurata
sul metro dei compiti che abbiamo di fronte.
Di solito ci
si scaglia contro cose come Twitter. In realtà un linguaggio semplificato
è perfetto per comunicazioni essenziali, il problema sorge quando si vuole
tradurre tutto in un linguaggio che risulta essere troppo povero per poter
veicolare certe informazioni, con la conseguenza che quella parte di realtà
che non entra in quel linguaggio resta fuori. Ma la realtà che resta fuori
da un linguaggio non scompare per il solo fatto di essere fuori dalla vista
come fatto linguistico, e prima o poi morde. La realtà non si apprende
guardando dalla finestra ma per mezzo del linguaggio.
Ci sono poi dei
fenomeni più terra terra ma dalle conseguenze non meno drammatiche. Un
esempio: l’informatizzazione di interi comparti della nostra vita è considerata
(giustamente, e per motivi ben noti) un fattore di sviluppo. Però consideriamo
un database in cui un soggetto di nome Cucè venga inserito da operatori
diversi nel corso di operazioni diverse come Cucè, Cucé, Cuce’. Quando
si vorrà controllare o aggiornare la sua raccolta dati quello che verrà
fuori dall’archivio dipenderà dal modo in cui ne verrà digitato il nome,
con conseguenze facilmente immaginabili. Di solito in casi come questo
si pensa a carente alfabetizzazione, ma se i protagonisti fossero persone
fornite di laurea?
Che mi dici
dello stato odierno dei media?
Tutti i media
risentono del calo degli introiti. Però esistono delle differenze "culturali" tra
un giornale e l’altro. Se metto trenta persone a seguire
la parte "politica" e poi non me ne restano a sufficienza per
controllare i fatti (non le bozze, i fatti) il risultato si vede, ho un
giornale sciatto dove appaiono cose non controllate, a volte false. Lo
stesso risultato può anche essere dovuto al fatto che per motivi di posizione
gerarchica chi scrive in un ambito "culturale" non ha più nessuno
deputato al controllo dei suoi pezzi, quindi l’autocorrezione è l’unica
speranza che resta al lettore; ma è una speranza che poggia su ben deboli
basi se il soggetto ha, poniamo, cinque lavori diversi. Se poi il giornale
ha due pagine di commenti "alti" da riempire ogni giorno accoglierà
senza andare troppo per il sottile ogni contributo proveniente da una cattedra
universitaria (un ambiente,
detto per inciso, non immune dalla deriva di cui sopra).
Esistono molti
modi per distinguere giornali che sono validi da altri che lo sono meno,
e lo stesso vale per le diverse sezioni, ma raramente il lettore ha a disposizione
gli elementi necessari a operare questa distinzione, e oggi sembra possederli
in misura sempre minore.
Credo che questo
criterio di demarcazione abbia senso: tra chi porta allo scoperto i propri
errori, e le correzioni effettuate, in maniera spontanea e autonoma e chi
lo fa solo quando non può proprio farne a meno. Un giornale scadente teme
infatti che rivelare un errore commesso abbia quale unico effetto quello
di togliere autorevolezza rendendo palese l’errore a coloro i quali – si suppone, la maggioranza dei lettori – non se ne sarebbero
mai accorti.
Esiste la possibilità
di un effetto paradosso: che il giornale con più errori ammessi venga scambiato
per quello con più errori, ma quest’eventualità mi sembrerebbe testimoniare
più un’alfabetizzazione carente che un difetto del fattore di demarcazione
proposto.
Cosa ti fa venire in mente la frase "Kicks Just Keep
Getting Harder to Find"?
Fin troppo facile: è il titolo dell’intervista a Richard
Meltzer fatta da Scott Woods apparsa su Rock Critics circa dieci anni fa.
Però immagino che compaia qui al solo scopo di funzionare come spunto per
una discussione che ha per tema "Col tempo si diventa sordi al nuovo".
Una discussione che mi vede un po’ in difficoltà. Se infatti
non posso negare che album di qualità continuano a essere pubblicati, è pur
vero che spesso l’unico motivo per cui me ne accorgo è che me li trovo inaspettatamente
nella cassetta della posta – e qui direi che Fractography di Alicia Hansen
possa egregiamente funzionare da esempio recente.
