Pick of the Week #19
Mo’ Outliers
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di Beppe Colli
Apr. 28, 2021



Dopo una veloce ricognizione, ne abbiamo scovati altri cinque.



Jim Aikin
Light’s Broken Speech Revived (1993)

Oggi apprezzato autore di libri di fantascienza, Jim Aikin resta nel cuore di molti quale firma eccellente del periodo migliore del mensile statunitense Keyboard accanto a illustri colleghi quali Tom Darter, Dominic Milano e Bob Doerschuck. Un lavoro sempre al passo con i tempi senza mai dimenticare di guardarsi indietro, una competenza musicale e tecnica di prim’ordine, un’onestà e un’etica del lavoro in grado di fungere da modello, risorse economiche permettendo.

(Il punto delle risorse merita un chiarimento: o si hanno a disposizione il tempo e la competenza per esplorare uno strumento per davvero o bisogna prendere per buono quanto dichiarato dal fabbricante. E lo stesso vale per i software, i mixer e quant’altro.)

Nel corpo della rivista Aikin si ritagliava anche degli spazi – ricordiamo rubriche a cadenza mensile quali Other Windows – a carattere maggiormente "filosofico", in una cornice che chiameremmo "pragmatica".

Non fummo troppo sorpresi nell’apprendere che Jim Aikin aveva pubblicato un CD, che acquistammo subito. Nello stile "pragmatico" che diremmo "tipicamente americano" le note di copertina ribadivano l’apprezzamento per la musica "manuale" (Aikin è anche un bravo violoncellista) ma asserivano "(…) I think there’s a virtue in working within your means, in getting the most out of the tools you have at your disposal".

Tutta la musica contenuta nell’album era stata realizzata su sintetizzatori e computer e mediante "MIDI sequencing", con l’autore ad avvertire che non si trattava di "automatismi", e che per realizzare un brano di cinque minuti c’erano volute più di cento ore di lavoro.

E la musica? Dobbiamo ammettere che l’ascolto del CD ci lasciò un po’ freddi – un eccesso di aspettazioni da parte nostra, forse, ma anche l’attendersi una dimensione maggiormente "sperimentale" nelle composizioni e nelle timbriche. Ricalibrato il nostro atteggiamento, apprezzammo senza difficoltà la chiarezza e la limpidezza – quasi "bachiana" – degli sviluppi musicali, il loro arricchirsi di timbriche appropriate che ogni tanto lasciavano trapelare un’influenza – Kerry Minnear, Keith Emerson: sfumature, non copie – per un’ora di durata che non arrivava mai a stancare.

L’album è rimasto nel tempo a farci compagnia, da cui la nostra curiosità di sapere qualcosa sulla sua disponibilità oggi. Sorpresa: non solo l’album è disponibile su Bandcamp (il lettore è invitato a prestare particolare attenzione al brano intitolato The Sergeant), ma a fargli compagnia ci sono altri album realizzati in seguito e dei quali non avevamo avuto notizia.

In attesa di un volume di memorie su Keyboard.


Camel
Rain Dances (1977)

Siamo pressoché certi che in molte case l’eventuale possesso di un album dei Camel non costituisca una stranezza, nella nostra sì. Il lettore sarà forse stupito nell’apprendere che la nostra "antipatia congenita" nei riguardi della musica di questa formazione ha una radice prettamente irrazionale: un brano tratto dall’album intitolato The Snow Goose – lo definiremmo un temino modesto per flauto – era la sigla d’apertura del programma radiofonico che aveva inizio alla fine del nostro turno in radio; eravamo di fatto costretti ad ascoltarlo quasi ogni giorno. Si aggiunga la personalità "destrorsa" del conduttore del programma, a noi ben nota fin dai tempi del liceo, e il quadro è completo.

Neppure la circostanza che due musicisti a noi cari – il bassista e cantante Richard Sinclair, già Caravan e Hatfield And The North, e il fiatista Mel Collins, ex King Crimson – fossero in seguito entrati nella formazione ci indusse a cambiare atteggiamento.

Molti anni dopo ci capitò di trovare nella classica "cesta" una copia del CD Decca di Rain Dances, prodotto da Rhett Davies, che ne aveva anche curato la parte tecnica. Procedemmo all’acquisto, e anche se ci tocca dire che la nostra esplorazione della musica del gruppo si fermò quasi subito – con Breathless (1978), prodotto da Mick Glossop e trovato in un’altra cesta – Rain Dances è entrato nella lista dei titoli da prendere in considerazione quando non abbiamo voglia di ascoltare… qualcosa in particolare.

