"Close your eyes and you’ll be there"
—————-
di Beppe Colli
Apr. 14, 2021



Per nessun motivo che riusciamo a individuare, mentre pensavamo ad altro, ci siamo ritrovati a prendere in mano dopo tanto tempo il libro di Paul Williams intitolato Outlaw Blues.

Qui ci verrebbe naturale aggiungere "probabilmente il nome Paul Williams dirà poco al lettore odierno", ma a dire il vero quale nome di critico musicale potrebbe oggi dire qualcosa a qualcuno, fatta eccezione per una piccolissima fetta di lettori, molto probabilmente colleghi? Vent’anni e passa ci separano ormai dall’uscita del film del critico musicale diventato regista cinematografico Cameron Crowe intitolato Almost Famous, con annesso il rinverdirsi di già antiche polemiche sul ruolo del critico, su Lester Bangs, sui famosi "rantoli della morte" della povera musica, su chi ha tradito di più e quando. Tutto un mondo che l’avanzare della Rete – con lo scarico e lo streaming e la formula "all you can eat" che è conseguenza dell’economicità della banda larga – ha ridotto a un cumulo di macerie.

Ai suoi tempi, quella di Paul Williams era una figura leggendaria. Per chi ha fretta, e per precisare quali fossero "quei tempi", diciamo che Williams fu il fondatore e la penna principale di quello che è universalmente considerato il primo giornale rock nel senso moderno del termine, Crawdaddy! (con tanto di punto esclamativo), le cui pubblicazioni hanno inizio nel gennaio del 1966, quando Williams aveva diciassette anni. Oltre ad anticipare Rolling Stone, la cui nascita era di là da venire, Crawdaddy! fu la palestra in cui si fecero le ossa nomi poi diventati celebri quali Jon Landau, Sandy Pearlman e Richard Meltzer.

(Il primo amore di Williams era però la fantascienza, cosa che avrà come conseguenza un’amicizia con il famoso scrittore Philip K. Dick, del cui lavoro Williams diventerà il curatore testamentario.)

Il 1969 è anno già abbastanza lontano dalla nascita del rock’n’roll – e del "nuovo rock" degli anni sessanta – da indurre più di qualcuno a mettere mano alla penna e a tentare di stilare un provvisorio "stato delle cose". Migliaia di chilometri, un’età da pantaloni corti e una barriera linguistica al tempo invalicabile ci separarono da quel dibattito. Fu solo nel 1975 che riuscimmo finalmente ad acquisire una copia del volume di Richard Goldstein intitolato The Poetry Of Rock. Mentre per il libro di Williams – un personale "best" di quanto da lui scritto per Crawdaddy! tra il 1966 e il 1969 – ci toccò attendere una provvidenziale ristampa del 2000.

(L’unico Crawdaddy che riuscimmo a leggere fu quello "senza punto esclamativo" di metà anni settanta, e solo perché la stazione radio dove lavoravamo era abbonata al settimanale Billboard e al mensile Crawdaddy, a quei tempi ovviamente molto diverso dalla versione originale.)

E’ un mondo lontano anni luce, dove i testi sono spesso "ricavati" dall’ascolto dei dischi, pericoli interpretativi inclusi, e gerghi e contesti culturali rendono un linguaggio già spesso "ambiguo" di suo ancora più difficile da interpretare.

(Abbiamo già detto in passato di come solo la conoscenza di una persona californiana pressappoco della stessa età di Frank Zappa ci rivelò – erano i primi anni ottanta – la passata esistenza dei "low riders", rendendoci finalmente possibile capire di cosa parlasse Zappa quando diceva di "Fuzzy dice/Bongos in the back/My ship of love/Is ready to attack".)

Sapere già "com’è andata a finire" rende la frequentazione dei "testi sacri" dell’epoca uno strano esercizio (proprio di recente la lettura del lungo articolo scritto da Jon Landau per Rolling Stone quale "chiusura dei Sessanta e inizio dei Settanta" ha provocato in noi un inatteso senso di sconcerto). Quel che più colpisce è la qualità di "esperienza in prima persona" propria a molti scritti del tempo. Vorremmo fosse chiaro il punto principale: non si tratta di un "parere espresso in prima persona", ma di una "esperienza formativa per un soggetto che cambia in tempi che cambiano".

L’orizzonte odierno rende difficile crederlo, ma negli anni Sessanta uno dei temi più importanti erano "le risposte". (Il lettore non farà fatica a ricollegare la questione al famoso ritornello di Bob Dylan che inizia con "The answer, my friend".) E per quanto oggi possa sembrare impossibile a un cittadino del mondo dotato di palmare e connessione ultra-broadband fin dall’età di dieci anni, esisteva la diffusa convinzione che – in virtù del loro genio, del loro peculiare punto di osservazione e delle loro esperienze – alcuni artisti possedessero "le risposte".

