Absolute
Ensemble: ABSOLUTE/ZAPPA®
Teatro
Sangiorgi, Catania
Feb.
25, 2006
E’
ormai da un bel po’ di tempo che ogniqualvolta che nei negozi spunta
qualcosa di Frank Zappa (e quasi sempre si tratta solo di strane raccolte
di pezzi già editi o di ripubblicazioni in formato DVD-V di cose
già apparse su nastri VHS) ci sorprendiamo a interrogarci silenziosamente
su quanto apprezzato – e prima ancora che apprezzato, conosciuto – sia
oggi lo scomparso musicista (leggasi: chitarrista, compositore, cantante,
percussionista, polemista e quant’altro) di Baltimora. Un tempo fra
le stelle polari più brillanti di tutto il rock, Zappa viene
oggi menzionato estremamente di rado, anzi: quasi mai; dal che consegue
di necessità che la gran parte dei "giovani sotto i quaranta"
non l’avrà mai neanche sentito nominare. Ma la circostanza –
che a prima vista potrebbe apparire come di stretta pertinenza della
schiera dei suoi fan più sfegatati – assume un significato di
gran lunga più sinistro qualora si consideri che la nozione di
"rock" oggi prevalente esclude con nettezza dal campo dell’esistente
tutto ciò che si presenta come appena più complesso dell’elementare.
Logico quindi che il lavoro zappiano trovi oggi il massimo apprezzamento
in quegli ambienti dell’Accademia – la più avanzata, la più
illuminata – che operano negli estremamente indefinibili, e perennemente
mobili, territori di confine. O no?
In
realtà, se il rock non ride, la classica piange a dirotto – e
qui è sufficiente porre una sola domanda: chi avrebbe oggi il
coraggio di pronunciare in pubblico l’espressione "cultura alta",
se non riferendola al passato? Ma dove può essere trovata quella
legittimazione "forte" in grado di garantire quel flusso di
finanziamenti assolutamente indispensabile alla vita di una forma che
è contabilmente passiva per definizione e che, dati i tempi attuali,
deve forzatamente presentare "eventi"? Una nozione che può
senz’altro andar bene è quella di "innovazione". Ma
è oggi l’Accademia in grado di produrre "innovazione"
– e di presentare il risultato come un paradigma accettabile? Qui la
risposta ad ambedue le domande pare senz’altro essere negativa. Le cose
si complicano ancor più se consideriamo che neppure il rock,
oggi, produce più "innovazione". E che mentre una volta
il musicista di "rock difficile" (per esempio, Eno) era in
grado di introdurre una vasta platea di giovani a un "musicista
classico fuori dall’ordinario" (per esempio, Steve Reich), il suo
equivalente "in scala ridotta" di oggi (per esempio, Thurston
Moore) poco potrà per lo "sconosciuto innovatore" (per
esempio, Morton Feldman). Si cerca perciò la soluzione, a occhio,
ora nel "rock sperimentale" che fu (la Metal Machine Music
trascritta per ensemble), ora nel "riassunto con ritmo" (si
veda la Steve Martland Band: dalla palestra alle masse), ora in qualche
"buona idea che qualcuno ha avuto là fuori" (per esempio,
una rilettura postmoderna di Mahler con tanto di DJ).
Anche
il jazz sta oggi cercando una propria via d’uscita (in realtà,
più d’una: "mai riporre troppe speranze in un solo cavallo,
specialmente in caso di stagione estiva di festival"). Tolti i
nomi ovvi (Diana Krall, Norah Jones, Chris Botti, Michael Bublé),
restano soprattutto "il jazz come moderna musica classica americana"
(cioè a dire, nutrito da sovvenzioni pubbliche) o l’adozione
di elementi mutuati da quell’estetica di "moderna cultura hip-hop"
che molti musicisti (che diremmo essere soprattutto – ma non solo –
statunitensi) sembrano (correttamente) ritenere l’unica via d’uscita
oggi praticabile per non morire di fame ("Get Rhythm? Be-Hop!").