Il che illustra perfettamente il nostro personale punto di vista sui Camel: quasi tutto nella loro musica è stato suonato anche da altri, prima e meglio.

Ci sentiamo però di dire che su Rain Dances – all’epoca la stampa strombazzò la partecipazione di Brian Eno, a quel tempo "gusto del giorno", ma è una presenza che neppure si nota – tutto va al posto giusto.

Parti strumentali misurate e garbate, melodie vocali accattivanti, assolo chitarristici non debordanti, timbriche gradevoli, una seconda facciata strumentale che non annoia… insomma, niente difetti. E per chi non conosce "gli originali" – ma attenzione: qui si parla di "affinità di approccio", non di "copie" – l’album funziona.

Se prendiamo a paragone la musica dei Supertramp di Crime Of The Century prodotto da Ken Scott, lì c’erano quelle canzoni che asciugate e ripresentate fecero il grande successo di Breakfast In America. Mentre qui quelle canzoni non ci sono.

Riascoltando l’album proprio l’altro giorno – la voce di Andrew Latimer in primo piano, quella di Richard Sinclair un po’ indietro e sulla destra, con diverso "ambiente" ed equalizzazione – riflettevamo su come sia (quasi?) sparito il tipo di ascoltatore che dedica un orecchio attento alla cura certosina di cui Rain Dances è ottimo frutto.


Jerry Garcia/Howard Wales
Hooteroll? (1971)

Quando quest’album fu pubblicato – eravamo ancora al liceo, l’amico che ce lo fece ascoltare aveva un paio d’anni meno di noi: dove l’avrà trovato? forse un fratello maggiore in quel di Londra? – Jerry Garcia era figura "mitica e leggendaria" e i Grateful Dead quelli di Live/Dead e della chilometrica versione dal vivo di Dark Star.

E’ una cornice "controculturale" di cui si è quasi completamente persa la memoria, nonché la capacità di valutare le cose correttamente – e chissà che impressione fanno oggi film quali Easy Rider e Zabriskie Point.

Da quel che abbiamo capito, il sodalizio con l’organista e pianista di stampo jazzistico Howard Wales (per quel che vale, se aiuta: a metà strada tra Jimmy Smith e Larry Young) nacque nel corso di "jam session" dove Garcia suonava su accordi "diversi".

All’epoca il disco si ascoltava senza farsi troppi problemi, con l’aiuto di note di copertina inesistenti (niente data d’incisione né nome degli studi in cui l’album era stato realizzato, e l’edizione in CD in nostro possesso si attiene fedelmente a questo copione). Mentre di recente abbiamo appreso che il lavoro era al centro di un ardito tentativo di far cambiare etichetta al gruppo, roba che solo a leggerla viene il mal di testa.

L’impianto compositivo è di Howard Wales, a tratti con organo "swingante", a volte con calma pianistica quasi da musica da film. Aiutano sax e tromba, basso e batteria, una chitarra ritmica. Co-protagonista dal vivo, Garcia qui si adatta a una cornice già pronta, con gran belle uscite con wha-wha in evidenza e momenti lirici con chitarra pulita. Se all’epoca il nome che ci veniva in mente per le parti maggiormente spericolate era quello di Frank Zappa (che Garcia certamente conosceva, Hot Rats compreso), l’ascolto recente ci ha diretto su The End Of The Game di Peter Green, sia per il wha-wha che per i momenti "puliti" (la cornice è del tutto diversa). Il che è davvero paradossale, dato che gli album sono stati incisi in parallelo.


Stuff
Stuff (1976)

Un soul-funky garbato, ben eseguito, esuberante e pimpante, con un bel lavoro sugli accordi, tastiere tipiche – organo Hammond, pianoforte di quelli veri, piano elettrico Fender Rhodes – a intrecciarsi e sovrapporsi, due chitarre dal timbro dissimile, per un suono che all’epoca era già straripato in radio e quale accompagnamento per tanti cantanti (ricordiamo che alcuni dei musicisti in questione compaiono nel film di Paul Simon intitolato One Trick Pony, alla cui colonna sonora – che vale un riascolto – hanno attivamente partecipato).

E siamo certi che i nomi di Eric Gale, Cornell Dupree, Richard Tee, Steve Gadd, Gordon Edwards e Chris Parker – non tutti, non a tutti – qualcosa dicono ancora (Wikipedia è a portata di click, con le sue chilometriche discografie).

Stuff è l’esordio della formazione, di lì a poco confermato da More Stuff e Live In New York. E qui si parla di mezzo milione di copie ciascuno.