La mancata comprensione di questo punto – mirabilmente espresso nella canzone degli Who intitolata The Seeker ("I asked Bobby Dylan/I asked the Beatles/I asked Timothy Leary/But he couldn’t help me either" – detto di passata, un ottimo pezzo di cui a oggi è possibile trovare in Rete un filmato dell’epoca) – rende "misteriosa" la sottovalutazione "tarda" di Paul McCartney in favore di John Lennon e del tutto incomprensibile il livore verso il Bob Dylan che passa da John Wesley Harding a Nashville Skyline. Per non dire del dibattito sulla "sincerità" (o per meglio dire, sulla "mancanza di") di Mick Jagger.

(Quasi tre cartelle, ci auguriamo bastino a chiarire il punto.)


Outlaw Blues è anche il titolo del lungo articolo datato December 1967 con il quale Paul Williams apre il volume. Si discute dei Jefferson Airplane di After Bathing At Baxter’s, dei Rolling Stones di Their Satanic Majesties Request e dei Beach Boys di Beach Boys’ Party. (Il capitolo successivo, Bleshing, tratta del Donovan di Sunshine Superman, dei Buffalo Springfield dell’omonimo album e dei Byrds di Greatest Hits.)

Prendiamo a esempio l’album dei Jefferson Airplane intitolato After Bathing At Baxter’s, che conosciamo a memoria. La lettura del pezzo suscita in noi impressioni contrastanti. Da un lato sembra davvero di ascoltare il disco, con tutte le inflessioni vocali e strumentali fedelmente riportate, ma non in modo pedante e cronachistico. E’ più una descrizione del "sapore" del disco, una "testimonianza" di un’esperienza, che quello che oggi chiameremmo un "lavoro critico". La prosa è lucida e – nei limiti appena citati – decisamente chiara. (Impossibile confonderla con quella di Richard Meltzer o Lester Bangs.)

Quello che però salta all’occhio è che la prosa spesso somiglia al modo molto preciso in cui qualcuno descrive qualcosa che non necessariamente comprendiamo, in ciò ricordando la prosa allucinata di certi dialoghi e descrizioni dei libri di Phillip Dick, laddove è chiaro che si sta parlando con grande lucidità e chiarezza di qualcosa – ma di cosa?

"Questo libro non è quello che pensi sia; e se lo dico subito in questo modo forse mi crederai. La maggior parte della gente vede il rock come un fenomeno; seguendo questa logica io dovrei scrivere un rapporto, una spiegazione o un’esposizione di questo fenomeno. Un bel libro che ti dice cos’è il rock e cosa fa e come lo fa. Ma per me il rock non è un fenomeno – e se lo è, il fatto non è per me significativo – io vedo invece il rock come mezzo di espressione, un’opportunità di bellezza, un’arte. Quindi quello che ho scritto è espressione, non spiegazione, un tentativo di comunicare quello che sento dalla musica, un’esplorazione di quello che il rock fa a me. Leggere il libro non "spiegherà" la musica a te; ma potrebbe avvicinarti alla musica, e a me. E forse l’esperienza di leggerlo ti sarà d’aiuto a "spiegare" il rock a te stesso."

Abbiamo preferito trascrivere (in traduzione nostra) la prefazione di Williams al volume. E dato che ci fa piacere mettere il lettore nelle condizioni di poter capire da sé i termini del discorso, faremo ora riferimento alla recensione dell’album The Kinks Are The Village Green Preservation Society scritta da Williams per Rolling Stone e apparsa in data 6/14/1969 (Williams, che a quel tempo aveva già lasciato Crawdaddy!, era uno dei più grandi fan statunitensi dei Kinks), recensione che è agevole trovare in Rete nella sua interezza.

"Che gioia, fare nuove amicizie! E ogni canzone che Ray Davis ha scritto è un amico per me." (…) "Ogni canzone dei Kinks è un amico. Posso stare a letto pensando a Love Me Till The Sun Shines e pensare a quando la ascolterò di nuovo, felice al pensiero che esista." (…) "Quanti capirebbero il non essere impauriti, finché guardiamo quel tramonto? Siamo in pochi, non c’è dubbio." (…) "L’amore per i Kinks è qualcosa che è correlato a un senso di nostalgia, cosa che a sua volta non ha tanto a che vedere con il tempo e le cose del passato quanto con la "grana sonora" di quanto da noi già ascoltato." (…) "La nostalgia riguarda il riprovare un sentimento già provato prima."

