Pick of the Week #14
The Doors
People Are Strange/Strange Days
(Strange Days, 1967)
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di Beppe Colli
Mar. 14, 2021



A volte, per nessun motivo particolare, ci capita di riflettere sulle odierne modalità di consumo, e su quanto esse differiscano da quelle del passato. Cosa che porta spesso a considerazioni non poco paradossali e alquanto differenti da quello che "intuitivamente" ci attenderemmo.

Un computer e una linea (e neppure un residuo di senso di colpa) bastano oggi per ascoltare tutto quello che vogliamo, senza nemmeno doverci ragionare su. In un mondo che si vuole immerso in un continuo presente di tipo puntiforme, senza passato né futuro, il passato tutto intero si offre (gratuitamente) all’esplorazione. E anche se "la sparizione dell’oggetto" (fisico) è acquisizione definitiva, "l’oggetto sonoro" è lì a nostra disposizione, nella sua forma di "file a distanza".

E’ ovvio che l’atteggiamento del fruitore nei confronti del passato varia grandemente con il variare di molti fattori. E che la "compresenza" di tutto trasferisce sul fruitore il compito di trovare "un senso" in grado di "mettere ordine" nella fetta di moltitudine che ha scelto. Ed è anche ovvio che qui non consideriamo il problema della "identità" dell’oggetto: l’assumere quali "identici" agli oggetti originali dei file che possono benissimo non esserlo è un aspetto che per motivi di comodità lasceremo in ombra.

Ma se torniamo con la memoria al tempo in cui iniziammo ad acquistare "dischi" – prima i singoli a 45 giri, poi gli LP a 33 giri (sia chiaro: ricorrere a questi ricordi personali trova giustificazione nel loro riferirsi a comportamenti "tipici") – diventa ovvio che era invece quella l’epoca in cui si viveva "in un eterno presente" (il mutare incessante e rapidissimo della musica rendeva futile l’interesse per il passato ed enorme la curiosità per quello che sarebbe successo l’indomani) in un mondo in cui gli "oggetti fisici" sparivano – letteralmente – da un momento all’altro e per sempre.

All’epoca dei calzoni corti vivevamo in una cittadina di circa 60.000 persone. Pochi negozi – di elettrodomestici, come usava al tempo – vendevano un numero limitato di 45 giri (i negozi di strumenti vendevano spartiti). Cominciavano a nascere – una vera stravaganza – negozi che vendevano solo "musica", ma gli LP erano pochi, e di prezzo proibitivo. Un punto vendita della Standa esponeva al "libero tatto" una lunga fila di LP – ricordiamo Beatles (Rubber Soul e Revolver), Rolling Stones (Between The Buttons) e i soliti italiani (Mina, Morandi, Vanoni) – mentre i 45 giri erano visibili solo "a distanza" (fummo colpiti da un 45 giri di un gruppo chiamato Traffic, nome che trovammo ben strano).

In quella cornice i Doors erano rappresentati da Light My Fire (su singolo, e per radio). Ma in Europa Light My Fire non fu il clamoroso successo americano in grado di lanciare un gruppo, e i 45 giri successivi non si imposero all’attenzione, almeno fino a Hello, I Love You, singolo cui fecero seguito Touch Me, Wishful Sinful, Tell All The People e poco altro. E’ quindi logico che nella cornice dell’epoca i Doors "italiani" venissero accostati a nomi quali Donovan e i Creedence Clearwater Revival, la cui popolarità faceva su e giù con il successo del singolo più recente.

La stampa "per i giovani" era ancora allo stato embrionale, e di inclinazione decisamente commerciale (un nome rappresentativo tra i migliori: i Bee Gees "beatlesiani", un decennio prima della famosa "Febbre"). Stupirà chi non c’era sapere che l’unica recensione di Waiting For The Sun (il terzo album dei Doors, che si apriva con il grande successo Hello, I Love You) che ci fu dato di leggere apparve sul settimanale TV Sorrisi e Canzoni, e lo stesso avvenne con l’album successivo del gruppo, The Soft Parade. (Fu lì che leggemmo la prima recensione di Uncle Meat di Frank Zappa – "un vero genio" – e l’unica di The Hangman’s Beautiful Daughter della Incredible String Band.)

Seguì trasferimento in una città di 400.000 abitanti, con conseguente shock culturale: all’aumento vertiginoso della musica in vendita non corrispondeva, purtroppo, un aumento esponenziale del nostro reddito disponibile. Venne comunque il momento di una decisione storica: l’acquisto del nostro primo LP, il già citato Waiting For The Sun dei Doors.

