Dieci anni
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di Beppe Colli
Nov. 26, 2012
Incredibile a dirsi,
Clouds and Clocks compie oggi dieci anni.
E mentre lo scrosciante applauso che ha calorosamente accolto
la notizia si spegne lentamente soffiamo via la polvere dal nodoso randello
che riserviamo alle grandi occasioni e ci prepariamo a fare il punto della
situazione.
Tante volte, nel corso
di questi dieci anni, ci siamo chiesti se davvero ne valesse la pena, la
qual cosa diremmo perfettamente normale visto che parliamo di un compito
che non prevede alcuna ricompensa monetaria e che deve quindi necessariamente
trovare in se stesso logica e scopi; ed è un compito che ovviamente presuppone
in primo luogo l’esistenza di una musica degna di essere raccontata, requisito
del quale la concezione "bollettino delle nuove uscite" o "consumer
guide" che dir si voglia può tranquillamente fare a meno.
E qui dobbiamo ammettere che di tanto in tanto la nostra
fiducia è crollata e la situazione ci è apparsa disperante. E’ ovvio che
un album bello, fresco e innovativo si trova sempre, ma è la tinta complessiva
del paesaggio a indurre talvolta chi scrive allo sconforto.
Al fine di dare una base minimamente empirica al nostro giudizio
abbiamo riletto il pezzo intitolato 22 from 2002, apparso nel gennaio del
2003 e da noi scritto allo scopo di segnalare l’esistenza di album usciti
da poco tempo e che ritenevamo meritevoli di attenzione ma che ci era stato
impossibile recensire dato che il nostro sito non esisteva ancora. Al confronto
l’oggi non soffre poi tanto, anche se dobbiamo ammettere che a volte è stato
solo qualche programma di ristampe – il caso più recente è quello che ha
come protagonista Frank Zappa – a salvare la situazione.
Però le ristampe dei
"capolavori del passato" mettono in luce verità spiacevoli che
non vanno taciute. Innanzitutto, che il numero degli album di altissima levatura
che una volta venivano pubblicati era senz’altro superiore a quello di oggi.
Poi, che l’insieme formato da sale di incisione, tecnici, produttori e gente
che inventava e produceva apparecchiature era in grado di fornire alla musica
un valore aggiunto che veniva portato in sala – e qui non si parla solo di
pianoforti a coda, microfoni di ottima qualità e mixer dal suono spettacolare,
ma di tutta una serie di soluzioni mentali che il singolo musicista non può
giocoforza possedere. C’è anche, in parallelo, tutto il patrimonio "manuale" dei
musicisti di studio – gli accordi, le tecniche esecutive, l’inventiva delle
proposte (di recente guardavamo il DVD-V della serie Classic Albums dedicato
all’incisione di Aja degli Steely Dan, e diremmo che non esiste modo migliore
di prendere confidenza diretta con quanto stiamo dicendo) – un patrimonio
che oggi di fatto non esiste più. In ultimo, c’è la spiacevole sensazione
di vedere arrivare i nuovi album come tanti eventi isolati e non come tasselli
che, in senso musicale e tecnico, dialogano tra loro com’era comune fino
all’inizio degli anni ottanta.
Quanto detto rende ancora più prodigioso l’apparire di buona
musica e quasi obbliga il recensore a darne conto aggiungendo al contempo
un sovrappiù di gratitudine e di calore. Però va anche detto che il musicista
appare oggi molto spesso demoralizzato e disilluso, schiacciato tra un passato
che sembra ogni giorno di più destinato a non ripetersi e un presente fatto
di vendite che in alcuni casi è fin troppo cortese definire simboliche. Si
avverte anche un calo di tensione successivo all’incisione e all’uscita di
un album, quasi che le forze fossero bastevoli a quello e a quello solo,
mentre la consapevolezza amara che nessuna intervista o recensione potrà
mai cambiare il corso delle cose suggerisce un impiego più accorto del proprio
tempo.
Abbiamo detto più volte
della progressiva scomparsa del critico e in generale di tutti i "corpi
intermedi" che si ponevano in funzione di filtro tra l’oggetto e il
fruitore. Abbiamo anche detto di come e perché questo evento sia stato spesso
vissuto come una liberazione dalla quasi totalità del pubblico, di come il
critico si sia trovato privo di legittimazione (e, di conseguenza, di retribuzione)
e di come i fruitori socializzati in tempi recenti non sospettano neppure
che quello di cui stiamo ora dicendo sia stato un tempo un problema.