Lasciando al lettore che lo vorrà la possibilità di pervenire a conclusioni diverse, la nostra conclusione è che la dimensione estetica di Williams – perfettamente consonante nella cornice "fluida" della seconda metà degli anni sessanta – mal si adattava a una dimensione lievemente più tarda, in cui la "sistematizzazione industriale" della "musica dei giovani" cerca una cornice più prevedibile (nel senso di meno umorale, e di meno ardua interpretazione).

Lungi dal costituire una "imposizione", questa impostazione è condivisa dalla gran quantità di fan che cercano una "interpretazione scritta" (chi vede l’ascolto come unico momento interpretativo non è interessato alla cosa per definizione).

Peculiarità caratteriali a parte, il Rolling Stone di Jan Wenner è un giornale più aderente allo scenario da noi tratteggiato. Il che non implica necessariamente che Rolling Stone fosse un giornale mercenario o che trattava le cose con disinvoltura, come un’occhiata agli archivi è facilmente in grado di dimostrare (il lettore potrà fare riferimento alla recensione di Jon Landau del primo album di Paul Simon, all’intervista fatta a Simon in parallelo all’uscita del suo secondo album e alla recensione che di quest’album fu fatta da Stephen Holden).


Sotto un titolo "stupefacente" quale "Erba o Coca?" si celava – com’è tipico dei nostri articoli – un efficacissimo rimedio contro l’insonnia.

L’oggetto di "Erba o Coca?" era in realtà l’interpretazione dei testi delle canzoni. L’esempio da noi scelto per aprire il pezzo era il brano degli Steely Dan intitolato Hey Nineteen. Laddove la circostanza se "the fine Colombian" fosse "coca" o "erba" consentiva di collocare l’azione "al presente" (cioè a dire, il 1980) o "al passato" (cioè a dire, la fine degli anni sessanta). La nostra interpretazione ci faceva propendere per la seconda alternativa – la musica tanto simile ai Doors che precede l’inciso che ha inizio con "The Cuervo Gold" ci spingeva in tal senso, anche se siamo pronti ad ammettere che il protagonista poteva benissimo aver messo sul piatto un LP dei Doors anche nel 1980.

Forse perché la nostra prima lingua non è l’inglese, forse perché ci ha sempre incuriosito conoscere il significato dei testi, e sebbene la musica e le parole nel loro aspetto fonetico rimangano sempre il nostro interesse primario, il nostro dialogo con le canzoni procede ininterrotto da diversi decenni. E spesso si tratta delle stesse canzoni, riascoltate nel corso di decenni e che gradualmente rivelano i loro numerosi misteri – gli accordi, le melodie, le tecniche di registrazione, i testi – mentre si arricchiscono dei sensi da noi "scoperti". Cosa che presuppone che le canzoni vengano riascoltate nel corso dei decenni e che l’ascoltatore possegga un set di conoscenze più vasto che in passato.

Un enigma perenne – lasciamo da parte l’oggetto principale, non troppo difficile da decifrare – è costituito dal brano Babylon Sisters, che come Hey Nineteen è tratto dall’album degli Steely Dan intitolato Gaucho. (Ma tutto l’album, a partire dalla title-track, ben si presta all’indagine, anche se a volte l’orecchio si ribella, accontentandosi di presentare alla mente il coro maestoso che tra il gospel e il lirico intona "High In The Custordoooooome".)

"My friends say no don’t go/For that cotton candy/Son you’re playing with fire."

A vederlo così, tutto chiaro. Ma perché gli amici che avvertono il protagonista dell’opportunità di evitare di desiderare "lo zucchero filato" poi lo chiamano "figliuolo", "son", avvertendolo che sta giocando con il fuoco?

Segue discussione in Rete, c’è chi fa notare che a dispetto della contiguità – sulla pagina, e nel cantato – "è chiaro" che chi chiama il protagonista "son" non è uno degli amici, e che il tono imperioso ed esasperato con cui è cantata la frase "Son you’re playing with fire" ci rivela subito che si tratta di una "figura di autorità" che vuole darci l’ultimo avvertimento prima che sia troppo tardi, e forse lo è già.

(Ma com’è che non ci eravamo accorti del cambiamento nel tono di voce?)


Quanto appena detto connota il nostro atteggiamento nei confronti delle cose come uno schema comportamentale "da vecchi". Il che è indubbiamente vero. Qualunque l’oggetto che ci si para davanti, il nostro atteggiamento è quello dell’indagine approfondita e del rapporto duraturo. (Una buona memoria e un cervello funzionante aiutano.) E questo vale tanto per il primo 45 giri da noi acquistato – Penny Lane/Strawberry Fields Forever dei Beatles – quanto per i primi due brani del futuro album di St. Vincent, da non molto in Rete.

