Pick of the Week #7
Storytellers
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di Beppe Colli
Jan. 8, 2021
Mose Allison
Your Mind Is On Vacation/What Do You Do After You Ruin
Your Life
Dobbiamo
confessare di non avere la minima idea di quanti, oggi, abbiano mai sentito il
nome di Mose Allison (1917-2016) o ne abbiano ascoltato la musica. La cosa ha
un che di paradossale, adesso che la comunicazione in Rete consente di
approfondire senza intermediari ogni stimolo, in un’epoca in cui la musica
"popolare" è argomento di normale trattazione sulla stampa quotidiana
– e quale migliore occasione di un necrologio? – e non più, com’era abitudine,
appannaggio esclusivo di quella "specializzata".
Di
tanto in tanto ci siamo chiesti se le opinioni politiche di Mose Allison – che
diremmo "un socialista" nel senso di Bernie Sanders – possano aver
contribuito a una trattazione "selettiva". E certo il cronista deve
obbligatoriamente registrare la "santificazione" già in vita di
figure della musica country – l’esempio ovvio è Johnny Cash – che un tempo nel
mondo del "rock" era normale considerare… diciamo con sospetto. E
qui il pensiero corre a Willie Nelson, musicista "atipico" che
"il rock" non sembra avere accolto, a differenza del "man in
black".
Sono
questioni complesse (ma ineludibili: quanti prima del "black album"
avrebbero sospettato la sola esistenza delle "radici" di James
Hetfield, o considerato possibile che i Metallica riprendessero una pagina di
Bob Seger come Turn The Page?), e sulle quali è facile prendere abbagli,
soprattutto parlandone da distanze geograficamente e culturalmente notevoli.
Purtroppo
esiste una spiegazione più semplice (e diremmo paradossale): il fatto che Mose
Allison sia stato classificato e presentato quale artista "jazz",
invitato a rassegne "jazz", discusso su riviste "jazz" e
"inbinato" nel settore "jazz" delle scaffalature dei
negozi. E una simile classificazione è notoriamente "il bacio della
morte".
Il
paradosso sta nel fatto che negli anni sessanta gruppi come Kinks e Who
vedevano Mose Allison come figura fondamentale per la loro estetica, e alfieri
del blues "Made in UK" ne riprendevano le pagine – un esempio per
tutti, la cover di Parchman Farm fatta da John Mayall sul celeberrimo
Bluesbreakers With Eric Clapton (1966), l’album colloquialmente conosciuto come
"The ‘Beano’ album".
E
dinamite pura è la versione di Parchman Farm fatta dai Cactus (che tentando di
dare una mano diremmo "gruppo basato sulla gloriosa ritmica Bogert/Appice
già Vanilla Fudge", definizione che sospettiamo non voglia più dire alcunché
per la maggioranza dei lettori) sull’omonimo album di esordio (1970).
Ma
la versione senz’altro più celebre di un brano di Mose Allison è quella di
Young Man Blues fatta dagli Who e piazzata quale bella apertura del celeberrimo
(lo sarà ancora?) Live At Leeds (1970).
Nato
a Tippo, Mississippi, Mose Allison suona il piano (e studia: è uomo di profonde
letture) e si forma sulla musica blues e jazz del luogo e del periodo.
Trasferta a New York, e un certo numero di album per la Prestige. Ma sono
soprattutto i suoi brani cantati – riproposizioni di classici quali The Seventh
Son, Eyesight To The Blind, Rollin’ Stone prima, e originali quali Young Man
Blues poi) che gli danno una discreta notorietà. La sua impostazione vocale finisce
per creare (attenzione a questo) un modello credibile di musicista bianco che
suona il blues per le figure Made in UK già citate.
La
Prestige, giustamente, pubblica Mose Allison Sings (1963). Ma l’artista
affinerà ancora di più estetica e mestiere nel suo periodo Atlantic, e qui
diremmo che a fronte di un buon numero di album una rappresentazione degna e a
suo modo completa è quella data da The Best Of Mose Allison che trovammo in CD
su un bancone di "offerte": un modo splendido di trascorrere un’ora.
(Fatto
curioso, a volte nei brani più meditativi sembra di ascoltare dei passaggi che
ricordano Ray Manzarek dei Doors, probabilmente in virtù di ascendenze
classiche comuni.)