Ma se anche la supponessimo ineluttabile, la situazione presente
lascia i musicisti in una condizione scomodissima, costretti come sono a
sgomitare per ottenere un briciolo d’attenzione in un mondo che non è retorico
definire infinito, e spinti dalle circostanze a ricorrere a mezzi "sensazionalistici",
e quindi "extra-artistici", con la consapevolezza che l’attenzione
eventualmente guadagnata avrà sempre carattere di impermanenza. (Una condizione
che riguarda ovviamente anche i politici e i soggetti pubblici in genere.)
Correlata all’attenzione
"puntillistica" è la percezione della scelta "autonoma"
come momento di "empowerment". Da parte nostra abbiamo spesso indicato
come alcune conseguenze della nozione di "empowerment" per quanto
riguarda la musica siano correlate a quel processo di lungo periodo che trasferisce
il peso e il costo dell’agire sul fruitore: al supermercato, il riporre i
prodotti nel carrello, poi sul nastro e infine il pagare alla cassa mediante
carta di credito; le procedure consimili ai caselli autostradali e ai distributori
di benzina; le operazioni che è possibile effettuare in maniera autonoma
per via telematica. Notiamo che a fronte dello scomparire del "middle
layer" e del risparmio conseguente in termini di occupazione viene sempre
messo in risalto il valore di autonomia e di libertà per l’utente, ora finalmente
libero di accedere al servizio richiesto in ogni momento e senza restrizione
alcuna. (Una condizione che il premier del Regno Unito Margaret Thatcher
riassunse nello slogan "A doctor of my choice, at the time of my choice".)
Chi scrive, formatosi
nell’epoca del vinile – prima il 45 giri, poi l’album a 33 giri – come oggetto
di massa, non ha inizialmente visto il CD con troppa simpatia, per tutta
una serie di motivi di cui abbiamo già detto in passato e che sarebbe troppo
lungo – e non necessariamente indispensabile – ricordare oggi. Pur con tutti
i suoi difetti, il CD ci sembrò costituire un compromesso onorevole, che
però necessitava ancora (sulla carta) di due "oggetti" esterni:
uno "strato intermedio"
di critici competenti e un tipo di "attenzione indivisa" simile
a quella che era "tipica" dell’era del formato LP.
Com’è noto, queste caratteristiche sono saltate in aria,
anche in virtù della possibilità di poter accedere a una quantità sterminata
di oggetti sotto forma di file offerta dalla banda larga a buon mercato.
Ora che un decennio è passato, è fin troppo facile identificare
i perdenti: in primis sono i titolari di diritti di "software",
che qui includono autori ed esecutori dei testi e delle musiche che ascoltiamo
con tanto piacere ogni giorno, e insieme a loro quegli organismi, case discografiche
in testa, che a quel "software" sono correlati. Per sapere chi
in questa fase è il vincitore è sufficiente pensare al modo prevalente in
cui gli utenti hanno oggi accesso ai file e al modo in cui essi vengono ascoltati.
In parallelo a quanto detto poc’anzi, l’utente si avvia ad
avere un accesso diretto ai file, saltando così l’intermediazione del negozio.
Le case discografiche – se esisteranno ancora – potranno risparmiare sui
costi di stampa, di trasporto, sulle percentuali per i negozianti e così
via. La scomparsa delle case discografiche – così si argomenta – renderà
il musicista libero… di cercarsi il suo pubblico.
(Ci pare strano che non pochi tra coloro i quali auspicano
la scomparsa del CD – una scomparsa che sembra sempre più avviata a prendere
corpo con la sparizione del lettore ottico da computer e automobili – non
si rendano conto delle implicazioni della "scomparsa del supporto".)
File "grezzo" in mp3 per chi vuole spendere poco
e per chi non è troppo interessato a una fruizione di qualità elevata, file
ad
"alta risoluzione" per quelli dalle orecchie fini. E se il file
mp3 è da tempo una realtà estremamente diffusa, il file hi-res pare candidarsi
allo stato di "soluzione ideale" per i palati esigenti e per un’industria
dell’alta fedeltà che dovrebbe sostituire con DAC e simili i piatti e i lettori
CD di una volta.
