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Altri ![]() Una scena che ci riporta agli anni sessanta e settanta, quando il binomio mare-radio (e, durante l'inverno, quello studio-radio) era un'accoppiata inscindibile. Abbiamo spesso l'impressione che chi è venuto dopo - per tacere di chi si è poi formato nell'era "scaricafacile" della musica intesa come oggetto "immateriale" di pronto e ubiquo consumo - abbia una certa difficoltà a cogliere i dati salienti dell'ascolto radiofonico di quel tempo (un retroterra che, senza per questo volerne fare un modello generativo, ci pare di cogliere nel multistilismo che caratterizza non pochi dei critici rock "storici"). La cosa è ovviamente comprensibile: se la memoria storica tende al ricordo di quanto fu clamoroso, dirompente e atipico - è il caso delle "pirate radio" inglesi (ben rappresentate da un film quale The Boat That Rocked, intitolato Pirate Radio negli Stati Uniti e in Canada e I Love Radio Rock in Italia) o delle leggendarie stazioni in FM statunitensi di città come New York, Boston o Berkeley - la cornice moderna che vede il consumatore quale signore assoluto di un numero potenzialmente infinito di "libere scelte" non può che far percepire l'ascolto "passivo" di quanto imperscrutabilmente deciso da un'unica fonte come quanto di più simile a una "dittatura culturale". A ben vedere questa è però una definizione che meglio si attaglia a quel concetto moderno di "narrowcasting" (solo hip-hop, solo metal, solo pop, solo r&b, solo country, solo oldies) che mira all'inquadramento millimetrico del bersaglio. Quello che ci piacerebbe ricordare di quell'epoca è il rapporto esistente tra "innovazione" e "norma" come vissuto da un normale ascoltatore. Una pratica possibile laddove tante cose diverse vengono presentate una di fianco all'altra, rendendo così agevole (a chi lo volesse) percepire (sottili o dirompenti) differenze in aspetti quali suono, timbri vocali o strumentali, testi, melodie, accordi, costruzione dei brani e via dicendo. E' un aspetto dell'ascolto che ha (potenzialmente) in sé molto di "didattico" senza però esserselo mai posto coscientemente quale scopo (se non nel senso implicito in una gerarchia dei prodotti culturali). Chi oggi vede solo l'aspetto "totalitario" (ascoltare tutti obbligatoriamente la stessa cosa) non riesce a percepire né l'aspetto di "esperienza condivisa" (che rende un oggetto "letto" e "variamente interpretato" simultaneamente da ampie fasce di popolazione) né quello di "novità" (pensiamo a brani quali Satisfaction, Like A Rolling Stone e Strawberry Fields Forever nella cornice sonora del loro tempo). ![]() Se alcuni scritti di Williams sono da tempo accessibili in Rete - da parte nostra ricordiamo le belle recensioni di The Kinks Are The Village Green Preservation Society (insieme a Mendelssohn e Christgau Williams fu uno sfegatato fan del gruppo inglese) e dell'omonimo album di esordio dei Procol Harum - crediamo difficile non consigliare quale "lettura estiva" quella raccolta del "meglio" scritto da Williams per il Crawdaddy! del periodo d'oro racchiuso in Outlaw Blues, originariamente pubblicato nel 1969 e ancora oggi disponibile a un prezzo molto basso in versione paperback. Quello di Williams è un processo di pensiero molto lento e articolato espresso con un linguaggio e un periodare preciso e meticoloso e - con apparente paradosso - dagli esiti molto spesso sorprendenti. (Il parallelo più calzante è a nostro avviso quello con il rapporto tra prosa e idee esistente nel lavoro di Philip Dick.) Come messo in evidenza nell'introduzione originale scritta da Michael Lydon, l'attenzione di Williams per la musica include (del tutto logicamente) "(...) lo spazio che separa le canzoni sull'album The Byrds Greatest Hits" (...) "quel tempo tra le canzoni, quel momento pieno di riflessione e di rimpianto per la canzone che è appena terminata e di viva attesa per la canzone che sta per arrivare". Il volume comprende capitoli su Rolling Stones e Jefferson Airplane. Donovan, Buffalo Springfield