Va da sé che tendiamo a ricompensare chi soddisfa il nostro senso estetico in due modi: con la nostra attenzione e i nostri soldi.

Inutile dilungarsi su quanto il nostro atteggiamento sia oggi poco diffuso, con la musica in streaming quale perfetto complemento di mille attività e con i "personaggi" musicali a contendersi aspramente la nostra attenzione con altre mille entità. E dato che la musica è l’ultimo dei requisiti con i quali i "personaggi" si rivolgono a noi, se oltre alla musica non si possiedono altre qualità "visibili" è meglio non provarci neppure.

Gusti personali a parte, crediamo che quanto appena detto spieghi il caso della "mancata popolarità" di artisti quali Ben Folds e Regina Spektor, notoriamente tra i nostri beniamini. Nella sua autobiografia apparsa un paio di anni orsono, A Dream About Lightning Bugs, Ben Folds ha affrontato il problema nel capitolo intitolato Music For The Mating Age, dichiarandosi fuori da quella dimensione giovanile che pure ha un tempo frequentato. Ma posto che a Ben Folds – e a Regina Spektor – rivolgiamo i nostri migliori auguri, crediamo che il problema sia tutt’altro che limitato alla sfera giovanile. E se è vero che esistono ambiti finanziariamente più auto-referenziali di altri, è anche vero che – problemi contingenti a parte – lo schema "mille oggetti per una sola attenzione" è destinato a diffondersi sempre più. Resta la possibilità di uno sforzo deliberato di prestare un’attenzione indivisa. Ma è una prospettiva su cui poter fare conto?


Diremmo che i critici musicali che oggi vantano la maggiore notorietà sono (in ordine alfabetico) Robert Christgau e Greil Marcus. Con il secondo meglio piazzato in ambiti "accademici" e il primo – pur assiduo frequentatore di cattedre "di cultura" – quello con maggiore visibilità "sociale".

Per celebrare i cinquant’anni di attività, Christgau ha pubblicato per la Duke University Press due antologie: Is It Still Good To Ya? – Fifty Years Of Rock Criticism – 1967-2017 (2018) e Book Reports (2019).

Per celebrare degnamente l’evento, Marcus ha intervistato l’amico e collega. La conversazione è apparsa in Rete su Rolling Stone in data November 8, 2018 con il titolo di Monsters Of Rock Criticism.

E’ una conversazione la cui lettura ci ha messo di cattivo umore, un dialogo dove trapela di continuo la preoccupazione di farsi i complimenti l’un l’altro come "gli ultimi rimasti che però ancora non demordono". Due critici ancora percettivi e attivi, tra i pochi rimasti, ma gli unici che possono dire "noi c’eravamo fin dall’inizio".

A questo punto il lettore potrebbe chiedere come mai non abbiamo dato notizia della cosa, magari con una bella recensione dei due volumi. Sarebbe una domanda legittima, potremmo cavarcela rispondendo che il nostro sito era chiuso.

La verità sta nei numeri: i due volumi consistono di più di ottocento pagine (cumulative) scritte in carattere ridotto e con uno spazio interlineare pressoché inesistente. Diciamo che si tratta di più di mille pagine. Per leggere tutto ci abbiamo messo l’equivalente di tre mesi, indubbiamente favoriti dal fatto di avere già letto alcune di quelle recensioni sul sito statunitense di Barnes & Noble, presso i quali Christgau aveva una rubrica fissa.

Il lettore è pregato di farsi questa domanda: avrebbe avuto l’interesse, e quindi la forza, per leggere un resoconto dei problemi posti da questi volumi?


Stante la nostra stretta frequentazione di Robert Christgau il lettore potrà trovare sorprendente sapere della nostra poca affinità con il suo lavoro. Di più: da quando abbiamo iniziato a leggerlo – abbonati (fuggevolmente) a Creem nella seconda metà degli anni settanta ci trovammo la sua Consumer Guide, completa di voti espressi in lettere – abbiamo avuto l’impressione che la sua comprensione della musica fosse decisamente magra, con la nostra successiva frequentazione dei suoi archivi a confermare il nostro giudizio: dai Can a Peter Hammill passando per David Bowie è peggio che andar di notte, e siamo convinti che siano stati il punk, la disco e la new wave a rendere possibile una transizione tutto sommato indolore ai "tempi moderni".