Con qualche 45 giri "di passaggio" – Touch Me e Wishful Sinful uscirono ben prima dell’album che li ospita – il nostro rapporto con i Doors si trasferì sul formato LP. E quindi The Soft Parade, Morrison Hotel, il doppio dal vivo Absolutely Live e L.A. Woman. Ma al momento della pubblicazione di quest’ultimo titolo non avevamo mai visto né ascoltato i primi due album del gruppo, dei quali conoscevamo a stento l’esistenza. E’ molto probabile che essi fossero apparsi in negozio prima del nostro salto di cittadina, ma a distanza di un anno non ne rimaneva alcuna traccia.

Chi non c’era troverà strano questo fatto, che – si noti bene – accomunava pressoché tutti gli artisti. Per fare un esempio chiaro, trovare in negozio una copia di Ziggy Stardust, Morrison Hotel, Aqualung, Beggars Banquet, Abbey Road e Atom Heart Mother tre anni dopo la pubblicazione non era una cosa da dare per scontata. I riordini erano – non si sa perché – impossibili; rimaneva, presenza eterna, "l’invenduto", il cui prezzo saliva ogni anno.

Allertati da un amico, trovammo finalmente in una bancarella del mercato (fatto strano di suo, allora queste bancarelle da noi non esistevano: si trattava probabilmente di un grossista che aveva tirato le cuoia) i primi due album dei Doors.

L’ascolto ci rivelò una verità "dissonante": il primo album suonava "più nuovo" del secondo; o, se si preferisce, se ci avessero chiesto di indicare l’album più vecchio avremmo scelto senza esitazione Strange Days. Cosa paradossale, dato che sapevamo bene che Light My Fire era contenuto sul primo album, e People Are Strange sul secondo.

In modo del tutto inconsapevole, nel corso degli anni avevamo "appreso" una storia del suono che ci portava a indicare nell’omonimo album di esordio quello dal suono più fresco. E non riuscivamo a capire perché un gruppo che aveva inciso un primo album dal suono tanto moderno avesse deciso di fare un secondo album che suonava più "vecchio".

Va da sé che la nostra maturità di ascoltatori – stendiamo un velo pietoso sul nostro giradischi – non era in grado di illuminarci su cose quali sovraincisioni, nastri rovesciati, numero di piste disponibili e così via, tutti fattori che ci sarebbero stati d’aiuto per una corretta datazione.

(Siamo in buona compagnia: Mark Knopfler ha raccontato di come, ignorando l’esistenza della sovraincisione, cercasse di suonare tutte le parti di chitarra del primo album di Jimi Hendrix convinto che fosse una chitarra sola.)

Il primo album dei Doors ha un suono "che si impone" all’attenzione di chi ascolta, e anche i brani più "riflessivi" – The Crystal Ship, End Of The Night – posseggono quella qualità "esuberante" e comunicativa che è naturalmente propria di Break On Through, Soul Kitchen e Twentieth Century Fox.

Strange Days ha invece un suono nitido ma emotivamente "distante" che rende più "pensierosi" e "meditabondi" anche brani che dovrebbero suonare "esplosivi".

Come dovrebbe essere oggi universalmente noto ma non è, chi ha avuto modo di ascoltare i nastri del primo album dei Doors ha detto di un suono da "garage band" tutt’altro che appassionante che non somiglia affatto ai Doors che tanto amiamo.

Appare quindi evidente che "qualcosa" avvenne – ovviamente, con il consenso di tutti. Molto verosimilmente, un passaggio attraverso uno strato di valvole e l’aggiunta di echi e simili. Un fatto evidente se si ascolta l’album con le orecchie "giuste" dimenticando "un gruppo che suona dal vivo in studio"; cosa che ovviamente avvenne, ma che non si fermò lì.

Interessante notare che Bruce Botnick, il tecnico del suono che lavorò su tutti gli album del gruppo e che dalla morte del produttore Paul Rothchild è di fatto il narratore della loro discografia, non parla minimamente di questo aspetto nel corso dell’episodio della serie Classic Tracks dedicato all’album di esordio dei Doors.

Certo l’atmosfera di Strange Days – registrato nello stesso studio del primo album, ma con l’ausilio di un nuovissimo registratore a otto piste (lo standard dell’epoca essendo ancora il quattro piste) – non è quella gioiosa che forse ci aspetteremmo da un gruppo che ha fatto il gran botto commerciale e sta girando gli Stati Uniti di fronte a folle oceaniche e con l’immagine di "campioni della controcultura" ancora intatta.

Il senso di alienazione di People Are Strange – una ballad essenziale, curata in maniera meticolosa come nello stile del gruppo, ma con perfetto senso della misura – viene fuori con modalità quasi horror nel verso "Faces come out of the rain", e l’apparizione delle voci multiple in finale di brano non fa che rendere più palese questa qualità sinistra.

(Chi volesse una dimostrazione di quello che separa gli ottimi dai solamente bravi ascolti il sottile ritardo con cui il colpo di batteria segue l’entrata di voce che fa seguito all’assolo di chitarra, sì da evitare la sovrapposizione delle due entrate.)