Meritatissime
la stima e la celebrità che l’Ensemble Modern – un vero "laboratorio
vivente" per Frank Zappa nei suoi ultimi anni di vita – si è
guadagnate in concerto e su disco (si vedano gli album intitolati The
Yellow Shark e Greggery Peccary & Other Persuasions): una miracolosa
precisione arricchita dal calore inconfondibilmente umano dell’esecuzione.
Fummo quindi discretamente sorpresi, un paio di anni fa, nell’apprendere
che un’altra formazione orchestrale, denominata Absolute Ensemble, aveva
messo in cantiere un omaggio zappiano. Balzava immediatamente agli occhi
la presenza in qualità di "Special Guests" di due nomi
che avevano fatto parte dell’universo zappiano: Napoleon Murphy Brock
(il sassofonista, flautista, cantante e "presenza scenica"
dell’amatissima formazione ben rappresentata su Roxy & Elsewhere,
The Helsinki Concert, One Size Fits All e sul video intitolato The Dub
Room Special) e Mike Keneally (chitarrista, cantante e tastierista nell’ultimo
tour zappiano, quello dell’ottantotto, e sui dischi da esso poi tratti).
Subito evidente che le coordinate scelte avrebbero reso il tentativo
dell’Absolute Ensemble molto diverso dalla dimensione tipica dell’Ensemble
Modern: canzoni, assolo chitarristici, una grana più "rock"
ci sembravano conseguire "more geometrico" dalle premesse.
Le
non molte recensioni che ci era capitato di leggere a proposito dei
concerti effettuati dall’Absolute Ensemble nel 2004 e nel 2005 (eccezion
fatta per quelle cui non sembrava estraneo uno spirito – diciamo – "di
servizio") sembravano concordare su più punti: ottime capacità
esecutive, qualche scelta discutibile negli arrangiamenti, un paio di
inserti rap (!) di dubbio gusto e pertinenza. Il tutto ci aveva reso
curiosissimi di poter vedere un giorno la formazione, ospiti inclusi.
Ma ne avremmo mai avuto la possibilità?
Il
lettore può ben immaginare la nostra sorpresa quando, scorrendo
il mastodontico programma di EtnaFest ("I grandi appuntamenti della
Provincia di Catania"), ci è capitato di scorgere, tra gli
altri, il nome Absolute Ensemble. In programma: ABSOLUTE/ZAPPA®.
Completamente
rinnovato, buona acustica, il teatro Sangiorgi fa all’incirca 220 posti
a sedere. Osservando l’enorme quantità di strumenti presenti
sul palco (se abbiamo contato bene, in quest’occasione l’Absolute Ensemble
consisteva di venti elementi, molti dei quali polistrumentisti), i radiomicrofoni,
l’amplificazione (che si rivelerà pulitissima e fedelissima),
i tecnici e il mixer, e sommando il costo di aereo, vitto e alloggio
per tutti, più il compenso… facciamo subito una stima di larga
massima di 50.000/70.000 euro. Biglietto a 6 euro, poltrone 220… Gulp!
Sarà che siamo puritani, sarà che il nostro ambito di
riferimento è sempre stato quello del rock e del jazz d’avanguardia,
ma troviamo non poco disturbante l’idea di pagare così poco per
un evento tanto dispendioso. Decidiamo di far tacere i nostri scrupoli
almeno per un po’ e di goderci il concerto.
Piano
a coda, tastiere, batteria, percussioni, vibrafono, un quartetto d’archi,
chitarra e basso elettrici, flauto, sassofono, fagotto, controfagotto,
tromba, trombone, la chitarra di Keneally, il sassofono e il flauto
di Brock, le tastiere e il computer dell’altro Special Guest Django
Bates… rende l’idea? Davanti a tutti, il direttore d’orchestra Kristjan
Järvi. Di indubbie competenze tecnico/musicali, Järvi si rivela
quasi subito uno spettacolare paraculo – uno di quelli, per intenderci,
che hanno fatto i conti con la circostanza che la televisione esiste,
traendone tutte le debite conseguenze. Notiamo scorrendo il programma
che buona parte degli arrangiamenti è opera del chitarrista della
formazione, Gene Pritsker; segue a ruota Charles Colson, che non è
uno dei musicisti sul palco e che non abbiamo mai sentito nominare in
precedenza.