Ovviamente qui "mancano" le canzoni, ma non mancano le melodie e i groove. Fa riflettere, oggi, accorgersi "per opposizione" di quanto siano diventati meccanici i groove odierni, con questi brani dal sapore "fatto in casa" a suonare come una cosa d’altri tempi.

Epperò ricordiamo che di questo gruppo, e di questo album, si innamorò la "jazz composer" Carla Bley, che li volle e li impiegò alla grande per quell’album tanto accattivante che è Dinner Music. Dobbiamo confessare di aver provato in certi momenti a canticchiare qualcuna di quelle melodie su delle arie di questo disco: diremmo che funziona.


Morton Subotnick
Touch (1969)

A dare un’occhiata in giro, Morton Subotnick è "quello di Silver Apples Of The Moon", pionieristico lavoro frutto di sintesi: è il 1967, e il sintetizzatore è quello di Tom Buchla, privo di tastiera e buon mezzo di "esplorazione sonora". Qui si può riflettere – e non è una riflessione originale – sul fatto che grazie a un LP acquistabile in negozio un lavoro di "musica classica sperimentale" (ché di questo si tratta, nei termini del tempo) viene rappresentato non più in una sala da concerto con tanto di abbonamento ma nel soggiorno di ognuno, magari dopo una bella "canna" (i tempi questi sono, e l’affinità dei climi culturali californiani per la musica "sperimentale" è ben nota).

Chi scrive ha invece sempre avuto una predilezione per questo lavoro di Subotnick, acquistato (sigillato) nel corso dei primi anni settanta: la copertina è quella originale, il vinile potrebbe essere frutto di una seconda stampa, ma il missaggio è quello originale.

Per dare un’idea del tempo trascorso, diremo qui che chi scrive ignorava del tutto l’esistenza dei sequencer, elemento fondamentale per la creazione di questo lavoro. Da cui la nostra difficoltà a immaginare una mano tanto veloce da eseguire quel fiume di note che di tanto in tanto si mette a viaggiare tra i due canali.

Un disco stereo, tra parentesi, con saette sonore che vanno e vengono, tempeste percussive, un’influenza netta che proviene dai metallofoni del sud-est asiatico, un dialogare tra fasce sonore su piani diversi, su canali diversi.

Tre suoni vocali veri – "t" "ou" "ch", con quest’ultimo a ricordare uno sfregamento, il secondo pronunciato "à" – e quattro piste di sintesi, con le due facciate rispettivamente suddivise in "veloce, lento, veloce" e "lento, veloce, lento".

Momenti di silenzio a iosa, dinamica sonora pazzesca, emozioni a tutta forza. Di tanto in tanto viene alla mente il lavoro di Tod Dockstader, mentre a tratti dei suoni cavernosi o delle "marimbe artificiali" portano all’orecchio il ricordo del Frank Zappa di Jazz From Hell.

Non per il gusto della complicazione, diciamo che sulle prime abbiamo ascoltato il brano su una ristampa in CD del 1989, ricavandone un’impressione un po’ così: capita che dopo tanti anni un brano musicale si ritrovi privo del suo fascino originale. Ma poi abbiamo ricordato che l’edizione in questione è rimissata, ri-equalizzata e ri-riverberata.

(Per un pelo non ci restavamo secchi: a brano finito, nel più completo silenzio, sentiamo distintamente una voce femminile uscire dalle casse e dire le seguenti parole: "There is in the British Museum an enormous mind". Ovviamente avevamo dimenticato che il CD in questione ospita due lavori diversi, e il secondo era già iniziato.)

Allora ci siamo decisi: abbiamo tirato fuori il vinile originale, messo il volume dell’amplificatore a "forte, con prudenza" e il lavoro è venuto fuori coinvolgente, emozionante, timbricamente bello e nuovo, un’esplorazione sonora e non un pesce surgelato. Il lettore interessato all’ascolto in Rete è avvisato.

(Certo che a dispetto delle vendite, per i tempi fenomenali, la Columbia non curava molto la qualità del vinile di questa musica. La versione di Touch in nostro possesso è della Columbia Masterworks, e non è un capolavoro di silenzio. Ma lì accanto, a ricordarci "i bei tempi del vinile" c’è la copia Columbia Odyssey di Until Spring del 1976, che abbiamo cercato inutilmente di riascoltare, e ne abbiamo ricordato il perché: copia sigillata, e il vinile privo di copertina interna alloggiato direttamente nel cartone, un vinile riciclato alla bell’e meglio – erano i tempi successivi al primo shock petrolifero.)


© Beppe Colli 2021

CloudsandClocks.net | Apr. 28, 2021