Ma da quale master proverranno questi file ad alta risoluzione?
Da quelli analogici (o digitali, il discorso non cambia) originali o da rimasterizzazioni
selvagge che stravolgeranno il lavoro per come esso era stato realizzato?
Di cosa parleremo in realtà quando diremo che i Beatles, o i Velvet, o Zappa,
hanno fatto "questo"? Sarà "questo" ancora veramente "quello"?
Un esempio recente illustrerà bene la cosa.
Al tempo della più recente ristampa in CD concernente i Beatles
– parliamo delle rimasterizzazioni del 2009 – ci fu chi si accorse che uno
dei pezzi più celebri di uno degli album più celebri del quartetto inglese,
Abbey Road, presentava una vistosa anomalia: sulla I Want You (She’s So Heavy)
di John Lennon mancava il caratteristico suono prodotto dal selettore dei
pickup della sua Epiphone Casino mentre veniva spostato prima dell’assolo
(il suono dovrebbe essere presente a 2:21 e 3:43). La comunità in Rete dei
fan dei Beatles notò questa strana "innovazione" che – come tante
altre che hanno caratterizzato le ristampe del 2009 – privava di un elemento
riconoscibile quello che era il brano originale.
Ma questa e altre discussioni avvengono (in Rete) in un mondo
iperspecializzato e dalla partecipazione (sia in senso pratico che monetario)
aleatoria, cosa che rende l’esistenza di questi luoghi una perenne incognita.
Per contro, da tempo immemore – diciamo fin dal passaggio dall’LP al CD –
i giornali rifuggono argomenti di questo tipo, definiti (diremmo per ovvi
motivi di comodità atti a mascherare un’incompetenza fattuale e un comportamento
pilatesco e forse mercenario) "troppo tecnici" e quindi "per
pochi".
Ci colpì molto la
frase che un nostro conoscente più giovane, capitato casualmente a casa nostra
mentre ascoltavamo un album fresco di stampa, pronunciò quando gli chiedemmo
cosa pensasse di quella musica. Infatti la ricordiamo perfettamente nonostante
siano passati circa vent’anni. La sua risposta fu: "Nel tempo che mi
ci vuole a sentire un disco dei tuoi io ne sento cinque dei miei". La
annotammo subito. Il lettore è oggi in grado di valutare da sé quanto questo
atteggiamento, sebbene espresso in un modo che potremmo definire involontariamente
comico, sia tipico della moderna fruizione.
Il diffondersi dell’atteggiamento che tende a escludere
qualsiasi fruizione che implica impegno – e che quindi finisce per far coincidere
la fruizione con il trastullo proprio dei più piccini – suona la campana
a morto per qualunque tipo di musica "difficile", oltre a far sì
che di ogni cosa "semplice" venga visto solo lo strato più superficiale.
Questo atteggiamento rende tendenzialmente impossibile il verificarsi di
quel fenomeno che eravamo soliti chiamare
"maturazione", che oggi cede il posto a un processo di incessante
sostituzione degli oggetti – un processo, come sarà chiaro, affine a quello
del fanciullo che si stanca dei suoi giocattoli.
(Detto tra parentesi, è solo in questa cornice che diventa
comprensibile il fatto altrimenti inspiegabile che seguitissimi programmi
televisivi utili a capire la realtà quanto le conversazioni da bar vengano
definiti "di approfondimento".)
Stante lo sfondo dato dalla profonda crisi economica che
è sotto gli occhi di tutti, c’è chi ha previsto un ritorno della
"maturazione" quale risposta a un crescente pauperismo. Ma ciò
è semplicemente assurdo, se sol si comprendono correttamente le dinamiche
in atto. (Un lucido intervento in proposito è quello di Gilles Lipovetsky
apparso su Repubblica in data 16 novembre con il titolo a nostro avviso non
poco fuorviante di Le leggi del desiderio – Il piacere del consumo come consolazione.)
Dubitiamo che in un mondo profondamente secolarizzato come
il nostro possa mai avvenire un’inversione di tendenza, il che rende a dir
poco problematica la sopravvivenza di chi produce oggetti la cui fruizione
richiede un’attenzione "esclusiva". Da parte nostra possiamo solo
sperare di poter continuare a fare del nostro meglio.
© Beppe Colli 2012
CloudsandClocks.net | Nov. 26, 2012