Precisione,
grinta, una certa inventiva non fanno difetto alla formazione. L’unica
caratteristica dell’impianto generale che abbiamo trovato discutibile
è stata una insistita fissità ritmica di certi momenti,
quasi un pedale adottato allo scopo di rendere più facilmente
fruibili i poliritmi che su di esso si poggiavano (anche Steve Martland,
visto qualche mese fa, ci era sembrato adottare lo stesso mezzo). Con
l’esclusione di qualche arietta mediorientale, pochissimo appropriata,
c’è davvero poco da dire, il tutto fa un figurone. Belli gli
strumentali: Don’t You Ever Wash That Thing, con agile trombone; il
medley Dog Breath/Uncle Meat; While You Were Art; G-Spot Tornado; Revised
Music For Low Budget Orchestra, dove il perfetto unisono melodico centrale
fra la chitarra di Keneally e il violino (di Vesselin Gellev? Shalini
Vijaian? Saperlo…) è davvero bello, e per chi scrive uno dei
momenti alti dell’intera esibizione; una versione strumentale di Teenage
Prostitute dalla dinamica rock; un tema da Lumpy Gravy; RDNZL; un po’
fiacca Peaches En Ragalia. Bene anche le canzoni, con Napoleon Murphy
Brock ottimo cantante e brillante e vivace presenza scenica (sì,
lo sapevamo, ma a quell’età…): Inca Roads, Planet Of The Baritone
Women, Muffin Man, Dirty Love, Cosmik Debris, Montana. Forse il momento
più alto, una Uncle Remus dove la chitarra di Keneally e la voce
di Brock hanno creato un’atmosfera davvero toccante. A questo proposito
va detto che la nostalgia a buon mercato è stata fortunatamente
assente, e che anche laddove Brock ha interpretato parti vocali in origine
cantate da Zappa lo ha fatto evitando l’effettaccio.
Buone
le tastiere "computeristiche" di Bates, valido il quartetto
d’archi e il violinista prima citato (non di rado gli archi hanno suonato
trascrizioni di assolo chitarristici di Zappa, cosa che ha evitato a
Keneally il tremendo pericolo di scadere nella caricatura), molto buono
il pianista, ottima la ritmica e il lavoro di tessitura del chitarrista
della formazione, belli gli assolo di tromba e trombone, valido Brock,
intelligente, versatile e misurato Keneally.
E
quindi tutti a casa contenti, giusto? Purtroppo no. Qui va detto di
due cose davvero orrende, dove un cattivo gusto che fa davvero a pugni
con tutto il resto ha imperato, lasciando (soltanto in chi scrive?)
una bruttissima sensazione di estremo disagio. Primo: durante Dirty
Love il chitarrista dell’orchestra si alza e parte a rappare come un
ossesso; ma è brutto, sa di mezzuccio, non ha nulla dell’episodicità
lieve della zappiana Promiscuous, del tassello brillante; sa solo di
avanspettacolo. L’episodio si ripete alla fine del concerto, se possibile
in peggio: perché qui al rappare si aggiunge il paraculo di cui
sopra a incoraggiare un accelerare del tempo e un assieparsi di una
cinquantina di spettatori sotto il palco, finalmente liberi di sudare
e saltare e di dimostrare così la loro "attiva umanità".
E’ vero, a volte gli "audience participation time" di Zappa
ci avevano mostrato gente non troppo brillante e che era fin troppo
facile prendere in giro. Ma mai, ci sentiamo di dire, Zappa aveva mostrato
di sfruttare l’altrui mediocrità in modo cinico. A questo punto,
tra odore di sudore e facce finalmente (e per la prima volta?) contente
del bel concerto, si guadagna l’uscita.
Che
avrebbe pensato Zappa?
Beppe
Colli
© Beppe Colli 2006
CloudsandClocks.net
| March 2, 2006