e Byrds. Trenta pagine su Dylan. Sessanta su Brian Wilson e Smile. Cronologie musicali dell'epoca. Istantanee su San Francisco. Una lunga (ed eccellente) intervista con Paul Rothchild sulla realizzazione dell'album di esordio dei Doors e una percettiva recensione del suddetto album, con grande spazio dedicato a senso e funzione narrativa del verso di Soul Kitchen che recita "Learn to Forget". (Un pensiero va a quanti dopo aver letto il pezzo di Williams andranno in negozio o in Rete per procurarsi l'album d'esordio dei Doors... in una versione rimissata e stravolta che lascerebbe di stucco sia Williams che Rothchild!, e che è l'unica attualmente in commercio in formato digitale.) ![]() La prima cosa che si nota scorrendo l'indice del volume di Cott (un critico, sia detto tra parentesi, un tempo molto noto e apprezzato, pur se oggi poco menzionato, diremmo soprattutto in ragione di una grave malattia che ne ha reso sempre più sporadica la produzione) è la sua enorme versatilità: scritti su Stravinsky, Partch, Ives, Varèse, Gould, Weill... e Yoko Ono, Buddy Holly, John Lennon e Patti Smith. Quello che più ci piace sono però le sue approfondite interviste, e anche qui la varietà non è minore: George Balanchine, Pierre Boulez, Steve Reich, John Adams, Leonard Berstein (un'intervista che ricordiamo di aver letto al tempo della sua prima uscita sulla rivista statunitense Rolling Stone), Michael Tilson Thomas... e John Lennon, Ray Davis, Bob Dylan, Mick Jagger, Van Morrison. Sia qui concessa una breve parentesi per il lettore italiano. Chi ricorda la copertina di questo piccolo libro uscito in Italia nel 1974 (L. 1.000) conosce già una (piccola) parte del lavoro di Jonathan Cott. ![]() Il volume rendeva disponibile, in traduzione, una serie di interviste precedentemente apparse su Rolling Stone. Ed era gente del calibro di Frank Zappa, Mick Jagger, John Lennon, Grace Slick e Paul Kantner, James Taylor e Carly Simon, Elton John. Chiediamo al lettore più giovane un grosso sforzo di riposizionamento: non ancora esistente Internet, perfino la reperibilità in edicola di riviste in lingua estera era qualcosa di poco comune. Per non parlare del grado di conoscenza di quella lingua che si sarebbe dovuta padroneggiare! Da cui, il prosperare dell'industria del tradotto. Va da sé che le interviste del volume erano tradotte in maniera a volte fantasiosa, con tagli "a piacere". Quella di Cott a Mick Jagger, decisamente pregevole, l'avremmo poi recuperata in un volume miscellaneo dei primi anni settanta curato da David Dalton. Quella a Lennon l'abbiamo poi letta per la prima volta in lingua originale solo nel volume di Cott di cui si dice adesso. Belle le due interviste a John Lennon (sono la prima e l'ultima da lui date a Rolling Stone), come pure le due conversazioni con Bob Dylan (del '77 e del '78). Mick Jagger si disimpegna bene al suo solito al tempo di Some Girls ('78), fluisce il Van Morrison del '78. Quella a Ray Davis (realizzata nel 1969, ai tempi di Arthur, e pubblicata su Rolling Stone l'anno seguente) è senz'altro l'intervista più bella e toccante da noi letta tra le molte che lo hanno visto protagonista. Ritroviamo l'approccio "a tutto campo" utilizzato con Ray Davis nella lunga conversazione con Leonard Berstein e in quella, più breve ma non meno densa concettualmente, con Michael Tilson Thomas. E proprio da quest'ultima (effettuata nel 1999) offriamo al lettore un breve estratto: "Una delle cose che oggi stiamo facendo è tramutarci in un tipo di società impaziente ed egoista; credo di poter dire che stiamo fabbricando dei "cambiacanali" senz'anima, dato che ci sono così tante possibilità che per il minimo impulso capriccioso qualcuno salterà su un altro canale. (...) E poi la durata dell'attenzione massima che si riesce a prestare diventa sempre più breve, e la gente perde il senso qualitativo di quello che dovrebbe attendersi dall'arte." E questa è oggi la situazione. © Beppe Colli 2010 CloudsandClocks.net | Aug. 1, 2010 |
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