E poi ci sono i casi in cui ho casualmente ascoltato qualcosa
della quale avevo sentito parlare in termini entusiastici ma così repellenti
(ed ex post, pochissimo pertinenti) da scoraggiare ogni mia curiosità in
merito.
Però guardiamo in faccia la realtà: quale collettivo di individui
sani di mente potrebbe mai intraprendere la creazione di un linguaggio personale
e difficile in una cornice come quella attuale?
Da un punto di vista strettamente personale non ho alcuna
difficoltà ad ammettere che ascoltare casualmente una serie di brani degli
anni sessanta e settanta mi stimola molto di più di un ascolto di natura
parallela che ha per oggetto musica degli anni ottanta: la qualità sonora
propria a un luogo fisico e a una serie di apparecchiature individuali –
quella che potremmo chiamare "l’impronta acustica" – è caratteristica
ben in grado di aggiungere stimoli se rapportata all’uniformità di un Fairlight
a 8bit e di quei riverberi di cui è fin troppo facile durante l’ascolto leggere
la marca, per non parlare della disparità delle invenzioni
"artigianali" dei singoli.
Sono tempi difficili: registrare su uno standard come ProTools
libera i musicisti dal trovarsi nello stesso luogo nello stesso momento e
rende perciò possibile realizzare cose altrimenti fuori dalla portata economica
dei più. Però quello che si perde non è poco (c’è una bella intervista del
noto bassista Mike Visceglia all’ancor più noto bassista Lee Sklar che illustra
bene la cosa).
I baby boomer
hanno passato gli ultimi quarant’anni a lamentarsi di quanto più belle
fossero le cose ai loro tempi. Vogliamo negarlo?
Togliamo subito
di mezzo le accuse più banali. E’ vero che molti tra i boomer sono pronti
a sostenere senza esitazione alcuna che la musica di una volta era mille
volte meglio, e spesso me ne dispiaccio, dato che il più delle volte a
fronte di un ricordo idealizzato si oppone un’ignoranza assoluta di quanto
successo negli ultimi venti o trent’anni. Però è anche vero che se la colpa
è quella di avere amato quarant’anni fa gli album di John Martyn, Nick
Drake e The Incredible String Band per poi rimanere indifferenti di fronte
all’ascolto di quello che un recensore di "conoscenza selettiva" definisce
un capolavoro di freak-folk, allora chiedo la clemenza della corte.
In senso ampio,
i boomer hanno visto il combinarsi di tre fattori: l’importanza biografica
di quanto loro accaduto in età giovanile; la valenza socialmente innovativa
di quanto loro accaduto; l’effetto aggiuntivo derivante dalla sommatoria
dei loro comportamenti individuali in virtù delle dimensioni numeriche
dei nati dal ’46 al ’64 ("il maiale dentro il pitone").
Ma i boomer sono
stati anche un gigantesco laboratorio sociale, dai revival dei Fifties
su scala di massa (da American Graffiti, 1973, alla serie televisiva Happy
Days) alla "seconda giovinezza" di tante pubblicità di automobili
sportive acquistate dopo che i figli erano andati al college alla
"perpetuazione all’infinito" della giovinezza tramite l’uso di
massa di prodotti quali il Viagra.
In senso stretto
forse l’amore dei boomer per la musica non è stato solo un loro merito
ma anche l’effetto indotto di quella che paragonata all’oggi può ben dirsi
una penuria (relativa!) di oggetti. Ma chi mai amerà la musica quanto l’hanno
amata loro?
La tua opinione
sullo stato dei giornali musicali (italiani).
Al mancato invio
di promo da parte di etichette e distributori mi sono ormai abituato ma
non vorrei svegliarmi con una testa di cavallo nel letto. Spero mi sia
consentito di tacere sullo stato dei giornali musicali italiani. La realtà
è peraltro evidente, in Rete e su carta.