Strange Days (il brano) segue un copione alla Light My Fire: un ritmo latino (una rhumba?), qui giocato sui tamburi, cede il passo a un rullante acuto e cadenzato (in un ritmo che sui vecchi spartiti, nel linguaggio dell’epoca, veniva definito "hard rock") nei momenti strumentali che fanno da raccordo tra le parti cantate. Ma anche qui, dopo l’introduzione di organo, l’atmosfera dice di uno stato di tensione che precede la fuga. E infatti, si segua "As we run from the day/To a strange night of stone": un passaggio la cui tensione è preceduta e sottolineata dal movimento accentuato della cassa, scarsamente udibile nel resto del brano.

La storia ha però una curiosa appendice. Come ricorda chi c’era, la maggior parte delle stampe italiane di quel tempo non si poneva il problema di rispecchiare l’aspetto degli album originali, con risultati a volte repellenti – chi ricorda la ragazza con minigonna e stivali che per noi italiani era la copertina di Green River dei Creedence Clearwater Revival?

La felicità di aver trovato i due album dei Doors non ci fece interrogare sul loro aspetto, né d’altra parte avevamo a disposizione dei termini di confronto. Quindi ignoravamo che nella sua infinita saggezza la Vedette Records aveva usato per il retrocopertina la foto in bianco e nero presente nell’originale sulla "busta interna" insieme ai testi, che ovviamente erano stati eliminati senza rimorso alcuno. (Lo stesso trattamento verrà riservato alla busta interna di The Soft Parade, che nell’originale aveva tutti i testi e quattro foto.)

Non sappiamo cosa accadde alla Vedette e al catalogo dei Doors. L.A. Woman uscì per un altro distributore. E fu solo dopo la fusione tra Warner, Elektra e Atlantic che la neonata WEA iniziò a ristampare parte del catalogo, tra cui i dimenticatissimi Doors.

Si immagini il nostro stupore quando, molti anni dopo il primo acquisto, vedemmo per la prima volta il retrocopertina di Strange Days.

Il fatto curioso è che il frontecopertina – si dirà così? – ospitava un’immagine davvero celebre, già imitata (si dia un’occhiata al secondo album dei Family, Entertainment) e inserita nel primo di quella serie di volumi dell’epoca – Album Cover Album – che celebravano l’estetica degli LP.

Ma nonostante molte parole siano state spese per celebrare la copertina di Strange Days, opera di Joel Brodsky, a partire – ovviamente! – dal suo carattere "felliniano", non abbiamo mai letto una riga a proposito dell’immagine sul retro.

Oggi basta dare un’occhiata a Wikipedia per apprendere che lo stretto vicolo che è teatro della scena – vicolo che appare più largo in virtù del fatto che l’immagine è sapientemente divisa in due parti – si trova a New York e prende il nome di Sniffen Court: un luogo che era già di interesse storico al tempo in cui fu scattata la foto e che lo è tuttora. Dalle foto disponibili in Rete anche le due bianche sculture equestri che appaiono nell’immagine – opera di Malvina Hoffman, che proprio lì aveva il suo studio – dovrebbero ancora essere al loro posto.

La cosa strana è che mentre la narrazione ci ha detto tutto quello che c’era da sapere sui personaggi che si esibiscono sul frontecopertina e sul secondo nano che appare sul retro nessuna fonte da noi consultata nel corso dei decenni ci ha detto alcunché sulla giovane donna il cui aspetto non poco spettrale – la luce per come ci appare non è la stessa dell’altra immagine, e mentre i personaggi "da circo" sembrano esibirsi che è giorno fatto, o al tramonto, la donna sembra essere stata sorpresa in uno stato di semi-veglia – costituisce un eterno motivo di interesse.

Solo una fonte tra quelle da noi consultate attribuisce un’identità alla donna: Zazel-Beth Wilde. Sarà vero?

Chi ha una certa familiarità con la grafica dell’epoca noterà una discreta affinità tra l’espressione e l’atteggiamento della donna e la luce di questa immagine e una tipologia di ritratti che un artista grafico che andava sotto il nome di Keef firmò successivamente per l’industria discografica, a partire dall’album dei Colosseum chiamato Valentyne Suite e dall’album di esordio dei Black Sabbath (la Rete è generosa in quanto a informazioni sulla lunga carriera di questo grafico).

Ma ritorniamo all’immagine di Strange Days e osserviamo la postura sbilanciata della figura di donna colta nel gesto di scendere dal piccolo gradino, indecisa tra la curiosità destata dall’apparizione e l’esitazione dell’ignoto: Strange Days!


© Beppe Colli 2021

CloudsandClocks.net | Mar. 14, 2021