Il
repertorio di Mose Allison è vasto, ma non tanto da non suggerire al musicista
di riprendere più volte nel corso della carriera alcuni dei suoi brani più
celebri (e non).
A
volte quadretti divertenti, a volte meditazioni profonde esposte con un
linguaggio semplice, quelle di Mose Allison sono canzoni per le quali è stato
usato l’appellativo di "homilies" (con il suo quasi-sinonimo di
"sermon"): parole che oggi crediamo poco lusinghiere in una società
che attribuisce loro significati legati alla "omelia" e al
"sermone" che vengono dal pulpito. Ma diremmo che basta ricordarsi dello
stretto legame intercorrente tra pulpito e blues per fare andare a posto ogni
cosa.
Pragmaticamente,
chi scrive nutre una predilezione per l’album Your Mind Is On Vacation (1976),
che in tempi ormai lontani vide una riproposizione in CD della Koch (2000).
L’album
contiene delle perle quali No Matter, One Of These Days, I Feel So Good,
Swingin’ Machine, Your Molecular Structure, tutti indiscussi classici.
L’apertura è affidata alla pimpante Your Mind Is On Vacation (And Your Mouth Is
Working Overtime), come dire: il cervello in vacanza e la bocca che fa gli
straordinari (a volte ce la canticchiamo quale monito). "Se il silenzio
fosse d’oro/Tu non avresti un soldo".
L’altra
faccia è una canzone quale What Do You Do After You Ruin Yor Life, concentrata,
mesta, partecipe. "Can you tell your friends, can you face your wife?"
(…) "Do you seek the truth in times when lies are ripe?"
Una
cosa che Mose Allison non è mai è "cinico”. E dati i tempi la diremmo una
qualità davvero importante.
Lyle Lovett
I’ve Been To Memphis/Baltimore
Azzardando
una misurazione, diremmo che oggi Lyle Lovett è forse più conosciuto come
attore che come musicista. Quel che è certo è che, elenchi alla mano, con il
passar del tempo Lovett si è sempre più dedicato al cinema che alla musica (il
suo ultimo album dovrebbe risalire al 2012). Mentre molti, soprattutto negli
Stati Uniti, lo conoscono (solo o soprattutto) quale (ex) marito della
popolarissima attrice Julia Roberts.
Lovett
è (stato) spesso classificato come "cantante country", e per molto
tempo proposto e "venduto" come tale. La figura non sembrava sfuggire
allo stereotipo: cappello, stivali, ranch, pick-up, cavalli e tori (e una gamba
fratturata in più punti, come narrato da un esaustivo profilo pubblicato dal New
Yorker in tempi ormai lontani).
Il
nostro scarsissimo entusiasmo per la musica etichettata come country è il
motivo per cui ci eravamo completamente disinteressati di lui al tempo degli
esordi. Finché un bel giorno, nel 2000 o giù di lì, venne fuori una discussione
interessante sul forum del quale eravamo membri registrati (prima e unica volta
della nostra vita): quello moderato dal produttore, tecnico e inventore George
Massenburg.
L’album
in discussione, Joshua Judges Ruth (1992), sembrava decisamente promettente per
una lunga serie di motivi, non ultimo il fatto che Massenburg lo aveva
co-prodotto, registrato e missato, e così decidemmo di acquistarlo.
Iconografia
a parte, come un album del genere potesse essere classificato come
"country" era un mistero. Bisognava arrivare al pezzo #10, She’s
Leaving Me Because She Really Wants To, per trovare un brano che con tutta
evidenza era stato messo apposta per dare alle radio di quel "format"
qualcosa da trasmettere (ed era senz’altro il brano peggiore dell’album,
"stile" a parte).
Lovett
si rivelava cantante versatile e autore non privo di profondità, l’album
tutt’altro che monotono. Scegliendo fior da fiore, tra i musicisti era
possibile trovare nomi quali Leland Sklar (basso), Russ Kunkel (batteria), Dean
Parks (chitarre) e il fenomenale Matt Rollings (pianoforte), per tacere delle
partecipazioni straordinarie.
Il
suono era semplicemente fenomenale: un DDD che suonava "tutto
analogico", un CD in grado di far suonare "alla grande" un
semplice impianto, con vivezza e realismo degli strumenti e dell’insieme.