Quel che è certo è che il Christgau antico professa una certa antipatia per il lavoro dei critici che suonano uno strumento: un buon esempio è la recensione del volume di Jon Landau It’s Too Late To Stop Now: A Rock And Roll Journal (1973), laddove Christgau argomenta: a) che quella comprensione conta poco rispetto a una trattazione di tipo "culturale"; e b) che il miglior saggio del libro tratta di un argomento di cui Landau è appassionato ma non esperto: la boxe; concludendo infine che "è possibile che nella "popular culture" la competenza specialistica inibisca il lavoro ambizioso, più che favorirlo".

Il che ci porta alla recensione congiunta fatta da Christgau dell’autobiografia di Carrie Brownstein delle Sleater Kinney, Hunger Makes Me A Modern Girl, e del volume autobiografico di Patti Smith intitolato M Train (Barnes & Noble Review, January 13, 2016). Avendo letto l’intero corpus dedicato da Christgau alle Sleater Kinney, inclusa la recensione del cofanetto fatta per Billboard, non eravamo mai riusciti a capire che tipo di musica facessero le Sleater Kinney. Avendo ascoltato tre pezzi in tutto, abbiamo immediatamente riconosciuto la musica come descritta dalla stessa Brownstein in un passo citato nella recensione di Christgau:

"Lei spiega come l’accordatura "totalmente arbitraria" in Do diesis di Corin Tucker produce "un gusto acidulo, un’oscurità che devi superare se vuoi creare qualcosa di veramente armonioso". Come la responsabilità congiunta nei confronti del registro basso del trio fa scontrare e intrecciare le chitarre. Come le loro chitarre duellanti unite alle contromelodie vocali – scelte al posto di armonie – presentano all’ascoltatore il dilemma di cosa seguire."

Espressa confusamente, tradotta in modo poco elegante, è però un abbozzo di descrizione che rende l’idea della musica del trio.


Quando vuole, Christgau sa essere vendicativo. Un buon esempio è l’articolo intitolato Impolite Discourse, apparso sul Village Voice quasi in contemporanea all’apparizione del già citato Almost Famous. Non è una lettura per stomaci deboli, come Jim DeRogatis, Richard Meltzer e Nick Tosches (discussi insieme a Lester Bangs) ben sanno. (Intervistato sul sito RockCritics, Meltzer si trovò a replicare.)

Un altro esempio è la recensione del libro di Jim Miller intitolato Flowers In The Dustbin: The Rise Of Rock And Roll 1947-1977, anch’essa apparsa sul Village Voice: non è l’unica sfavorevole che abbiamo avuto modo di leggere, ma qui quello che colpisce è il tono, davvero "vitriolic".

Per contro, Christgau è apparso non disdegnare rivolgere lodi ai meritevoli, che in tempi recenti hanno le sembianze di Carrie Battan, Amanda Petrusich e Linday Zoladz. L’inclusione più strana del volume Book Reports è una recensione inedita del 2018 riguardante un libro che diremmo senz’altro minore, The First Collection Of Criticism By A Living Female Rock Critic di Jessica Hopper, libro che qui sembra fungere da "uomo di paglia" al solo scopo di opporre alla modestia dell’autrice la bontà, l’ampiezza e la profondità del lavoro delle tre grazie sopra citate. Ce n’era proprio bisogno?


Qualche problema di salute e un peregrinare ormai più che decennale da un lavoro all’altro non hanno tolto lo smalto a Christgau, che in uno spirito imprenditoriale tipicamente americano ha creato un servizio critico per abbonamento. (La cui consistenza reale non è, ovviamente, a noi nota.)

Christgau è stato forse quello che più ha preso le parti di musiche "marginali" (in senso culturale), ma i recenti sconvolgimenti sembrano avere messo la sordina al lavoro critico, rendendolo infine inutile.

Mentre un tempo l’oggetto del discorso artistico era la musica – che era sì frutto di una personalità creatrice ma che era in grado di avere un’esistenza separata da essa e che come tale poteva essere discussa – oggi ogni discorso sulla musica viene fatto uguale al discorso sulla personalità di chi la crea, in una incarnazione paradossale dello show-biz in cui il non-artistico viene fatto uguale alla totalità.

E sono gli stessi artisti che – per inconsistenza, vanagloria o paura di annoiare – si affannano a mettere in mostra se stessi, in una moltiplicazione del credo bowiano che solo aveva un senso finché era esemplare raro.

Esiste ancora, ovviamente, una musica-musica, ma esiste ancora un pubblico in grado di tenerla in vita?

Emergenze a parte, ci troviamo a dubitarne.


© Beppe Colli 2021

CloudsandClocks.net | Apr. 14, 2021