In generale direi
che all’estero nessuno se la passi troppo bene. E’ ovvio che Mojo è ancora
un buon esempio di seria creatura semi-industriale, e con dei limiti più
stretti direi anche Down Beat.
Da un punto di
vista personale il mio problema principale nei riguardi di giornali come
Mojo è l’approccio "narrativo" adottato nei riguardi della musica
intesa come musicisti, cosa che rende pressoché obbligatoria la scelta
di musicisti dalla vita colorata e non di rado tragica (un compito certamente non arduo), con la dolorosa conseguenza di escludere dalla trattazione gruppi e artisti dalle caratteristiche più "anonime" o a proposito dei quali la musica
strettamente intesa è tutto.
Il mio ideale
di trattazione "al passato" rimangono quei bellissimi articoli
che fino a vent’anni fa gente come Andy Widders-Ellis faceva su Guitar
Player, laddove il vibrato nervoso e microtonale di Mike Bloomfield "era" Mike
Bloomfield, ma non mi pare che oggi il mercato renda plausibile la presenza
di quel livello di qualità.
Se è concessa
una domanda personale: Clouds and Clocks rimarrà operativo o verrà chiuso
in un futuro prossimo?
A dire il vero
devo ancora capire se per me è più stressante tenerlo aperto o chiuso.
Il problema principale
è l’aleatorietà della triangolazione musicisti/sito/ascoltatori, rapporto
già problematico in tempi lontani in cui gli ascoltatori pagavano per quello
che ascoltavano.
Un fattore che
direi non sufficientemente compreso è che il lavoro non è la semplice ed
economica trasposizione pubblica di passioni individuali, come risulterà
evidente dal seguente esempio.
Per leggere il
volume di Simon Reynolds intitolato Retromania, cinquecento pagine scritte
in buon inglese, occorrono circa venti ore. Per leggerlo in vista di una
recensione ne occorrono non meno di cento. Il motivo è ovvio: quello che
in una dimensione privata non ha necessità di essere provato con logica
impeccabile deve esserlo in una dimensione pubblica, quindi tutto quello
che può essere dotato di pezze d’appoggio deve esserlo. La conseguenza
principale è che nel caso del volume di cui si dice adesso la terza lettura
che si è fermata a pagina cento è stata anche l’ultima, ché nessuno spirito
illuministico avrebbe mai potuto giustificare i conati di vomito (non metaforici,
ma c’erano 40°) provati nell’indagare con rigore una cosa scritta con i
piedi.
Questo tipo di
lavoro si basa su una "apertura di credito", un
"senso di fiducia implicito" nell’esistenza di un lettore interessato
a sapere qualcosa di serio su un volume come quello di Reynolds. Ma esiste
ancora questo tipo di lettore?
So che hai
un giradischi. Cosa ci ascolti?
Purtroppo quasi
niente. Essendo un boomer devo evitare una frequentazione troppo stretta
con il passato in modo da evitare di esserne risucchiato. E se proprio
devo ascoltare qualcosa di vecchio per motivi di mera documentazione mi
è più facile prendere il CD corrispondente.
Di recente ho
ascoltato per la prima volta qualcosa sul mio combo computer + casse, sia
dei file MP3 che dei CD di recente incisione, la qual cosa mi ha rivelato
nuovi particolari sulla "smile curve" e su quell’illusione acustica
che è la percezione del suono da parte di chi non ha mai ascoltato musica
da un supporto decente su un impianto decente – i recensori di oggi!
Ma la disponibilità
a poco prezzo mi ha consentito l’acquisto di tutta una serie di DVD-V che
dovrebbero migliorare la mia comprensione della musica – se solo avessi
il tempo di vederli!
Unica eccezione,
il DVD-V Live in London di Regina Spektor. Questo non vuol essere un endorsement
dell’intera produzione di studio di questa musicista, la mia conoscenza
in proposito essendo a uno stadio ancora embrionale. Ma è certo che la
poca attenzione riservata a questa musica per come eseguita in questo concerto
è davvero un piccolo mistero, o forse no.
© Beppe Colli 2012
CloudsandClocks.net | Mar. 24, 2012