La
cifra stilistica ci risultava inusuale – mai un pezzo semplice quanto North
Dakota ci era sembrato offrire una narrazione di così difficile decifrazione –
e con il tempo Joshua Judges Ruth è diventato uno di quei "classici"
che ogni volta è possibile indagare da un punto di vista diverso, chitarre
acustiche in primis.
In
apertura di album, I’ve Been To Memphis è un quadretto spiritoso dalla
narrativa non lontanissima da certe cose di Randy Newman, pur nelle differenze.
Pianoforte strepitoso, ritmica pimpante, due falsi finali.
Se
scegliere tra il resto è difficile, il brano che ci ha maggiormente affascinato
nel tempo è Baltimore, storia decisamente sinistra e dalle tinte fosche (ma
tutto l’album è intriso di narrazioni gospel, blues, e country) il cui elemento
timbricamente di spicco è costituito dal respiro, la gola e la saliva del
cantato (come avranno fatto?); mentre il missaggio, che sulle prime vede la
voce quale protagonista, avvolge progressivamente il narratore in modi che non
possono lasciare indifferente chi ascolta.
Fatto
strano, ogni volta che abbiamo provato a riaccostarci alla musica di Lyle
Lovett – l’ultima risale ai tempi di It’s Not Big, It’s Large (2007) – non
siamo rimasti altrettanto colpiti. Stante che le nostre priorità sono altre,
abbiamo deciso di rubricare la cosa alla voce "misteri della vita".
Finché
un giorno non abbiamo trovato in Rete, in un altro forum, questa dichiarazione
di George Massenburg risalente al 2005:
"That
was a tough record to make. I felt like I was the only one who heard it that
way, other than the brilliant musicians on the record. I fought with no one
more than with Lyle Lovett himself. Not sure why… maybe insecurity, madness,
during the making of this record Lyle treated me and every idea I had with
suspicion and distrust. Every word I said, every move I made, had to be
justified and defended (think your worst nightmare of a control freak in the
recording studio). Overall, the feeling I was left with was that I was taking a
very great deal of his money for doing nothing but interfering with his
artistic vision. He has not made a better record since."
E
questa è la storia…
Ani
DiFranco
Lag
Time/Minerva/Recoil
Davamo
un’occhiata all’esibizione di Taylor Swift avvenuta non molto tempo fa nei
locali dell’emittente radiofonica "pubblica" statunitense NPR, in
quella vera e propria istituzione che è la serie Tiny Desk Concert, quando la
musicista ha attaccato una versione per solo voce e chitarra del brano The Man.
Brano che diremmo conosciuto, e il cui video avevamo visto più di una volta. Ma
priva delle immagini, sorretta dalla nuda chitarra, la canzone mostrava adesso
delle affinità – non solo tematiche – fin troppo evidenti: "Sembra un
brano di Ani DiFranco!", ci siamo ritrovati a dire. Da cui
l’interrogativo: ma perché nessuno parla di Ani DiFranco?
E’
evidente che la quantità "nessuno" è soggetta a variare. E
scommettiamo che il lettore non sarà stupito nell’apprendere che questa è una
domanda che nel corso del tempo ci siamo posti spesso, ponendola anche ad
esperti del settore residenti laggiù.
Con
l’exploit di metà anni novanta – ricordiamo ancora la copertina di Spin con
l’artista vestita di pelle, borchie e tutto il resto a fare capolino dalle
edicole della nostra città – la DiFranco ci sembrava destinata a diventare un
personaggio. In piccolo, lo era già. Ma le proporzioni che immaginavamo erano
ben altre.
"Non
sono le sue caratteristiche", fu la risposta di chi più di noi sapeva al
nostro interrogativo che tirava in ballo le testate di lì in merito a uno
spazio che tutto sommato poteva essere qualificato come "avaro"
qualora rapportato a dati obiettivi quali vendite e spettatori ai concerti.
"E’ il pubblico al quale si rivolge e che la segue che viene considerato
"di nicchia" rispetto al pubblico in senso lato."
La
storia è andata avanti, i begli album si sono susseguiti, ma la pubblicazione
di una autobiografia – No Walls And The Recurring Dream (2019) – ci ha dato più
di un motivo di perplessità. Innanzitutto, non ne avevamo saputo niente, e le
recensioni recuperate l’anno successivo ci sono sembrate poche e di non molto
spicco. Abbiamo poi trovato delle interviste in video che sembravano
condividere lo stesso neo: programmi, conduttori e taglio da "programma
culturale". Di tutto rispetto, per carità, ma con il serio inconveniente
di essere visti da una fascia di utenti il cui unico consumo è spesso solo
quello di guardare questi programmi.
