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Shelby
Lynne
Tears, Lies, And Alibis
(Everso)
Il plauso
pressoché unanime espresso dai critici e la buona risposta da parte del
pubblico nei confronti di Just A Little Lovin’, il riuscitissimo album
contenente versioni personali di brani normalmente associati alla voce
di Dusty Springfield pubblicato due anni or sono, sembravano implicare
la promessa di una strada decisamente liscia per il futuro discografico
di Shelby Lynne. In verità il responso di vendite, pur buono, non era stato
propriamente da Top Ten, ma in casi come questo diremmo che il clima commerciale
ben noto a tutti renda quasi obbligatorio un riposizionamento delle aspettative.
Da parte nostra eravamo certi che la buona accoglienza riservata a un album
di cover avrebbe propiziato il ritorno discografico di quelle belle canzoni
originali (temporaneamente) messe da parte in quanto ritenute di possibile
appeal (solo) per un pubblico "dal gusto selettivo". Il che dimostra
quanto facilmente ci si possa sbagliare.
Tears,
Lies, And Alibis – il nuovo album di Shelby Lynne recentemente pubblicato
– è qui, e come da noi sperato contiene solo composizioni originali. L’etichetta
non è però la Lost Highway (e vedremo se la cosa si rifletterà su numero
e tono delle recensioni) ma la… Everso. In una parola, autogestione.
Del tutto inutile a questo punto riflettere sui motivi (peraltro intuibilissimi)
della separazione. Più sensato vedere come l’artista ha gestito concretamente
la cosa.
Come
logico, troviamo qui la Lynne nel ruolo di produttore. Album registrato
al Rancho Mirage, in California, e al Rendering Plant di Nashville; coproduzione
e parte tecnica a cura di Brian Harrison, qui presente anche in veste di
strumentista. Vengono confermati due nomi che avevano avuto una non piccola
parte nel successo (artistico) dell’album precedente: Al Schmitt, assistito
da Steve Genewick, al missaggio (effettuato nei famosissimi Capitol Studios,
Hollywood, California); e Doug Sax alla masterizzazione.
L’album
suona splendidamente: ha molto livello, ma non è affatto piatto o stancante,
con il piacere dell’ascolto che non diminuisce quando la manopola del volume
va verso l’alto. Arrangiamenti (volutamente) semplici, con la voce logicamente
al centro, a coinvolgere nella narrazione. C’è una buona quantità di strumenti:
molteplici chitarre (acustiche, elettriche e steel); bassi e batterie;
tastiere (ritroviamo in qualche brano un nome storico come Spooner Oldham);
anche dei fiati (i clarinetti, del tutto inattesi, sul finale di Rains
Came; i sassofoni a sostenere il ritornello brioso di Why Didn’t You Call
Me). L’apporto strumentale è sempre sottile e discreto, il miglior esempio
a parere di chi scrive essendo la bella frase discendente del pianoforte
sulla lenta ballad Like A Fool.
L’album
ha una prima parte più briosa e accattivante, e una seconda (facciata)
più acustica e intima dal tono che diremmo senz’altro più teso, anche se
poi la conclusiva Home Sweet Home favorisce una certa qual chiusura in
parallelo alla funzione svolta da One With The Sun su Identity Crisis.
Quasi uno spartiacque tra le due "facciate", l’ode a una roulotte
(un camper) intitolata Something To Be Said About Airstreams che speriamo
venga presto scelta per i titoli di coda di qualche film o serial miliardario.
Apre
la scattante Rains Came, con l’energia che aveva la sezione McCartney sulla
beatlesiana A Day In The Life; brioso assolo di chitarra elettrica, clarinetti
sul finale. Why Didn’t You Call Me è un mid-tempo dal sapore soul, il fraseggio
vocale a mezza strada tra Aretha Franklin e Dusty Springfield. Like A Fool
è una ballad dalla resa intensa; buon inciso (qui, come altrove sull’album,
la Lynne dimostra di aver dedicato una particolare cura compositiva a questo
componente tanto importante quanto oggi sottovalutato). Alibi è un’altra
soul ballad intensa dal bell’inciso. Di Something To Be Said About Airstreams
si è già detto; come su altre parti dell’album, segnaliamo un bel fruscio
che ci riporta immediatamente alla dimensione analogica del nastro dei
tempi originali dell’LP.
Family
Tree è contraddistinta da una tesa performance acustica; paradossalmente,
la chiusa del brano vede una breve coda dal sapore "campfire" con
banjo, voci corali e battito di mani. Loser Dreamer accoppia una melodia
vocale
"classica" a uno sfondo (appropriatamente) onirico quasi
"ambient", con slide, steel e armonica; anche qui, bell’inciso.
Old #7 è un "walzer country" con steel, slide, e bell’assolo. Old
Dog è una tesa "country ballad" con chitarre acustiche a go-go
e una voce maschile all’unisono. Appropriatamente pigra, gran bell’inciso,
Home Sweet Home chiude degnamente un album in grado di rivelare con gradualità
il proprio fascino all’orecchio attento e ben disposto.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2010
CloudsandClocks.net
| May 11, 2010