Utenti che spesso non ricordano più neppure l’ultimo disco da loro acquistato.
Tutto
questo mentre le nuove cantautrici tirano in ballo questa e quella, ma non Ani
DiFranco, quali antecedenti e influenze e gruppi al femminile quali Sleater
Kinney e Bikini Kill si preparano, Covid permettendo, a trionfi che in vita non
ebbero mai.
Forse
Ani DiFranco non è "rock" ma "folk"? Forse fa troppa
politica? Forse si è "accontentata" un minuto prima di fare il grande
salto? Forse ha compiuto cinquant’anni?
Chi
scrive si ostina a proporre due album quale introduzione: Evolve (2003), con il
vecchio gruppo, i fiati, il jazz, e i salti; e Knucke Down (2005), con la
produzione di Joe Henry, il contrabbasso, gli archi, il chamberlain, e un’aria
a tratti "alt-country" o, se si preferisce, non lontanissima da certi
climi classificabili alla voce "Americana". (Il lettore curioso
troverà le nostre recensioni tra le pagine polverose di questo sito.)
Reduce
da esperienze drammatiche e dolorose, la DiFranco ha in quest’occasione chiesto
a Joe Henry di fungere da "orecchio obiettivo" e da coordinatore di
ultima istanza. I risultati ci restituiscono l’immagine di un’artista che è più
"cantante" e il cui lavoro viene spesso incorniciato "ex
post" sì da rendere le sue interpretazioni maggiormente godibili in un
senso che forse è sì più "convenzionale" del solito, ma tutt’altro
che a prezzo di bellezza ed efficacia.
Lag
Time è una quasi bossa nova che mostra l’artista "stirare" gli spazi
della frase che funge da ritornello. Minerva si aggira tra atmosfere
agghiaccianti accompagnata da una sinistra melodica. Recoil giunge a ribadire
uno spirito di sopravvivenza a dispetto di tutto. "Empowering"?
"Life-affirming"? Splendido in ogni caso.
Godley
& Creme
Cry
La
metà "artistica" dei 10cc (chi avrebbe potuto scrivere "Does
getting into Zappa mean getting out of Zen?", dal brano Art School
Canteen) ha sempre coltivato l’ironia, il gioco di parole, l’immagine filmica
(da Somewhere In Hollywood a One Night In Paris), con un modo poco ortodosso di
fare musica per (quasi) tutti già dai tempi dell’album a nome Hotlegs – Thinks:
School Stinks (1971) – che faceva seguito a quello strano e imprevedibile hit
che l’anno prima aveva colpito (in modi certo diversi) un po’ tutti:
Neanderthal Man.
E
se i 5cc rimanenti avevano proseguito sotto l’antica sigla, Kevin Godley &
Lol Creme erano rimasti a "mettere le virgolette" un po’ dappertutto,
con risultati che li avevano dapprima affondati commercialmente (un triplo
album con ampie parti parlate, Consequences, pubblicato in piena era punk) per
poi consentir loro una dignitosa sopravvivenza con album dimenticati dalle mode
che è bello e non rischioso riscoprire (L, Freeze Frame, ISMISM, Birds Of
Prey), avendo ben presenti le premesse.
Ma
con il passar del tempo il contratto discografico si era rivelato un peso e non
un’opportunità. Da cui, nuova vita e nuova carriera: film-maker. O almeno,
quella versione del mestiere che trovò verdi pascoli nella video-musica e su
MTV (l’elenco dei video diretti dal duo è pressoché infinito, e facilmente
reperibile).
Cry
(1985) è un brano che un quarto di secolo prima avrebbe potuto piazzarsi in
classifica accanto a Stand By Me, ed è il classico "virgolettato" di
cui Godley & Creme erano capaci.
Il
colpo di genio fu l’ideazione di un filmato – si parlò di "morphing",
ma la tecnica usata dovrebbe essere un molto più normale "analog
cross-fading" – che una volta visto è impossibile dimenticare.
Aveva
la musica perso la capacità di narrare senza l’ausilio delle immagini? Cry è un
bel modo di porre l’interrogativo.
© Beppe Colli 2021
CloudsandClocks.net | Jan. 8, 2021